Capitolo 6

ZAAD AMBA

 
 
 

Apro casualmente la Guida dell'Africa Orientale Italiana del C.T.I. e vi leggo: " Da Cheren a Zaad Ambà. Gita di primordine riservata a buoni alpinisti … panorama sull'ampia valle dello Sciotel che si apre a picco con un dislivello di 1250 metri … nella chiesa curioso quadro di pergamena … metri 2142".

Molti anni addietro mi ero faticosamente arrampicato sul Bizen (2450 metri) non lontano dall'Asmara, il monte con il famoso Convento della Visione ove le donne e pure gli animali di gentil sesso non possono salire; anche a Zaad Ambà il gentil sesso non è ammesso per non sconvolgere la quiete del santo luogo ma non è quello che mi interessa, bensì la descrizione che ne da la guida sopracitata, rimane solo da trovare un compagno di viaggio visto che l'impresa si presenta non troppo facile e nessuno naturalmente è più disponibile di padre Lino, tanto più che presso un convento dovrebbe trovarsi a suo agio.

Ovviamente tutto inizia quando può iniziare e questo all'Asmara accade puntualmente per tutti nel primo pomeriggio del sabato. A Cheren, una ridente cittadina infossata tra i monti a quota 1400 metri in una delle migliori zone climatiche dell'Eritrea ci si arriva in un batter d'occhio, sono solo novantuno chilometri e poi nel giro di pochi minuti si percorre la discesa del Dongolas ai piedi degli alti monti ove si svolsero le battaglie più lunghe, difficili e cruente dell'ultima guerra tra le truppe italiane e gli ascari abissini da una parte e le truppe britanniche coaudivate da militi sudafricani ed indiani dall'altra. Churchill, nelle sue memorie, cita questo episodio come il più cruento delle guerre d’Africa. Durò circa due mesi e una volta caduto il fronte gli inglesi occuparono in una baleno tutta l’Eritrea. Anche in questa battaglia, che segnò la capitolazione e la perdita della colonia - dell'Impero - la resa degli italiani fu accolta con la resa delle armi dagli inglesi agli sconfitti, così come lo fu per l'epica battaglia dell'Amba Alagi nella quale il Duca d'Aosta dovette arrendersi agli inglesi. Alle due estremità opposte della città di Cheren vi sono i cimiteri di guerra italiano e britannico ed è difficile contarne le croci.

Pochi chilometri ancora e si abbandona la piana ricca di acacie e giganteschi baobab inoltrandosi in una pista che termina nel giro di alcuni chilometri tra basse gole in un paesetto con una grande chiesa e alcune basse costruzioni in muratura frammiste ai tipici tucul. Ci ritroviamo naturalmente ospiti dei preti copti ed essendo padre Lino un religioso, anche se di diversa confessione, siamo ben accolti. A sera ci danno una branda e una coperta e dormiamo all'aperto nei pressi di una costruzione in muratura. Ma nel cuore della notte alcuni uomini si avvicinano, apparentemente hanno voglia di molestarci; mi toccano con un oggetto freddo … sarà un bastone, tutti hanno un bastone da quelle parti per difendersi dagli animali o per uccidere i serpenti che si infilano ovunque. Padre lino finge di dormire e non batte ciglio, io mi irrito e pur non conoscendo la lingua tigrina sfodero un ristretto repertorio di parolacce in lingua locale - nessuno può vivere da quelle parti senza sapere almeno quelle cinque o sei parole - e gli sconosciuti brontolando qualcosa si allontanano, apparentemente un piccolo incidente senza conseguenze.

All'alba siamo in piedi e già in cammino, abbiamo una buona idea della direzione da seguire tanto più che la cima del monte è spesso in vista, apparentemente a portata di mano. La salita è ardua ma non certamente come fa credere la guida del C.T.I., basta essere buoni camminatori e non ci sono problemi; la zona è molto bella e caratteristica, ricca di variopinte farfalle, uccelli e giganteschi millepiedi e una bassa ma discreta vegetazione la tinge di un verde intenso. Ad ovest grandi monti e la visuale si posa oltre sul ciglio dell'altipiano, a nord immense pianure semideserte con monti assolutamente inacessibili tanto sono ripidi, una visuale maestosa. Dopo un paio d'ore sostiamo in una capanna dove vi sono non meno di una ventina di giovani preti copti, tutti indigeni, ove ci rifocilliamo e scattiamo qualche foto e quando ripartiamo non siamo più soli in quanto ci dicono che avremo bisogno di una guida e di assistenza. Si rincomincia a salire ed improvvisamente un'affilatissima lama dinnanzi a noi taglia in due il nulla - è un ripidissimo e strettissimo costone rosso, una sella che precipita praticamente a picco su entrambi i lati per oltre settecento metri e si riunisce un paio di centinaia di metri più avanti con un altissimo monte con una parete liscia come l'olio stesa perpendicolarmente per 1250 metri tra il cielo e la terra. Quel costone, non vi sono dubbi, è un passaggio obbligato ma noi non ci sentiamo più molto obbligati a traversarlo.

Sto pensando che solo i ragni possono camminare su quelle pareti quando scorgiamo un giovane prete proveniente dalla montagna opposta che cammina tranquillamente in equilibrio sul dorso del costone; tira vento lassù e i grossi falchi si divertono a volare bassi e non distanti da quel giovane uomo, mi chiedo se mai arriverà bene in vista dell'obiettivo della mia macchina fotografica. In effetti veniamo a sapere che diversi preti sono passati da qual costone al paradiso senza soste intermedie, ora tocca a noi tentare. Ci levano le scarpe, prendono i nostri zaini e si avviano in perfetto equilibrio e veloci, sicuri di se, in direzione del monte opposto.

Io prego, prego per la mia nuova Rolleiflex biottica, le rate sono ancora da pagare - non penso al giovane uomo che la porta, se precipita va direttamente in paradiso. La mia Rolleiflex e i miei scarponcini che tante soddisfazioni mi hanno dato dalle assolate pianure dancale alle stupende Dolomiti venete finiranno direttamente all'inferno - ma ora è il nostro turno, tocca a noi affrontare il passaggio. Abbiamo anche la scelta tra l'equilibrismo impavido e la vita da ragno; ci hanno tolto le scarpe perchè per un certo tratto sul dorso molto inclinato del costone si può - e si deve - camminare e i piedi nudi fanno più presa su quel granito rossastro e, in effetti, i ragni non usano calzature di alcun tipo. Un lieve giramento di capo, una scivolata anche di pochi centimetri oppure la semplice impellente necessità di grattarsi il capo e nessuno mai ascolterà la tua avventura, non dalla tua viva voce! Si giunge poi su una pianetta di sosta , forse meno di un metro quadrato a da li ci si immette - per chi non gradisce l'equilibrismo - su un gradino artificiale scavato nella roccia, meno di venti centimetri di larghezza oltre che lungo come l'eternità quando lo si traversa ma in effetti un centinaio di metri - probabilmente meno - situato qualche metro al di sotto del tagliente dorso del costone. Sotto il gradino la parete è perfettamente liscia e casca perpendicolarmente a picco verso l'infinito … per oltre settecento metri. Padre Lino passa per primo, le palme delle mani e il torace appoggiate alla parete di granito, la testa rivolta verso l'alto e parte del tallone saldamente ancorata nel nulla; in fondo lui è della provincia di Verona e i monti sono il suo pane quotidiano. Attendo che sia passato e mi avvio, schiena poggiata alla parete di granito e palme delle mani poggiate alla medesima all'altezza della cintola, gli alluci saldamente ancorati nel vuoto; preferisco avere una maestosa panoramica di fronte che l'aver il naso piantato sulla pietra. Sento una voce lontana che mi urla di non guardare in basso ma la ignoro - pover'uomo, dev'essere preoccupatissimo … ma non posso farne a meno; non tanto per individuare la presunta pista d'atterraggio ma perchè forse per un difetto congenito, qualcosa che preme alla base della nuca o forse le carotidi strozzate, a me le vertigini vengono solo se rivolgo il capo verso l'alto. Tutto sommato la vista del baratro è interessante e piacevole, basta che duri … e dura quanto basta per rivedere scarponi e il resto.

Arriviamo in cima presso una bassa costruzione in pietra e cemento seminascosta dagli arbusti sull'orlo di una voragine senza fine che si affaccia sulla valle dello Sciotel, apparentemente si tratta di un pozzo o una cisterna, sul fianco dei nomi e una scritta in italiano che non rammento e la data, 1912. Iil panorama è imponente: un'immensa piana ricca di acacie ad est, che dai piedi del monte si perde all'orizzonte, una grossa frattura e altissime, inacessibili cime a nord e di fronte, su un dolce pendio una piccola costruzione circolare bianca di pietre e fango col tetto conico sormontato da una croce copta ed alcuni alveari di fango e fieno che sembrano dei silos alti un paio di metri e poi il pendio si tramuta nuovamente in un immenso baratro senza fine.

La piccola costruzione bianca, il convento della Trinità di Debre Sellassiè, è un luogo di culto. Internamente a meno di due metri un altro muro circolare equidistante dal primo con un'apertura che immette nel cuore della chiesetta; quà e la tipiche pitture religiose copte, degli affreschi murali, ma niente di eccezzionale.

La prassi è sempre la medesima: qualche chiacchiera confortati da un'ospitalità sincera e disinteressata, ci si rifocilla, un'esplorazione alle zone adiacenti in base al tempo disponibile e poi il ritorno, nuovamente il muro dei ragni che questa volta, essendo la pendenza favorevole e noi non più in perfette condizioni fisiche preferiamo evitare e attraversare a cavalcioni sulla cresta rischiando solo il fondo dei pantaloni e non l'intero contenuto e poi la discesa e la grande chiesa alla base dei monti ma qualcosa è cambiato, il prete copto che ci aveva accolti amichevolmente all'arrivo ci avvisa con aria grave che non possiamo ripartire ne di tentare di farlo ma non riusciamo a saperne di più.

É sera, ceniamo e attendiamo. Verso le dieci la porta si apre e una figura con una rozza divisa ci appare, non ha armi con se ma sembra costruito di pallottole tante ne ha addosso e non appare molto amichevole nei nostri confronti. Ci dice - parla perfettamente l'italiano - che la notte precedente abbiamo insultato i suoi uomini e che dovrà trattenerci per un periodo di tempo indeterminato, poi si vedrà. Subentra la lunga e paziente mediazione del prete copto e le nostre, in particolare le mie scuse - non sapevo che il bastone fosse la canna di un fucile - in fondo credo che non desiderino altro. L'atmosfera cambia, si beve qualcosa, si chiacchiera e poi ci ritroviamo nuovamente liberi, ripartiremo all'alba. L'uomo rivestito di piombo era il capo di un gruppo di guerriglieri eritrei.

A conti fatti in queste situazioni praticamente era sempre la stessa storia, quegli uomini che ormai sono al loro trentesimo anno di guerra con gli etiopici volevano essere conosciuti e riconosciuti per quel che sono, combattenti con una precisa motivazione politica, l'indipendenza della lorro terra, e non volgari scifta o criminali. Tante persone più direttamente coinvolte che dovevano in qualche modo obbligatoriamente versare delle tasse anche a loro oltre che allo stato che le reclamava di diritto - sia in pecunia o animali da gregge o generi di prima necessità e medicinali - si sentivano ovviamente derubate ma in un certo senso erano protette dato che erano sempre tempestivamente informate qualora si era prossimi all'inizio di una battaglia nella zona o l'approssimarsi di truppe etiopiche che avrebbero potuto danneggiarle, in effetti la loro protezione era reale e motivata da un un preciso, sincero ideale di libertà.

 
 
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5 - Il pianeta degli Afar [2] 7 - Il mare 8 - Il giorno più lungo 9 - Il professore
10 - Guerra e pace 11 - Il giorno dopo 12 - Epilogo