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1965
Il
mio amico Nicola (Nico), greco di nascita ma che di greco ben
poco conservava essendo cresciuto a stretto contatto con coetanei
italiani, acquista un vecchio Jeep, lo rammenda alla meno peggio
e comincia a sbizzarrirsi con gite di caccia nelle zone a nord
di Massawa, verso il Sudan, e nel bassopiano orientale ove la
selvaggina è varia ed abbondante. A me la caccia non è
gradita, detesto veder morire gli animali per cui non mi unisco
mai a lui anche se, buon amico, spesso insiste a cercar di farmi
abbandonare Balilla, Cadigia e la mia consueta solitudine ed
avermi con lui. Un giorno iniziamo a parlare della Dankalia,
una parola tira l'altra, la stagione è propizia essendo verso
la fine dell'anno e pertanto pigliamo una decisione storica:
cerchiamo qualcuno che si unisca a noi con un altro mezzo, in
quanto le difficoltà anteposte dalla Dancalia a buon ragione
scoraggiavano chiunque a recarvicisi con un solo veicolo e partiamo
per la prima esplorazione. A noi si unisce Aris, un greco diverso
da Nico, cioè un giovane greco genuino della Grecia con alcuni
giovani amici di Asmara e dopo un paio di settimane frenetiche
ed insonni in attesa del gran momento ci ritroviamo in strada,
destinazione Dallol,
una zona mineraria dove anteguerra gli italiani estraevano zolfo
e potassa e dove ora si trova la Parson, una compagnia mineraria
americana (alcuni anni dopo, presi di mira dai cannoni dei guerriglieri
del Fronte di Liberazione dell'Eritrea dovranno abbandonare
l'installazione) che ufficialmente estrae potassa ma che in
verità, come constateremo, dispone ed usa mezzi lunghi da quà
a là attrezzati probabilmente per la ricerca di minerali radioattivi.
La
nostra Dancalia inizia a Bardoli,
il viaggio è arduo e difficoltoso ma piacevole. Il panorama
è strano, cioè sempre uguale ma sempre diverso … sabbia, lava,
piane fangose salmastre, montagne nere dal dolce pendio e mare,
alcuni vulcani inattivi e in lontananza tra le foschie sulla
nostra destra le vette dell'altipianio eritreo; è un paesaggio
che affascina forse proprio perchè così selvaggio, così ostile.
Due giorni dopo a Nord di Dallol (tanto ci voleva per percorrere
circa trecento chilometri) il paesaggio cambia radicalmente,
non più lava, non più sabbia, non più fango ma solo sale - una
bianca distesa che si estende oltre l'orizzonte e che non finisce
mai e proprio in quest'inferno torrido ed estremamente desolato
la Land Rover del greco genuino ha delle noie: la dinamo non
funziona più. Nico è un tecnico elettronico molto in gamba ma
se la cava indubbiamente bene anche come elettrauto e decide
di rimediare in qualche modo; smonta la dinamo e trova le spazzole
completamente consumate. Mi ha maledetto per anni ogni volta
che mi vedeva accendere una sigaretta, in altre parole le sue
maledizioni le subivo ogni giorno ma ora, per la prima ed unica
volta in vita sua si rallegra di avere un maledetto fumatore
con lui, la carta interna del mio pacchetto di Piccadilly
ha la stagnola su entrambe le parti, niente di meglio. Praticamente
mi smonta una preziosissima stecca di sigarette ma rimonta la
dinamo rimessa a nuovo e perfettamente funzionante con le spazzole
di stagnola e odor di tabacco.
Giunti
a Dallol proviamo la stessa sensazione che forse hanno provato
i primi astronauti che hanno messo il piede sulla luna, non
siamo più sulla terra; forse un altro pianeta, forse l'inferno,
ma la terra no - non possono esistere cose simili sulla terra.
Dallol è una zona ricca di solfatare
e geysers, ove la potassa affiora naturalmente ad alte temperature
insieme a miriadi di altre sostanze solforose ed ossidanti.
L'aria sa di uova marce, il suolo è a tratti rosso, a tratti
verde, a tratti giallo - sono polveri finissime della consistenza
del borotalco ove vi si affonda fino alle ginocchia - e percorso
da innumerevoli rivoli di acque calde fortemente mineralizzate.
Stranissime costruzioni variopinte plasmate dalla natura sono
ovunque, l'acqua nelle pozze e nei laghetti bolle, delicatissime
conformazioni di sali colorati spuntano ovunque emettendo vapori
e rivoli di limpidissima acqua ad una temperatura di 80 - 100
gradi centigradi ricca di sali (particolarmente cloruri di potassio,
sodio e magnesio). Si cammina faticosamente tra pozze di un
ribollente liquido bluastro frammisto a fango - la temperatura
ambientale si approssima ai cinquanta gradi all'ombra, ben più
alta risulta sotto la pianta del piede. Stranissimi, alti e
imponenti torrioni
di fanghi salmastri stratificati lavorati da millenni di erosione
sorgono ad arco tra un suolo multicolore tutto attorno a Dallol
conferendogli un aspetto lunare; un piccolo colle di lava nera
frammista a sale pietrificato si rivela come una specie di vulcanello.
Al centro del cratere una cupola rossa dello spessore di circa
quindici centimetri con in cima un foro di circa due metri e
poco più di un metro al di sotto nell'interno un liquido
bollente e fumoso d'un blu intenso, a tratti schiumoso. Ci dicono
che a calarvi un badile nel giro di pochi minuti se ne ritrae
solo il manico; ci dicono anche che un americano ha avuto la
sventura di un cedimento della cupola e vi ha perso un piedre,
corroso fino all'osso dalla potassa bollente.
Quella
cupola la rivedrò ancora negli anni seguenti ma non sarà
mai la stessa: a volte completamente chiusa, a volte aperta,
una colorazione mai uguale. Una pazzia calcarla per rendersi
conto di cosa sia, di come sia cambiata rispetto alla volta
precedente, per fotografare il liquido che vi si cela. Lo spessore
della crosta che la ricopre non è mai il medesimo, non è uniforme
… non ci abbiamo mai pensato … o forse, incoscienti,
non abbiamo mai voluto pensarci.
Le
vie del campo della miniera sono percorse da piccoli struzzi
e le abitazioni sono costruite con lastre
di sale che mai si squaglieranno, la non piove. Ovunque
sono sparsi blocchi di giallissimo zolfo. Spesso la terra trema
sotto i piedi da quelle parti ma ci sono abituati, è un fenomeno
localmente confinato e non lo chiamano neanche terremoto. Incontriamo
Nicolino, un giovane geometra italiano nostro conoscente che
lavora in zona che ci racconta che a nord est, dopo la piana
del gesso, si trova il leopardo e la passione per la caccia
di Nico è nuovamente catalizzata. Si decide un'escursione ma
l'equipaggio dell'altra vettura non è d'accordo e si crea una
frattura nella comunità; il giorno dopo il greco vero e i suoi
compagni riprendono la via del ritorno mentre io e Nico andiamo
in cerca della pelliccia.
La
piana del gesso non è molto distante da Dallol, un paio
d'ore, ma poi è l'inferno: spuntoni
aguzzi di spesse croste di gesso stratificato e spezzate,
sporgenti dal suolo per anche un buon mezzo metro e rivolte
verso il cielo, ovunque, rendono la marcia estremamente difficoltosa
- quel povero Jeep fa miracoli per alcune ore poi tutto cambia
improvvisamente e drasticamente: la terra si ricopre di ciotoli
rossastri, innumerevoli collinette brune dal dolce pendio si
ergono ovunque, una pozza d'acqua con due palme, un pò d'erba
e alcuni papiri si materializzano alla nostra sinistra (Nicolino
ci cautelò in precedenza avvisandoci che l'acqua di detta oasi
non è potabile - l'averla raggiunta significava che eravamo
sulla giusta rotta [1]. Un lungo e ripidissimo pendio ci confronta,
è un passaggio obbligato e non mi piace tanto, scendo e mi avvio
a piedi giungendo sotto prima che Nico si decida a scendere:
innesta la prima ridotta e si avvia lentamente e poi si ritrova
costretto a piantare i freni ma niente da fare, il Jeep scivola
sulla china e giunge giù per conto suo a velocità spaventosa
piantandosi col muso tra una miriade di ciotoli rossastri -
ma rimane in buona salute.
Mentre
esaminiamo se la vettura ha subito danni scorgiamo una coppia
di onagri che ci osserva. Gli onagri sono una specie di asini
selvatici in estinzione e molto protetti dalla locale regolamentazione
di caccia; praticamente si differenziano dall'asino domestico
solo per le zampe zebrate nella parte superiore della coscia.
Nico mi dice che non è mai riuscito a vederne uno da vicino,
perchè non sparargli? Si discute, siamo indecisi ma alla fine
tira fuori il fucile, è un Hornet calibro 22, un'arma formidabile
per velocità penetrazione e distanza utile ma proprio queste
sue doti la rendono di poca utilità per la caccia grossa. Uno,
due, tre colpi … ma niente da fare, è troppo lontano e lo ha
mancato … era previsto … la coppia di onagri fugge; ripartiamo,
pochi minuti e scorgiamo in distanza un grosso animale che si
dibatte al suolo: è l'onagro
colpito a morte, una scena pietosa che ci fa sentire ad un livello
evolutivo ben inferiore a quello della nostra preda. Il colpo
di grazia, qualche foto e via. Scorgiamo stagliata all'orizzonte
la sagoma scura ed immobile della compagna dell'onagro, forse
ci viene un nodo alla gola …
Verso
l'imbrunire scorgiamo un nuomo, è un pastore Afar. In qualche
modo ci spieghiamo, stiamo cercando khabei, il leopardo;
si unisce a noi e ci guida. Il paesaggio cambia: un ruscello
nella sabbia, delle basse colline rosse frastagliate e un pò
di vegetazione, khabei si trova lassù ma ormai è quasi
buio e ci guida al suo villaggio. Sono di un'ospitalità squisita,
è tarda notte quando ci ritiriamo. Ci danno due stuoie di paglia
intrecciata ma Nico, in questo caso un buon greco, è per natura
molto diffidente e si barrica nel Jeep legando gli sportelli
in tela dall'interno e passa un'orribile notte cercando di dormire
col dito pronto sul grilletto dell'Hornet. Io mi sdraio su una
stuoia, mi copro, lascio a fianco i jeans con il portafoglio
e alla cintola la fondina con la 7,65 e dormo. Mi sveglio che
il sole è gia alto e niente è cambiato, fondina con pistola,
portafoglio e un Nico apparentemente non ben riposato sono ancora
la. Manca khabei ma ormai non abbiamo più tempo a disposizione
e prendiamo la strada del ritorno, passiamo a lato di Dallol
senza fermarci e arriviamo a Colulli,
a nord di Dallol ove passa il confine tra l'Eritrea e la provincia
etiopica del Tigray e ci dirigiamo sulla dura crosta gessosa
verso Mersa Fatma dove pernottiamo.
Ormai
siamo a poche ora da Massawa; l'equipaggiamento di viaggio questa
volta includeva un grosso rotolo di rete di robusto filo di
ferro zincato a larghe maglie che mi aveva procurato qualche
fastidio. Ricordando l'esperienza di Balilla l'avevo acquistata
per usarla per disinfangarsi se fosse risultato necessario ma
Nico non voleva saperne di portarsela dietro, occupava troppo
spazio ed era ingombrante oltre che antiestetica, ridicolo viaggiare
così. Fu difficile convincerlo ma ci riuscii, fortunatamente.
Ad un certo punto Nico si distrae dalla guida e in men che non
si dica il Jeep si ritrova con la pancia nel fango, un terribile
impasto di sale e melma, sarà un problema tirarlo fuori. Nico
non ha fiducia nella rete - e nell'amico - cominciamo a camminare
avanti e indietro verso un pendio di lava nera che termina nella
pianetta alla raccolta di pietre da mettere sotto le ruote ma
niente da fare, passeremo la l'eternità senonchè il greco orgoglio
del poco greco sotto il sole cocente di un mezzogiorno dancalo
vien meno e opta per la rete. In pochi minuti, ormai stremati,
ci disinfanghiamo. La rete potrebbe servire ancora ma niente
da fare, se non la voleva lucida e nuova figuriamoci ora che
è arricciata ed orribilmente infangata; lavarla neanche a pensarci,
è troppo faticoso e non abbiamo tempo. La costa dista pochi
passi; oltre alcune mongrovie una spiaggia dorata e l'azzurro
del mare lanciano un invito che Nico non raccoglie, mi rassegno.
É lui al timone.
1966
Nico
ha acquistato una DKW
Munga, una strana vettura fuoristrada col motore
a due tempi uscita dagli incubi di uno stilista che aveva perso
il senso delle curve e dell'armonia e io ho acquistato il suo
Jeep, niente potrà più fermarci.
La
compagnia questa volta cambia; sua sorella e sua cugina sulla
Munga e padre Lino, un missionario Comboniano nostro amico,
sulla Jeep e poi via, anche questa volta destinazione Dallol.
Unica variante all'andata una sosta nei pressi della rossa
isola piramide, così denominata anche sulle cartine militari
coloniali per via della sua forma, isoletta che raggiungeremo
a nuoto. Si trova a poche centinaia di metri dalla costa, le
acque circostanti sono poco profonde e limpidissime e per la
prima volta vediamo numerose tridacne (Tridacna gigas)
con valve gigantesce e stupendi, vivissimi colori tra le valve:
rosse, blu, viola, verdi e gialle - non pensavo che potessero
esistere nel Mar Rosso simili bivalve che in effetti sono una
prerogativa dell'Oceano Indiano.
Nei
pressi di Mersa Fatma esploriamo il relitto di un vecchio bombardiere,
un bimotore francese e poi dirigiamo su Dallol dove passiamo
un paio di giornate approfondendo la nostra conoscenza delle
zone circostanti e del lago di Assalè
dove miriadi di operai, presumibilmente schiavi
e galeotti in quanto ovunque vi sono guardie etiopiche armate
a supervisionare quei lavoratori che a temperature insostenibili
sul bianco sale e senza protezione alcuna, in zone ove all'ombra
la media è di quarantotto gradi, tagliano manualmente con una
specie di accetta ricurva e con incredibile precisione grosse
lastre di sale che interminabili file di cammelli porteranno
poi sugli altlopiani etiopici ove sono ancora usate come moneta
corrente per scambi commerciali.
Padre
Lino, veronese, è un pò giù di tono. La differenza dalle Dolomiti
venete alla piana salata non è lieve e forse è vittima di un
leggero colpo di calore ma si riprenderà presto; il ritorno
è tranquillo, la Dancalia ormai è alle spalle dato che abbiamo
già passato Bardoli. Con padre Lino ho in comune una passione
che in seguito mi darà notevoli soddisfazioni, la fotografia,
per cui ogni tanto ci fermiamo a scattare una foto e così facendo
perdiamo di vista la Munga. Tutto procede normalmente sinchè
all'uscita di una curva un grosso mitra piazzato in mezzo alla
strada consiglia una buona sosta ristoratrice … siamo incappati
in un gruppo di ribelli, gli uomini del Fronte di Liberazione
dell'Eritrea … meno male che Nico con le ragazze è già passato.
In
fondo sono gentili; ci chiedono chi siamo, da dove veniamo e
dove siamo diretti e perchè siamo li. Uno di loro mi chiede
qualche medicinale e quando apro la rossa amno box, una
vecchia scatola militare americana per munizioni ove tengo i
medicinali un vecchio cannocchiale si mette in bella mostra.
Il ribelle lo vede e, per veder meglio si avvicina e casualmente
gira la canna del suo mitra sotto il mio naso e in perfetto
italiano dice: "sai, noi stiamo combattendo, un binocolo così
ci farebbe comodo …" Naturalmente non mi chiede di darglielo
forzatamente ma quella canna di mitra che ora si trova giusto
sotto la mia vena giagulare sembra molto esplicita e gentilmente
gli porgo, gli regalo il binocolo. Dopo qualche minuto
ci lasciano andare informandoci che la Munga è già passata e
che ci aspettano in quella pianetta presso il mare dove loro
gli hanno consigliato di pernottare, viaggiare quella
notte non era prudente e loro avrebbero vegliato su di noi.
Raggiungo
Nico che scuro in volto sta piazzando i pali per la tenda e
mi rivolgo a lui dicendo "beh, tutto è bene quel che finisce
bene!" La risposta è un urlo tremendo, inumano, molla tutto
e poi comincia a corrermi dietro urlandomi come un forsennato
minacce di morte, seguito a ruota da padre Lino e dalle ragazze
che cercano in ogni modo di calmarlo e fermarlo. Il tutto attorno
ad un palo che nel frattempo Nico aveva già piazzato per il
tendone, come un incredibile carosello di indemoniati attorno
ad un totem. Tra me e Nico, a parte la diversa condizione psicologica
del momento, c'era un rapporto peso/potenza che mi consigliava
di non fermarmi finchè col lungo carosello attorno al palo qualcosa
mutò nel suo sistema biochimico e neurale e rinunciò, indubbiamente
a malavoglia, a perdere un amico. Era fuori di se e traumatizzato
dall'incontro con i ribelli perchè una delle ragazze si era
accorta in extremis che stavano per scaricare le loro armi sulla
Munga dato che a un loro segnale, forse soprapensiero o forse
che non li aveva notati, non si era fermato. Quel che più l'aveva
scombussolato era il fatto delle due
giovani sulla vettura e le possibili reali o immaginarie
conseguenze - resta il fatto che qualunque molestia abbiano
subito gli stranieri in Eritrea ad opera dei banditi, gli shifta,
o dei ribelli, non hoi mai sentito parlare di determinati atti
di violenza sulle donne straniere, un grande pregio e una lezione
per tanti popoli che consideriamo più civili.
Cala
la notte e ci raggiungono i canti e il suono dei tamburi dei
ribelli, sono accampati non molto distanti da noi e stanno celebrando
la festa del maskal, la festa del raccolto, quel raccolto
che con il passare degli anni diverrà sempre più misero gettando
il paese nella penosa situazione che tutti conoscono, una lunghissima
e tremenda carestia. Ma la carestia è un fatto endemico dell'Etiopia,
praticamente esiste da sempre. É vero, il disboscamento incontrollato
senza un adeguato rimpiazzo ha contribuito a mutare le condizioni
climatiche di alcune zone, a farmi vedere deserti laddove mio
nonno vedeva vegetazione lussureggiante ma il fattore primario
causale questa volta erano tutte quelle mani che avevano sostituito
il fucile alla zappa, seminare piombo e innaffiarlo col sangue
non poteva promettere buoni raccolti.
Ancor
oggi, a tanti anni di distanza, Nico non mi perdona quei pochi
minuti persi a scattare qualche foto. (Posso ben aggiungere
che Nico, il mio miglior nemico, nel
2010 l'ho ritrovato con gli stessi tratti caratteristici).
1967
Mi
ritrovo a Massawa ormai da una settimana e attendo il resto
della comitiva con la quale ci recheremo in Dancalia, destinazione
anche questa volta Dallol. Attendiamo il Rag. Tortelli
con la solita Land Rover a noleggio guidata da Michael un giovane
autista eritreo, e l'amico Mauro con la moglie su una minuscola
Mini Morris carozzata come una fuoristrada - una vettura che
consideravamo persa in partenza perchè a nostro avviso non sarebbe
mai giunta a destinazione e tantomeno tornata indietro - ma
le nostre previsioni si rivelarono errate. La vetturetta si
comportò egregiamente anche se ogni tanto qualche tratto di
pista rocciosa, o per la sabbia, o per l'infido fango celato
sotto il sale doveva percorrerlo tirata per mano - o meglio,
allacciata
ad un robusto cavo d'acciao e trainata dalla Jeep.
Avevo
trascorso una settimana particolare a Massawa, col Jeep stracarico
- provviste, carburante, acqua e il cielo sa cos'altro, recarsi
in Dancalia era sempre un'avventura e bisognava prevedere tutto
- e il Jeep pronto a partire rinchiuso in un'autorimessa locale.
Era la prima metà del mio viaggio di nozze, che come tradizione
asmarina si trascorreva quasi invariabilmente nella Perla del
Mar Rosso (come tale era conosciuta Massawa) e durante la seconda
metà avrei fatto scoprire alla mia gentile consorte le bellezze
e le gioie della Dancalia. Ma non tutto trascorse come previsto
e poche ore prima di giungere a Dallol la mia compagna fu colta
da un malore. Ella non era avezza a quelle zone e a quelle temperature
e in una sosta da qualche parte verso Colulli, il Rag. Tortelli
l'aveva convinta a cercare di placare la sete con un sorso di
Zibib (anice) e a bersi un bel bicchiere di vino, altre cose
alle quali non era abituata con l'evidente risultato di un tremendo
colpo di calore. Fortunatamente una volta giunti a Dallol ci
fu possibile ricoverarla in pietose condizioni in una
stanza di sale con un grande rumorosissimo ventilatore superstagionato
e la pura fortunosa coincidenza di poter mettere la malandata
sposina sopra un DC3
dell'Ethiopian Air Lines diretto all'Asmara il giorno seguente
salvarono la situazione. Sarebbe stato imbarazzante piantare
una lapide di sale nel sale della piana del sale al culmine
di una luna di miele.
1969
Nico
ha conosciuto Lino Marino, un tecnico della Ortis, un professore
e due giovani professoresse da poco all'Asmara provenienti dall'Italia
e naturalmente gli decanta le meraviglie dell'Eritrea, favolose
avventure di caccia in grandi deserti pieni di selvaggina e
strane storie di un altro incredibile pianeta affondato tra
piedi dell'altopiano Etiopico e il Mar Rosso. Il risultato è
che queste persone decidono che non lasceranno mai l'Africa
senza aver visitato l'altro pianeta e convincono Nico a portarle
a Dallol, usufruendo naturalmente della mia più che entusiasta
collaborazione.
Giungo
a Massawa con una strana sensazione, che il muso e la direzione
di marcia del Jeep non combaciano; è una sensazione che non
mi è nuova, ma non rammento … ma io sono proprio tonto … è Nico
che si accorge tempestivamente che il chassis del Jeep è spezzato
in due e che … ci si potrebbe quasi stendere un'amaca tra i
tronconi. Poco male, il Sig. Balducci, proprietario della clinica
che già ebbe in cura Balilla ormai è un esperto: innesto la
prima ridotta e avio la Jeep contro un palo sino a riportare
i due tronconi del chassis a combaciare perfettamente e poi
il Sig: Balducci manda un paio di scurissimi infermieri a disinfettare
e ricucire la ferita con una pesante saldatrice, probabilmente
ereditata dal nonno.
La
rotta di marcia è la solita, ormai la conosciamo a memoria tanto
che per noi è diventata una scampagnata. La seconda notte pernottiamo
in un uadi, un sabbioso torrente asciutto, perchè, a mio avviso,
sulla sabbia si dorme meglio e, incredulo, assisto ad uno strano
rito: prima di coricarsi sulla sua branda Nico piazza ovunque
candele accese; non ne comprendo immediatamente il perchè tanto
più che Nico non è un tipo particolarmente religioso ma poco
dopo scorgo file di giganteschi scarabei color pece che si dirigono
verso le candele. Come al solito Nico è accorto e prudente e
comprendo il significato di quell'insolito rito e anche il perchè
era contrario a pernottare in uno uadi nonchè il perchè mi ha
piantato il muso quando son riuscito a convincere gli stranieri
che sulla sabbia si dorme meglio. A me gli scarabei non danno
fastidio, mi corico su una stuoia di paglia intrecciata gettata
sulla sabbia dorata e passo un pò di tempo ad osservare il magnifico
cielo africano trapunto di stelle prima di addormentarmi.
É
sera inoltrata, siamo a Dallol da alcune ore quando Nico si
avvicina alla Jeep, tira fuori una scatola di fiammiferi - è
strano, lui non fuma - e accendendone uno vicino al serbatoio
della benzina urla, incomprensibilmente infuriato e fuori di
se stesso: "io te la brucio, gli do fuoco … capito? Te la bruciooooo
…" Faccio una fatica tremenda a cercar di comprendere cosa sta
succedendo e così pure gli altri estrefatti componenti della
comitiva ma Nico, in pratica quasi astemio, aveva dato fondo
ad una bottiglia di zibib. Un pò perchè ancora infuriato con
me per la notte degli scarabei (senz'altro nel suo subcosciente
era ancora ben presente anche la giornata del Maskal),
un pò perchè - si dice - una delle professoresse gli piaceva
ma non ci stava, si era rivolto alla bottiglia e ci volle
non poco per riuscire a dissuaderlo e allontanarlo, lui e i
suoi fiammiferi, da quella Jeep che, come cercavo di fargli
capire, non aveva potuto vendermela solo per bruciarmela sul
sale.
Il
giorno seguente tutto torna alla normalità, Nico s'è placato
e tutto è dimenticato. Il mattino Nico parte di buon ora dirigendosi
sulla piana del sale verso le zone da esplorare quando mentre
curva a forte velocità vediamo qualcosa che in lontanaza sembra
uno straccio volar fuori dalla Munga ma presto ci rendiamo conto,
dato che non tira vento e lo straccio si muove, che non è uno
straccio ma il povero Prof. Luigi Monaco che ormai senzaaddosso
uno straccio è ridotto come uno straccio. Dai piedi alle spalle
non gli è rimasto un lembo di pelle, la strisciata sulla
crosta salata e i taglientissimi cristalli di sale della piana
di Dallol gli creano dolorosissime lacerazioni si che non riusciamo
a comprendere come possa sopportarle così stoicamente - ma si,
non può far diversamente se vuol sopravvivere in quell'inferno.
Strana
coincidenza, anche per lui vi sarebbe un aereo il giorno dopo
ma è venuto per vedersi la Dancalia, per toccare con mano l'inferno
e va fino in fondo, solo che il suo inferno è ben più penoso
del nostro, in effetti è molto mal ridotto. Tutto termina qualche
giorno dopo all'Asmara con una pantagruelica cena alla quale
il Prof. Monaco partecipa completamente incerottato, febbricitante
e, si può ben dire, immobile come una statua di sale.
1970
Non
è più possibile entrare in Dancalia dalla parte di Massawa,
tutte le piste sono minate e la zona è ormai zona di guerra
aperta. Quale occasione migliore di cambiar rotta e scendere
da Agulà, un paesetto
dell'altopiano etiopico nella provincia di Makalle?
A
Makallè dovremo perdere almeno una giornata per ottenere il
permesso di scendere in Dancalia, permesso che dovrà essere
rilasciato di persona dal Principe Ras Mangascià Johannes, un
nipote dell'Imperatore. Si dice che a Makallè non sia difficile
ottenere alcun genere di permesso semprechè il controvalore
sia adeguato e in moneta sonante. É persino possibile comprarsi
una patente di guida di grado avanzato anche se non si è mai
saliti su una macchina oppure acquistare senza tanti problemi
una nuova carta d'identità per sistemare situazioni indesiderate.
Ottenuto il permesso ci rechiamo a Quià, a metà strada tra Makalle
ed Agulà, ove vi è ancora un ristorante che memore di tempi
migliori mantiene un'ottima cucina italiana e ove pernottiamo.
Cambia
l'itinerario e cambia anche la destinazione, questa volta ci
recheremo al lago Giulietti (Afrerà
o, come conosciuto dagli Afar, Egoghi Bad) scendendo
direttamente dall'altopiano del Tigray e di la traversando gran
parte delle Dancalia in direzione est ci si dirigerà fino a
Sardò dove si riprenderà la via del ritorno tramite la strada
di Assab sulla rotabile Assab - Addis Abeba che si congiunge
a Kombolcià, circa cinquecento chilometri a sud di Asmara sulla
rotabile Addis Abeba - Asmara. É un giro formidabile che va
ben pianificato e che richiede una meticolosa preparazione,
non sappiamo esattamente cosa ci attende, non si hanno informazioni
sulle piste da percorrere e le zone da attraversare. Sappiamo
soltanto che non sarà un'impresa facile.
Agulà
si trova a quasi trecento chilometri a sud di Asmara, di la
una vecchia pista appesa al cielo come un filo a piombo e poi
il letto di un fiume portano in Dancalia non lontano dalla depressione
di Assalè. La strada, se così si può chiamarla dato che in prevalenza
è una pista percorsa solo dai cammelli
che salgono da Assalè carichi di preziose lastre di sale, orribile
nonchè ripidissima che tra magnifiche panoramiche scende da
Agulà in mezzo ad una stretta gola con ripidissime pareti verdi
sbocca poi in un paesetto pre-dancalo - non ne rammento il nome
- molto caratteristico, ove si imbocca il letto di un fiume,
a tratti con acqua corrente e piccole palme, e con le sponde
ricche di altissimi papiri che inizialmente tra alte cime e
poi tra dolci colline nere porta alla piana dancala.
Non
è tutto così semplice, spesso bisogna costruirsi la strada innanzi
alla vettura o trainarsi l'un l'altro a turno per risolvere
situazioni difficili,
ci rendiamo conto che le vecchie strade a sud di Massawa erano
una bazzeccola ma proprio questo rende il tutto più interessante.
Si sbocca senza nessun preavviso da dietro una collinetta nella
piana dancala, è una visione maestosa. Un'enorme pianura circondata
da monti di nerissima lava e sulla destra, solitario, l'imponente
vulcano Ummuna con la sommità ricoperta da una nuvoletta che
ci dice che il vulcano è attivo … già, ci sono anche i vulcani
attivi in Dancalia.
La
comitiva è composta da Nico, con la solita vettura uscita dagli
incubi dello stilista che aveva perso il senso delle curve e
dell'armonia, il Rag. Tortelli con la Land Rover guidata dal
fedele Michael, una Toyota con due medici italiani di Asmara
e rispettive consorti e Antioco un giovane fotografo professionista
(loro sono diretti unicamente a Dallol); con me viaggia ancora
una volta padre Lino. Questa volta Dallol si ritrova a nord
ma non dista molto e la pista si rivela buona per cui inizialmente
dirigiamo su Dallol ove pernottiamo prima di riprendere la strada
verso il lago Giulietti.
La
Toyota ora non è più con noi. Le cose non son più tanto semplici,
la strada spesso scompare tra dune di finissime sabbie calcaree
della consistenza del borotalco o tra enormi massi di lava,
ci affidiamo spesso alla carta geografica ed alla bussola per
cercare di raccapezzarci. In una grande piana di fango secco
che ricorda vagamente la Piana della Morte dell'Arizona ci permettiamo
di inseguire gli struzzi e scattare qualche foto in corsa; più
avanti c'è una magnifica oasi di palme ove pernottiamo. La mattina,
freschi e con un migliore intuito pigliamo una certa direzione,
da quella parte dovrebbe esserci il lago Giulietti e in effetti
lo raggiungiamo in poche ore.
Il
lago è una
stupenda macchia azzurra che si allunga superando una stretta
verso nord, circondato da alti monti completamente privi di
vegetazione ad est e terminante quasi ai piedi di un mastodontico
vulcano spento a sud; quà e la rivoli di acqua calda ma temperatura
tollerabile scendono nel lago, è un piacere lavarcisi
ed inoltre è anche potabile e buonissima da bere, inodore e
ovviamente ottima per cucinare gli spaghetti. Le rive del lago
a tratti sono circondate da un largo strato di quel che sembra
esser neve - è una visione incomparabile - ma quella neve è
una schiuma salmastra candidissima che si accumula sulle sponde
per via dell'altissima salinità di quelle acque lacustri e senza
vita che ancora esistono malgrado le altissime temperature e
conseguente gran evaporazione solo perchè alimentate dalle sorgenti
termali che hanno origine nella catena dell'Ertale
e che sono un pò ovunque lungo la sponda occidentale del lago.
Ovunque
vi sono basse piante cespugliose, alberelli e le sponde sono
ricche di palme dum. Al centro del lago vi è una piccola isola
di color bruno con sovrastante qualcosa, una specie di monolito
che in lontananza rammenta il collo e la testa di un cavallo,
ma che nessuno sa cosa sia; può sembrare una tomba dancala di
pietre sovrapposte o un antico monumento, ma non può essere,
l'isola per i dancali è tabù - quell'isoletta è molto misteriosa
… qualcosa già prende vaga forma nella mia mente. Dicono, i
Dancali, che "...sei generazioni fa il luogo occupato ora dal
lago costituiva la base di un massiccio vulcanico che gradualmente
abbassandosi si spofondò e quindi acque ne sgorgarono a riempire
il vuoto. Restò solo l'isoletta, rifugio ora di esseri malefici,
già vetta più alta di quelle rocce scomparse, recante ancora
i segni delle antiche abitazioni". [2]
Il
giorno dopo abbiamo visite; sono membri di una tribù Afar, i
Rorom, che abitualmente svernano presso il lago Afrerà; donne,
bambini e adulti. Gli adulti sono invariabilmente armati con
vecchi fucili calibro 91, un'arma italiana che ha fatto storia,
la cui canna è tappata con un conetto di carta per proteggerla
internamente dall'umidità e corrosione. Le munizioni che posseggono
probabilmente avranno la stessa età dei fucili ma niente ci
assicura che non siano, almeno in piccola percentuale, ancora
efficaci. Col loro è il capotribù,
un viso fiero e una corporatura che sembra uscita da una palestra
di body-building della California (oggi che Rambo è già nato
e noto, potrei pensare a quell'uomo come il prototipo che ne
ha suggerito il soggetto!); chiede medicinali e pane in quantità
che non siamo assolutamente in grado di fornire per cui ci ritroviamo
sequestrati e ostaggi della tribù. Non ci molestano ma non ci
possiamo allontanare più di tanto, tantomeno tentare di avviare
le vetture, ormai è chiaro e lampante, passeremo la nostra vita
all'ombra delle palme dum sulle sponde e tra le candide schiume
del lago Afrerà rinchiusi in una palizzata formata da arrugginite
canne calibro 91
che ci è permesso oltrepassare solo per impellenti necessità
fisiologiche …
Nel
cuore della notte mi avvio verso un boschetto di palme dum che
sovrasta una pozza d'acqua alimentata da una calda sorgente
e le cui acque si immettono nelle acque del lago; un dancalo
armato mi segue non molto distante. Mi fermo e mi siedo nei
pressi della pozza a contemplare la volta stellata e le ombre
circostanti, il dancalo si accovaccia sul bordo opposto. Ad
un tratto istintivamente intono le parole Bismillah i Rahman
al Rahim (nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso:
il versetto d'apertura di ogni sura del Corano eccetto la prima);
scorgo la sagoma del dancalo posare il fucile e prostrarsi al
suolo. Conosco qualche altro versetto religioso in lingua araba,
lo intono … e poi mi perdo nell'universo … o forse divento tutt'uno
col cosmo - è un'esperienza mistica indescrivibile, indimenticabile.
Il
mattino seguente un rumore strano ci giunge alle orecchie, corriamo
bianchi e neri, grandi e piccini a vedere; poco distante dal
lago c'è una sabbiosa pista per aerei e vi atterra un piccolo
monoposto, è Gabriele che informato della nostra gita e
possibile presenza della comitiva presso il lago atterra per
farci visita e anche lui si ritrova sequestrato dai dancali.
Dopo lunghe trattative col capo dancalo lo si riesce a convincere
che con l'aereo ci vorrà poco a Gabriele raggiungere Asmara
o Addis Abeba per procurare e portargli quanto richiesto in
cambio della nostra libertà e in effetti il giorno seguente
ci ritroviamo nuovamente in marcia alla volta di Sardò. Questa
volta la salvezza è venuta dal cielo! Ma la programmata escursione
alla catena vulcanica dell'Ertale andò a monte per via della
lunga ed inaspettata sosta forzata ospiti dei Rorom.
Ad
un paio di chilometri dal lago, nella piana del borotalco -
ne la si poteva battezzarla diversamente - vi è il relitto
di un aereo militare inglese dal quale il Dott. Franchini,
un paio d'anni dopo, toglierà la targhetta identificativa per
segnalarlo al paese interessato; più modestamente Gabriele si
carica sul monoposto uno dei due mitra dell'aereo inglese, una
mitragliatrice
con due canne arrugginite ripiegate ad "L" probabilmente per
via dell'impatto col suolo. Molti anni dopo anche il piccolo
aereo di Gabriele subirà un tremendo impatto con il suolo della
Dancalia degli Issa, molto più a sud.
La
pista è ancora ostica, quà e la sorgono basse colline lucenti
composte esclusivamente da nera ossidiana. Ossidiana se ne trova
ovunque nera o verdastra e più raramente marrone o grigia. Ciotoli
di ossidiana di forma ovale o quasi perfettamente sferica, levigati
da acque e trasporto in epoche molto antiche si rinvengono nel
letto di un torrente. In alcune zone ne trovo alcuni frammenti
che hanno l'apparenza di tectiti, piccole masse di natura vetrosa
e delle quali sembra accertata la natura cosmica, ma sarebbe
impossibile distinguere una tectite dall'ossidiana in quella
zona così come sarebbe impossibile riconoscere una goccia d'acqua
salata in un mare d'acqua dolce. Raccolgo anche alcuni ciotoli
di ossidiana, quasi perfettamente sferici, opera di trasporto
ed erosione che procede da un buon milione d'anni.
Dirigiamo
verso sud sulle sabbie di un uadi, alla nostra destra dei scuri
monti di lava. Ad un certo punto da una parete di basalto escono
strane figure paleolitiche, apparentemente nude, che corrono
verso di noi gesticolando; ma ne abbiamo avuto abbastanza di
graditi incontri e non ci fermiano. Probabilmente in quelle
pareti di lava vi sono delle grotte (che hanno lasciato un grande
punto interrogativo nella mia esistenza e che molto potrebbero
interessare il Dr. Donald G. Johanson, il paleontologo che ha
riportato alla luce - circa 300 chilometri più a sud-est dal
punto ove mi ritrovo la ormai famosissima "Lucy") il
cui ingresso si confonde con il nero della lava e dove quegli
strani esseri, trogloditi alle soglie del 2000, conducono la
loro esistenza. [3]
Poco
più avanti scorgiamo un giovane dancalo, magrissimo, camminare
lentamente lungo la pista. Lo raggiungiamo e ci accorgiamo che
non è magrissimo, ma è semplicemente non più di uno scheletro
portato a spasso nel sentiero di una incredibilmente avversa
esistenza nella landa più ostile e desolata del globo; ricoperto
da un tenue rivestimento di pelle raggrinzita - ormai non ha
più un lembo di carne addosso, la fame la sete e gli stenti
lo hanno completamente consumato. Sta morendo di fame ma siccome
non appartiene alle tribù della zona gli negano cibo ed acqua.
Lo ristoriamo come possiamo, gli lasciamo un grosso panino in
cassetta ormai verdastro per la muffa dovuta al lungo periodo
racchiuso nella busta di plastica e ripartiamo, probabilmente
fieri della nostra buona azione. Non ce ne rendiamo conto, ma
forse l'abbiamo assassinato. Gli abbiamo lasciato un pò di cibo
ma niente della nostra ancora abbondante scorta di acqua. Colpiti
dalle sue condizioni fisiche abbiamo pensato solo al cibo, non
ci è neanche passato per la testa rifornirlo d'acqua. Inoltre
ci sarebbe voluto poco a caricarlo in macchina e portarlo sino
a Sardò o Batiè, ove il suo destino sarebbe stato certamente
migliore. Ma è il nostro primo incontro con la fame, è una realtà
che non siamo riusciti ad afferrare e a capire. Il nostro piccolo
mondo africano è un mondo egocentrico e i contorni sono come
nubi in balia al vento, le vediamo passare ma non ci toccano.
Arriviamo
a Sardò, poche baracche sulla rotabile asfaltata di Assab, a
tarda notte; una baracca gestita da un mussulmano ci spalanca
le porte e ci prepara un ottimo piatto di spaghetti. Il giorno
dopo sulla via del ritorno visitiamo il caratteristico mercato
di Batiè, importante
centro Galla ove fanno capo la maggior parte delle carovane
che attraversano la Dancalia e poi ci ritroviamo nuovamente
sugli altopiani etiopici dove abbiamo modo di ammirare un magnifico
lago alpino di acque salmastre e senza vita, il lago Ascianghi,
presso il quale avvenne la battaglia che il 31 marzo 1936 determinò
il crollo dell'Impero Etiopico con la sconfitta delle truppe
condottte personalmente dal Negus Hailè Selassiè, e poco oltre
siamo sull'Amba Alagi sulla cui sommità sorge una grande croce
di ferro, laddove avvenne l'eroica resistenza delle truppe italiane
al comando del Duca Amedeo d'Aosta, arresosi agli inglesi con
l'onore delle armi. Pernottiamo a Quiha, poco oltre il bivio
per Agulà certi che ripasseremo da quelle parti.
1973
Nel
1971 Nico tornò in Dancalia privo della mia compagnia. Ebbe
la fortuna di rompere l'albero del cambio presso Sardò e pertanto,
trovandosi ancora sull'asfalto, riuscì a riportarsi a casa la
Land Rover che aveva sostituito all'incubo dello stilista tedesco,
rimorchiata per circa settecento chilometri. Un guasto serio
nel cuore della Dancalia significa dover abbandonare e perdere
la vettura. Da un lato non ne fui molto dispiaciuto visto che
aveva il vizio di dirmi che ero un uccello del malaugurio e
che portavo scarogna ma, sopratutto, perchè si era recato in
Dancalia senza informarmi. Quest'anno siamo di nuovo pronti
a ripartire ma accade una cosa strana, quando scocca l'ora vado
a casa sua col Jeep pronto e straccarico - in dotazione persino
una robusta rete metallica zincata a larghe maglie - per metterci
in marcia ma Nico si è dimenticato che dobbiamo partire
per la Dancalia e non è pronto … né comunque intende
partire … che sia arrivata una nuova professoressa? Per cui
la passeggiata salta, ma non per molto, la parola Dancalia nell'aria
vibra sempre come le note di un flauto magico, è sempre stato
e sempre sarà così, ci vuol poco a riorganizzarne un'altra e
nel giro di qualche settimana la nuova comitiva è pronta.
Il
Rag. Tortelli si è finalmente stancato di noleggiare una vettura
ed ha comprato una Land Rover forse di quindicesima mano ma
in buone condizioni. Nel frattempo io ho venduto la Jeep per
comprarmi una vettura per le corse per cui ora mi trovo alla
guida della Land Rover del Rag. Tortelli. Sono con noi il Dott.
V. Franchini con il figlio Carlo alla guida di una Jeep Hurricane
come quella che aveva tirato la pancia di Balilla fuori dai
fanghi salmastri nei pressi di Arafali e Rino, un fotografo
professionista del quale non rammento il cognome ma che poco
dopo il rientro dalla Dancalia ve l'avrei riportato per calarlo
nella fossa di potassa del vulcanello di Dallol in quanto si
prese cura di sviluppare le mie diaposive e per un errore di
soluzione o di temperatura durante lo sviluppo tutti i miei
rullini di irripetibili diapositive si ritrovarono irrimediabilmente
rovinati, al posto delle ombre compaiono chiazze viola e i colori
sono falsati.
La
meta questa volta è la catena degli Ertale e il vulcano attivo
che porta lo stesso nome a nord-est di Egoghi Bad, il lago Afrerà
- o Giulietti. Ormai la rotta è cambiata, fintanto che sarà
possibile si scenderà da Agulà. Nel paesetto a fondo valle presso
l'imbocco del fiume si presenta a noi Mahmud, una guida dancala
che a suo dire si è già recata sull'Ertale al seguito e come
guida del principe Ras Mangascià Johannes ed è un profondo conoscitore
della zona. Ci fidiamo delle sue parole e lo pigliamo al seguito
ed in effetti non avrà problemi a guidarci a destinazione.
Ad
un certo punto nel deserto troviamo la pista sbarrata da un
torrente con una
impetuosa piena dovuta a precedenti temporali sull'altopiano.
Fa un certo effetto vedere quell'impetuosa massa d'acqua scorrere
velocemente in una zona così torrida ed assolata, sono piene
che si esauriscono in breve ma appena è possibile farlo con
poco rischio guadiamo il torrente per guadagnare tempo. La mattina
seguente al lago Afrerà tiro fuori a sorpresa il mio equipaggiamento:
un materassino gonfiabile, maschera e pinne e buste di plastica,
un misterioso involucro formato da diverse buste di plastica
contenente qualcosa che evito di descrivere ai miei compagni
e si crea una certa ilarità, naturalmente sarebbe stato più
semplice oltre che comodo scendere a Massawa per farsi un bagno
tra belle scogliere e pesci multicolori … ma io non avevo dimenticato
quell'isoletta così misteriosa, il volto dei compagni si rabbuia
- è una pazzia! Il Dottor Franchini in tono grave mi dice: "
si rende conto che se accade qualcosa nessuno potrà far niente
per lei? " ma non importa, sono disposto a crearmi dei nemici,
troppo a lungo ho sognato quell'isoletta. Nelle buste di plastica
metto la mia fedelissima Relleiflex, qualche provvista e un
paio di boracce d'acqua raccolta alla vicina sorgente termale.
Le
acque del lago sono fredde e leggermente mosse; passo camminando
la bianchissima barriera schiumosa e poi inizio a nuotare spingendo
innanzi a me il materassino pneumatico al quale tra l'altro
mi sono prudentemente assicurato con una lunga fune, un'abitudine
che presi quando in solitudine Balilla mi portava a Wakiro,
a nord di Massawa, ove passavo ore solitarie in acqua ma sempre
con la prospettiva di riuscire a tornare in spiaggia anche in
caso di un malore o altro inconveniente, per cui avevo sempre
una camera d'aria d'auto assicurata con una fune alla cintola
che da un lato mi portava le cesta e dall'altro serviva per
l'appunto come natante d'emergenza qualora avessi avuto dei
problemi. L'isola dista circa tre chilometri; ad un certo punto
decido d'immergermi, l'acqua è talmente salmastra che mi riesce
difficile. Tre o quattro metri di profondità e diventa insopportabilmente
fredda, inoltre è molto torbida e la visibilità è praticamente
nulla, non vedrò mai quei fondali.
Quel
lago in uno dei luoghi più desolati del pianeta è senza vita,
non vi sono velenosi pesci farfalla o squali o altri pericoli
ma proprio questo mi getta in una situazione psicologica anomala,
ad un certo punto son tentato di rinunciare all'impresa. Probabilmente
con la fantasia per un attimo mi trasferisco a Loch Ness, forse
mi ronzano nel subcosciente le parole e il tono grave del Dottor
Franchini ma riesco a superare la crisi e continuo finchè dopo
…quanto non saprei dirlo … mi imbatto in un'altra barriera di
candidissima schiuma e mi rimetto a camminare, sono sui bordi
dell'isola e ne rimango quasi invischiato in uno stranissimo
fango salmastro multicolore che fa pensare alle sabbie mobili
tanto è tenace.
L'isola
è molto piccola, di forma ovale, forse ha un diametro - esclusa
la larga riva fangosa - di neanche cinquanta metri sull'asse
nord-sud e meno di trenta metri sull'asse est-ovest. É colma
di pietre rosse taglienti e grosse pietre di lava porosa e sono
senza scarpe ma non fa niente, ho finalmente svelato il mistero
di quella strana
configurazione che la sormonta. Si tratta di uno stele naturale
formato di terra e pietre rossastre, alto circa tre metri e
dalla vaga forma di una testa di cavallo col muso rivolto al
cielo. Indubbiamente l'isola nell'insieme era molto più alta
e vasta e il processo di erosione ne ha voluto risparmiare il
cuore. E probabilmente quando la Dancalia era sommersa dal mare
quell'isola, come grande isola, già esisteva se questo si può
dedurre dalla deposizione delle rocce in breccia. Non sono mai
riuscito a sapere per qual motivo è tabù per gli Afar ma probabilmente
è proprio per quall'indecifrabile, misterioso coso che
si scorge dalla riva del lago. Lo stele devo fotografarlo con
la macchina fotografica inclinata rispetto all'orizzonte per
riuscire ad inquadrarlo tutto, scatto altre fotografie attorno,
erigo una piccola piramide di pietra sotto alla quale celo qualcosa
- non sono andato per niente sull'isola - e, naturalmente soddisfatto
e gongolante, per quanto se ne sa sono l'unico bianco ad averla
esplorata e fotografata in sito, [4] riprendo la via del ritorno
portandomi dietro una pietra nera di forma ovale appiattita
che sembra legno pietrificato ed una spessa crosta di amarissimo
sale. Mi ritrovo, naturalmente trionfante, all'accampamento
nel primo meriggio, circa cinque ore dopo mentre gli altri stanno
già approntando le vetture per la meta finale, l'Ertale.
É
facile dire che vi giungiamo all'imbrunire del giorno dopo ma
ancora non riesco a ben comprendere come le nostre vetture siano
riuscite e risalire quella china di lava tremendamente frastagliata,
franante e tagliente fino quasi alla sommità, circa duecento
metri dall'orlo della caldera; indubbiamente senza Mahmud avremmo
certamente dovuto desistere.
Piazziamo
il campo e ci rifocilliamo, ormai è buio. Ad un tratto mi volto
e non posso far a meno di commuovermi profondamente: il cielo
scurissimo è rotto da un'intensissima macchia blu con al centro
una zona di vivissimi
colori viola, blu, rosso e giallo di indescrivibile, incomparabile
bellezza. É impossibile non emozionarsi innanzi a quello stupendo
spettacolo naturale e mi avvio lentamente verso la cima seguito
dagli altri meno che il Rag. Tortelli. Già, lui è andicappato
dalla poliomelite; ha girato in lungo ed in largo l'Etiopia
e l'Eritrea, le conosce più di chiunque altro, è da anni e lo
rimarrà per il resto dei suoi giorni presidente del CAI di Asmara
ma gli angoli più remoti e più belli del paradiso li ha visti
solo attraverso i racconti o le fotografie dei compagni di viaggio.
Superiamo
l'orlo della caldera e ci affacciamo verso il cratere, vediamo
poco a parte quello stupendo cielo, e ci incamminiamo sull'oscuro
bordo in direzione nord. Una grossa meteora sibila alle nostre
spalle, per un attimo la zona è illuminata a giorno ma non riusciamo
a vederla. La caldera è enorme, apparentemente qualche chilometro
e a gran distanza l'uno dall'altro vi sono due piccoli crateri
- uno non è possibile raggiungerlo e uno, del diametro di circa
trecento metri o meno ci appare all'improvviso circa cinquanta
metri più sotto e poco discosto dalla base della parete rocciosa
ove ci troviamo, in linea d'aria forse meno di un centinaio
di metri. La lava
ribolle ovunque frangendosi
sulle pareti del cratere, che ad est ha la forma di una
collinetta a sella, come onde di fuoco sugli scogli; ovunque
si scorgono rivoli luminosi che scorrono lentamente nella scura
lava circostante, a brevi intervalli zampilli di lava si innalzano
alti verso il cielo, quà e la impetuosi soffioni, all'improvviso
scorgiamo in lontananza uno zampillo di rossa lava che si innalza
per parecchie decine di metri dall'altro cratere. Il tempo si
è fermato, rientreremo a tarda notte per raccontare un favola
al Rag. Tortelli e forse nessuno dormirà nell'ansiosa attesa
dell'alba per scendere nella caldera ed esplorarla quanto più
possibile. Come al solito il tempo del quale disponiamo è limitato
per via delle distanze e delle difficoltà poste dai viaggi all'interno
della Dancalia per giungere sul luogo preposto.
Il
cratere principale si presenta come un'immensa macchia nera
colma di un argenteo liquido circa cinquanta metri a picco sotto
di noi e a un centinaio di metri dal bordo inferiore della caldera;
in netto contrasto sul lato est del vulcano si scorge l'orizzonte
sparire in una bianchissima piana salata, è la parte sud della
piana di Assalè
che si estende per quasi duecento chilometri a sud di Dallol.
Le rocce laterali della caldera sono principalmente di un colore
giallastro e ricche di piccoli soffioni che ricordano quelli
di Dallol e col tipico odore di uova marce; strane conformazioni
laviche e una grotta che soffia aria calda ma che a malincuore
non ci azzardiamo ad esplorare non sapendo quanto possano essere
nocivi i gas che ne fuoriescono si trovano anche all'esterno
e verso la sommità della caldera. Notiamo subito strane costruzioni
piramidali molto rumororose alla sommità delle quali si percepiscono
fiamme anche in luce diurna. In lontananza si scorge una stranissima
conformazione, una stele
di lava arrotolata su se stessa, molto alta e terminante
in una punta aguzza e così misteriosa … ma questa volta per
me rimarrà tale, mi renderò presto conto che sarebbe una follia
cercare di raggiungerlo né probabilmente sarebbe possibile
farlo.
Ci
muoviamo su strane, lucentissime e fantastiche conformazioni
di lava cordata
recente di colore dal verde scuro al nero pece e ci dividiamo,
tirati ognuno dalla mano invisibile di quei disegni sul terreno
che creano strane immagini, strane sensazioni nelle nostre menti.
Io
mi sono fissato, devo avvicinarmi, devo toccare con mano quello
stele - dista circa un chilometro. Passo presso una nera piramide
che sbuffa minacciosamente, nelle zone d'ombra si intravvedono
dei fuochi, il terreno sottostante diventa sempre più caldo.
Cerco di avvicinarmi ancora, voglio ben vedere e fotografare
quel mostro nei dettagli. Improvvisamente il terreno
mi cede sotto i piedi, non ho il tempo di pensare né
tantomeno di spaventarmi. Forse nella mia mente si crea l'immagine
di una persona che credevo di ben conoscere scomparire inghiottita
da un mare di lava a millecinquecento gradi. In effetti sotto
i miei piedi c'è lava, ma è lava meno recente, meno scura, più
solida, anzi, molto solida! Comprendo che quello stele lontano
rimarrà un mistero. Le mie spalle sono sotto il sole all'altezza
del terreno che calcavo, il resto del corpo all'ombra nel piccolo
crepaccio che mi ha accolto, sono illeso ma non ho la minima
idea di quali fossero le mie condizioni mentali del momento
al di la del rendermi conto che in qualche modo esistevo ancora.
Controllo la nuova Rolleiflex della quale devo ancora pagare
quasi tutte le rate, è ancora sana, non ha subito danni. In
qualche modo esco dalla buca e prendo la via del ritorno camminando
nella realtà tangibile di un sogno.
Passiamo
ancora una notte sul vulcano; il giorno seguente, di ritorno
e già lontani dal vulcano e dal lago Giulietti ci imbattiamo
in un gruppo di dancali e ci fermiamo. Una giovane donna, bellissima,
allatta un bambino;
[5] vi sono altre donne e altri bambini, sembrano piuttosto
malandati, magri e sofferenti. Un ragazzo, forse quindicenne,
è seduto al suolo ridotto ad uno scheletro, non ha più la forza
di alzarsi. Ma noi lo sappiamo, c'è la carestia … ! gli obiettivi
delle nostre macchine fotografiche si perdono sul viso e sul
nudo seno di quella florida giovane donna … ancora una volta
non abbiamo capito niente, forse non capiremo mai o forse qualcosa
nel subcosciente ci dice che non possiamo far niente, che siamo
impotenti in certe situazioni, che noi dobbiamo vivere la nostra
vita e loro la loro … e quì si perde la dignità dell'uomo che
non ha il coraggio o la forza di alzare un dito, di urlare,
che a malapena ha il coraggio di vivere solo la propria vita.
Spesso
penso che tante volte devo essere passato vicino ai resti di
Lucy (Australopithecus afarensis), lo scheletro più completo
e meglio conservato di un ominide ad andatura eretta, vissuto
circa tre milioni e mezzo di anni fa e riportato alla luce nel
1974 dal paleontologo statunitense Donald G. Johanson circa
trecento chilometri a sud-est del mio monte dei paleolitici;
per quel che ne sappiamo forse ne siamo i discendenti, in quella
terra arida e desolata si colloca attualmente la culla dell'umanità
e, in termini di evoluzione, quegli ominidi hanno sconfitto
il tempo e sono arrivati a noi ma il nostro destino è forse
l'inverso, di tornare a loro e molto più rapidamente
di quanto loro ci abbiano messo per arrivare a noi.
[1]
- In detta zona raccolsi un ciotolo, un
diaspro rosso, in seguito (… trentasette anni dopo!) identificato
da un esperto come un utensile dell'età della pietra.
[2] - Ludovico
M. Nesbitt - La Dancalia Esplorata - R. Bemporad & figlio
- Editori - Firenze 1930.
[3] - Sulle cartine coloniali in effetti vi
è l'indicazione delle grotte, Grotte Salan. Pochi chilometri
più a sud raccolsi una bella ossidiana
marrone chiazzata di nero, apparentemente lavorata. Anche
questa volta, ovviamente 37 anni dopo, uno specialista l'ha
identificata come un utensile preistorico. Ma, è il 2017,
fotografo nuovamente quel manufatto e vi scorgo qualcosa sorprendente!
[4] - 21 novembre 2002 - In merito "all'unico
bianco che ha esplorato l'isola" ricevo questa precisazione
dal Dr. Lupi Luca " Poi, dato l'amichevole rapporto di collaborazione
che stiamo instaurando, mi permetta di farle una precisazione:
Lei asserisce che durante la spedizione del 1972 lei armato
di pinne, maschera e materassino giunse sull'isola del lago
Afrera.
Dal suo racconto web: << per quanto se ne sa sono l'unico
bianco ad averla esplorata e fotografata in sito, riprendo la
via del ritorno portandomi dietro una pietra nera che sembra
legno pietrificato e una spessa crosta di amarissimo sale. Mi
ritrovo, naturalmente trionfante, all'accampamento verso mezzodì,
circa cinque ore dopo mentre gli altri stanno già approntando
le vetture per la meta finale, l'Ertale..>>.
Ciò non corrisponde al vero perchè già nel 1929 il Franchetti
era giunto nell'isola, (allego
la foto).
Pag. 260 del libro di R. Franchetti “Nella Dancalia Etiopica”,
1930: << Passarono vari millenni senza che alcuno approdasse
per paura all’isola misteriosa, ma ai dì ventuno di marzo dell’anno
millenovecentoventinove, settimo dell’era Fascista, nove italiani
condotti dal barone Raimondo Franchetti giunsero presso il lago,
ne rilevarono i contorni, ne solcarono le acque vietate ed il
loro capo raggiunse l’isola. Raccoltisi poi a sera, essi invocarono
che quest’acqua ancora senza nome geografico, ne prendesse uno
che aggiungesse pregio al favoloso tesoro sommerso nel lago
insieme al corpo di quella tragica figlia di Re e chiamarono
il lago Giulietti, a ricordare la grande anima dell’esploratore
italiano, che per primo bagnò col suo sangue e con quello dei
suoi compagni la terra di Dancalia, nel maggio del 1881.>>
Inoltre il Prof E Bonatti (Univ. Bologna) ed il Prof Ferrara
(Univ. Pisa) avevano raggiunto nel 1968, l'isola con un canotto
durante un lavoro poco conosciuto anche in ambito scientifico:
il rilievo batimetrico di tutto il Lago Giulietti ovviamente
correlato di foto.
[5] - Fotografia di Carlo Franchini.
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