Capitolo 2

     
   

       
 
 

Mio padre aveva una Fiat 509, ovvero una "Balilla"; l'aveva acquistata, probabilmente di undicesima mano negli anni cinquanta; era una vettura che stava bene così com'era e non aveva bisogno di un compagno ma una quindicina d'anni dopo, per motivi professionali le si affiancava un camioncino Balilla super stagionato. Cadigia, così l'aveva battezzata mio padre scegliendo un nome di donna Bilena dal suo cesto dei ricordi, non ne fu molto contenta dato che la sua fama dovuta a rottura del mozzo e perdita di una qualunque ruota mentre invariabilmente curvava a piena velocità su due ruote nelle strade cittadine sarebbe venuta meno dovendomi io dedicare anche al nuovo arrivato. Non avendo determinati pregiudizi ed essendo il cambio di sesso già a quei tempi una cosa abbastanza normale non mi ero mai preoccupato di sapere se il camioncino era nato tale o se era una berlina modificata, ma di certo aveva un passo così corto che se non gli consentiva di acquistare fama lasciando scintille sull'asfalto lo metteva in grado, ovviamente equipaggiandolo con una buona scorta di robusto filo di ferro, di tener testa a ben più moderne fuoristrada.

Certo non era all'altezza del camioncino Balilla a 16 marce del Sig. Marcheggiano che aveva un cambio invertito anteposto al cambio normale e pertanto in prima ridotta e a tutto gas non si muoveva neanche a spingerlo. Ovviamente allora, prima del conio del termine 4WD, erano solo pochissimi privilegiati che potevano permettersi vetture fuoristrada con doppio differenziale e riduttore, gli altri si arrangiavano come potevano e spesso ingegnosamente con vecchi trabiccoli che non conoscevano ostacoli e che sopra tutto, non essendo moderni, non si fermavano mai.

L' equipaggiamento standard in dotazione era pressapoco sempre il medesimo: il già menzionato filo di ferro, una calotta di scorta per lo spinterogeno, almeno dieci chili di olio per differenziale da mettere nel motore per poter tornare a casa anche col motore fuso, quattro uova da buttare all'occorenza nel radiatore per tappare eventuali falle, due corde per farsi tirare fuori dal fango o dalla sabbia da qualche consenziente cammello di passaggio, una buona serie di chiavi meccaniche, un pò di olio di gomito e tanta voglia di vivere. Il mio poi era già tra i privilegiati essendo dotato di un rarissimo faro che si poteva azionare a mano coprente un arco di 360 gradi e che all'occorrenza poteva anche rallegrare le notti della compagna.

In Eritrea non c'erano Whisky a Gogò, chalet di montagna o immensi parchi giochi e luna park ma in compenso vi erano, e ovviamente vi sono ancora, un magnifico sole tutto l'anno e un mare unico al mondo; anche i monti sono unici al mondo, si poteva scegliere a volontà qualsiasi quota compresa tra i cinquemila metri dei monti del Semien (si, nel Tigray, ma l'Eritrea per noi allora non aveva confini ….) e i centoventi metri sotto il livello del mare delle pianure salate della Dancalia (anche queste nel Tigray), ma non mi ricordo di aver visto una persona con corde chiodi e moschettoni, quel nostro mare era troppo bello e molto più a portata di mano perchè qualcuno si dedicasse seriamente alla montagna. Ora, possedendo una buona attrezzatura da montagna, mi mordo le mani quando la vedo pensando che saprei bene e dove usarla tutto l'anno con un clima favoloso e senza dover pagare la consueta multa perchè non riesco assolutamente a distinguere le aree demaniali, dove si può godere un attimo di solitudine - giusto fino al sopraggiungere della guardia forestale che dopo la ramanzina invariabilmente ti appioppa una multa - da quelle dove la solitudine si perde tra scomposte orde di gitanti che combattono per un fazzoletto di terra da ricoprire adeguatamente con buste di plastica e lattine vuote.

Un'attività frenetica iniziava puntualmente nel primo pomeriggio di ogni sabato attorno al camioncino nei pressi di una sconsolata Cadigia: i vari controlli, le provviste, l'attrezzatura subacquea, il badile, la benzina di scorta, il ben nascondere in quanto non in regola la piccola pistola 7,65 o il fucile calibro 22 e poi via. Ovviamente questa era un'attività che iniziava in gran parte delle case della città: chi al mare, chi a caccia, chi per un picnic in campagna e la città si svuotava; la differenza era lo spazio disponibile, ognuno poteva perdersi a volontà. Naturalmente tutto questo spazio non era solo nostro, vi erano anche gli indigeni ai quali quegli spazi appartenevano di diritto e gentilmente ce li cedevano anche se non di rado ci si ritrovava molestati, una molestia ben studiata dovuta a situazioni contingenti - la povertà - che si risolveva generalmente in breve con una buona mancia che ci dava anche il sacrosanto diritto ad un nugolo di fedelissime guardie del corpo d'età compresa tra i tredici mesi e i tredici anni.

Difficilmente si era molestati da adulti ma in questi casi la situazione diveniva più difficile se non critica o addirittura pericolosa e la si risolveva spostandosi di alcuni chilometri o al limite anticipando, tra irripetibili imprecazioni con qualche stratagemma o laute mancie per svincolarsi, il rientro.

La meta del camioncino Balilla (inspiegabilmente non fu mai battezzato!) era quasi invariabilmente la stessa, il mare; generalmente verso Wakiro, una cinquantina di chilometri a nord della città di Massawa, di rado a sud della medesima. Di norma vi andavo da solo passando la maggior parte della giornata in mare nuotando, raccogliendo conchiglie ed ammirando le meraviglie subacquee; il fucile subacqueo lo portavo sempre appresso per sicurezza sostituendo all'arpione una corta canna in acciaio inossidabile - che avevo fabbricato con la cooperazione del vecchio tornio che il genitore si era costruito di sana pianta durante la seconda guerra mondiale - con una molla ed un percussore e nella quale trovava alloggio una cartuccia calibro dodici impermeabilizzata con ermetico per le guarnizioni della testata dell'auto e invariabilmente caricata a pallettoni, ma non ne ho mai avuto bisogno.

Il Mar Rosso è un mare estremamente ricco e gli squali, di conseguenza sempre ben nutriti, da quelle parti sono curiosi ma gentili se non addirittura molto discreti. Un giorno mi ritrovavo su una zattera costruita con fustini di plastica legati assieme sotto un ponte di tavole di legno (certo, i motoscafi allora esistevano ma come le fuoristrada erano alla portata di solo pochi eletti) quando mi resi conto che un giovane squalo tigre, una stupenda bestia bluastra e maculata di bianco, mi teneva compagnia prendendosi il sole appoggiato alla zattera. Misurava non meno di tre metri, forse quattro (uno squalo tigre adulto può raggiungere o superare i tredici metri) ed era troppo bello per lasciarlo andar via, decisi di catturarlo. Sparargli col fucile subacqueo armato di arpione (ancora non avevo inventato la lupara) dalla zattera ovviamente era facilissimo ma significava perdere fucile e squalo per cui decisi di immergermi calandomi silenziosamente in acqua dalla parte opposta allo squalo ma una volta in acqua non lo vidi più: cominciai a nuotare ed immergermi - dieci, dodici, forse quindici metri ma non si vedeva ne il fondale ne lo squalo. Buio sotto, un'enorme macchia luminosa sopra, niente attorno ma quel niente attorno ad un certo momento mutò: a corto di respiro, la consapevolezza di essere in un ambiente che non era il mio e la possibilità di essere spiato da chi stavo cercando e, passato l'entusiasmo iniziale la consapevolezza che un piccolo arpione per quel pesce era come uno spillo per un'elefante e quel niente divenne un mare di incontrollabile terrore … non rammento come tornai in zattera ma la paura, la vera paura è indimenticabile. Anche se sai perfettamente che un squalo tigre è innocuo e per nulla pericoloso.

Curiose, ma molto gentili, da quelle parti sono anche le popolazioni nomadi della tribù Rashaida, genti di antica provenienza araba rifugiatesi, perchè perseguitate, prevalentemente nelle zone costiere presso Massawa e che mai si son mescolate con gli altri ceppi etnici locali; molto si diceva della bellezza delle loro donne, ma si mostrano sempre con ornatissimi veli che coprono il loro volto fin sotto gli occhi, occhi invariabilmente d'un nero intenso e di gran bellezza.

Le gite a nord di Massawa erano più o meno sempre uguali ma piacevoli, il Balilla ormai sembrava programmato come un moderno personal computer: bastava metterlo in moto ed arrivava a destinazione quasi automaticamente; solo una volta mi fu necessario aggiungere alcuni cammelli ai pochi cavalli che il suo vecchio motore disponeva per riuscire a tirargli fuori la pancia dalle finissime sabbie dorate di quelle zone. Ma avevo anche sentito parlare, stranissime storie, di un altro pianeta che iniziava circa ottanta chilometri a sud di Massawa e che si estendeva sino alla ex Somalia Francese, la terra degli Afar e degli Issa. Ovviamente il Balilla ne fu entusiasta, aggiunse un giorno di ferie al weekend e si mise in moto. Si rese presto conto che le cose erano differenti, la pista era più rocciosa, malandata, ogni tanto doveva aggiustarsela per poter procedere, il radiatore beveva sempre di più per cercare di dimenticare quella calura, ma niente poteva fermarlo. Ormai era alle porte della Dancalia, aveva visto la piana di Wangabo con branchi di innumerevoli ariel (una varietà di gazzelle - negli anni seguente decimate dai militari americani che andavano a caccia con il mitra solo per portarsi qualche corno a casa, fatto che poi indusse il governo a regolamentare molto più seriamente la caccia) e molti struzzi, tutte cose che al nord non esistevano quando in una pianetta salata quasi d'un colpo sprofondò in un fango viscido e colloso che lo invischiò sino ai parafanghi.

Ora ci voleva un miracolo oppure un elicottero, temevo di dover passare la il resto della mia esistenza ma avvenne il miracolo. Una nube di polvere viaggiava veloce e sicura poco distante in direzione nord, la vidi solo perchè il fango ancora non mi aveva raggiunto gli occhi. Il mio intuito mi diceva che all'interno vi si nascondeva la mia salvezza, per cui cominciai ad urlare e gesticolare. La nube di polvere mutò direzione e si avvicinò, tramutandosi in un magnifico Jeep Hurricane - fin'ora l'avevo visto solo sui giornali ma in quel momento cominciai a sognare - erano due norvegesi che rientravano da quel misterioso pianeta che Balilla non avrebbe mai visto. Un robusto cavo d'acciao, un'accellerata e alè! Balilla era di nuovo sul terreno solido; due chiacchiere, una bibita, un grazie e via, di nuovo in marcia verso sud. Forse era solo la stanchezza accumulata nel cercare di disinfangarmi ma qualcosa non quadrava, mi sembrava che la direzione di marcia e la direzione del muso di Balilla non combaciassero ma non importava, ormai ero alle porte della Dancalia.

Un'altra nuvoletta di polvere si materializzò in lontananza alle mie spalle e in breve mi raggiunse tramutandosi in una Land Rover, era il Rag. Tortelli, presidente della sezione asmarina del Club Alpino Italiano, con alla guida un autista italiano, il Sig. Colombo, un vecchio coloniale. Scambiammo due chiacchiere - anche loro erano diretti in Dancalia - e al momento di separarci il Sig. Colombo notò che Balilla sembrava di cattivo umore, non che avesse la luna storta ma in effetti era un pò storto. Meccanico capace e con lunga esperienza intuì immediatamente la situazione; Balilla non aveva avuto uno strappo muscolare ma bensì uno strappo al chassis: anteriormente era spaccato in due sul lato guida e tra i due tronconi ci si poteva quasi stendere un'amaca - forse l'Hurricane aveva tirato un pò troppo energicamente - ci voleva niente a rimetterlo in sesto … sempre che avessi del buon filo di ferro a portata di mano…

Istintivamente lo sguardo si posò sul robusto bastone che avrebbe accompagnato il Rag. Tortelli, che calza una scarpa ortopedica, per il resto dei suoi giorni: troppo liscio! non fu certo facile recuperare un tronchetto d'albero in una zona semideserta, ma un volta disponibile bastò mettere in marcia Balilla avviandolo lentamente contro una grossa roccia sino a riportare a giunzione i due tronconi del chassis, appoggiare il tronchetto d'albero alla ferita e fasciare saldamente col filo di ferro: era fatta, non avrei avuto problemi a tornare a casa ma, a loro dire, conoscitori della zona, dovevo rinunciare alla Dancalia oppure lasciare Balilla in un piccolo villaggio di pescatori poco distante sotto il vulcano Dola, un vulcano spento con il cratere disegnato da Giotto e, all'interno del cono sui bordi alti del quale fioriscono stupende orchiedee bianche una piccola e magnifica foresta e unirmi a loro. Sarebbero arrivati solo fino a Bardoli, praticamente l'inizio della Dancalia sulla penisola del Buri e il giorno dopo sarebbero rientrati ma non avendo scelta abbandonai Balilla e la mia preziosa solitudine e mi unii a loro.

Questione di pochi chilometri e la situazione cambiò; la strada, se così si poteva chiamare, si tramutò in una pista che anche i cammelli percorrevano a fatica. Le pietre e la sabbia si tramutarono in enormi blocchi di lava ed in alcuni posti vi erano grosse fratture con enormi blocchi di basalto colonnare che cascavano a picco nel mare sottostante, la sabbia dorata divenne nera. Mi resi conto che il tronchetto di Balilla in quella zona si sarebbe piantato subito e non sarebbe germogliato mai, si sarebbe tramutato in una lapide per Balilla. A tratti a strapiombo sotto di noi appariva un mare di un azzurro intenso poi la strada si allontanò dalla costa dirigendosi verso l'entroterra e dopo un paio d'ore d'infernali buche e salti, d'incanto, apparve un deserto di sabbia dorata infestato da grosse pietre di nera lava, quà e là qualche rovo e poi una diramazione con un vecchio cartello: una freccetta e la scritta Mersa Fatma, un piccolo porto in disuso quasi duecento chilometri più a sud: poco lontano sulla sinistra seminascosto tra le rocce e le acacie si intravvede una costruzione in muratura, è il piccolo fortino di Bardoli.

Verso l'imbrunire del giorno dopo Balilla è di nuovo in moto e dirige allegramente verso Massawa, non risente minimamente della pesante ferita sì ben curata. All'imbocco della diga di Forò è ormai buio, per cui spengo motore e fari e attendo con la luce accesa in cabina e le mani alzate. I poliziotti del luogo hanno la vita difficile e pertanto il dito facile sul grilletto di giorno, figuriamoci al buio … meglio farsi riconoscere e difatti poco dopo arrivano avvicinandosi con cautela, uno di loro forse mi aveva fermato per un controllo all'andata, riconosce la vettura e dopo due parole con i compagni mi fanno cenno di passare. Le ore passano, è buio pesto e dato che la giornata seguente Balilla non potrà comunque essere a destinazione in quanto dovrà cercarsi un saldatore per disinfettare la ferita e farsi dare un paio di punti decide di dirigere sulla costa verso Ras Amas, un incantevole posto che tanto piaceva a Cadigia, con un mare ricco di scogli corallini d'un intenso color rosso.

Ma qualcosa non quadra più, la pista è sparita; a un certo punto Balilla si ritrova a cavallo di un dosso con le quattro ruote che non toccano terra e ci vuole tanta pazienza per fargli ritrovare la sua dignità … non è facile trovare al buio in zone desertiche pesanti pietre da piazzare sull'estremità inferiore del camioncino per fargli rimettere un paio di ruote a terra. Gira e rigira si rende conto di essersi perso e di comune accordo decidiamo di pernottare dove ci troviamo. Son coricato da un'oretta quando una iena comincia a ridere; mi da fastidio esser preso in giro, specialmente così, al buio nel cuore della notte. Tiro fuori il fucile da suo nascondiglio e sparo un colpo in aria. La iena non ride più, ma solo per un paio di minuti; uno, due, tre altri colpi in aria ma niente da fare, non demorde e per evitare che morda vado a cercar di dormire nel cassoncino di Balilla ma ormai non riesco più a prender sonno. Mi alzo, faccio due passi e ad un certo punto vedo - è strano, è buio pesto sotto un'incredibile mare di stelle - una figura vestita di bianco che si dirige verso di me. Ho il fucile in mano e il coltellaccio alla cintola ma sono tranquillo, quella strana figura così visibile di notte non mi intimorisce. Si ferma vicino a me e mi chiede in lingua araba come raggiungere un certo luogo; credo di sapere dove vuole andare e in arabo gli spiego chiaramente come arrivarci. Mi ringrazia, si gira e se ne va, è di nuovo buio pesto.

Passa un pò di tempo prima che me ne renda conto ma quella figura al buio, il kaftano bianco, i lineamenti, il turbante, il tutto si distingueva troppo bene e poi … io non parlo l'arabo; intuisco qualche parola, posso dirne qualcuna. Eppure non ho sognato … la iena ride ancora!

 
 
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