Mio
padre aveva una Fiat 509, ovvero una "Balilla";
l'aveva acquistata, probabilmente di undicesima mano negli anni
cinquanta; era una vettura che stava bene così com'era e non
aveva bisogno di un compagno ma una quindicina d'anni dopo,
per motivi professionali le si affiancava un camioncino Balilla
super stagionato. Cadigia, così l'aveva battezzata mio padre
scegliendo un nome di donna Bilena dal suo cesto dei ricordi,
non ne fu molto contenta dato che la sua fama dovuta a rottura
del mozzo e perdita di una qualunque ruota mentre invariabilmente
curvava a piena velocità su due ruote nelle strade cittadine
sarebbe venuta meno dovendomi io dedicare anche al nuovo arrivato.
Non avendo determinati pregiudizi ed essendo il cambio di sesso
già a quei tempi una cosa abbastanza normale non mi ero mai
preoccupato di sapere se il camioncino era nato tale o se era
una berlina modificata, ma di certo aveva un passo così corto
che se non gli consentiva di acquistare fama lasciando scintille
sull'asfalto lo metteva in grado, ovviamente equipaggiandolo
con una buona scorta di robusto filo di ferro, di tener testa
a ben più moderne fuoristrada.
Certo
non era all'altezza del camioncino Balilla a 16 marce del Sig.
Marcheggiano che aveva un cambio invertito anteposto al cambio
normale e pertanto in prima ridotta e a tutto gas non si muoveva
neanche a spingerlo. Ovviamente allora, prima del conio del
termine 4WD, erano solo pochissimi privilegiati che potevano
permettersi vetture fuoristrada con doppio differenziale e riduttore,
gli altri si arrangiavano come potevano e spesso ingegnosamente
con vecchi trabiccoli che non conoscevano ostacoli e che sopra
tutto, non essendo moderni, non si fermavano mai.
L'
equipaggiamento standard in dotazione era pressapoco sempre
il medesimo: il già menzionato filo di ferro, una calotta di
scorta per lo spinterogeno, almeno dieci chili di olio per differenziale
da mettere nel motore per poter tornare a casa anche col motore
fuso, quattro uova da buttare all'occorenza nel radiatore per
tappare eventuali falle, due corde per farsi tirare fuori dal
fango o dalla sabbia da qualche consenziente cammello di passaggio,
una buona serie di chiavi meccaniche, un pò di olio di gomito
e tanta voglia di vivere. Il mio poi era già tra i privilegiati
essendo dotato di un rarissimo faro che si poteva azionare a
mano coprente un arco di 360 gradi e che all'occorrenza poteva
anche rallegrare le notti della compagna.
In
Eritrea non c'erano Whisky a Gogò, chalet di montagna o immensi
parchi giochi e luna park ma in compenso vi erano, e ovviamente
vi sono ancora, un magnifico sole tutto l'anno e un mare unico
al mondo; anche i monti sono unici al mondo, si poteva scegliere
a volontà qualsiasi quota compresa tra i cinquemila metri dei
monti del Semien (si, nel Tigray, ma l'Eritrea per noi allora
non aveva confini ….) e i centoventi metri sotto il livello
del mare delle pianure salate della Dancalia (anche queste nel
Tigray), ma non mi ricordo di aver visto una persona con corde
chiodi e moschettoni, quel nostro mare era troppo bello
e molto più a portata di mano perchè qualcuno si dedicasse seriamente
alla montagna. Ora, possedendo una buona attrezzatura da montagna,
mi mordo le mani quando la vedo pensando che saprei bene e dove
usarla tutto l'anno con un clima favoloso e senza dover pagare
la consueta multa perchè non riesco assolutamente a distinguere
le aree demaniali, dove si può godere un attimo di solitudine
- giusto fino al sopraggiungere della guardia forestale che
dopo la ramanzina invariabilmente ti appioppa una multa - da
quelle dove la solitudine si perde tra scomposte orde di gitanti
che combattono per un fazzoletto di terra da ricoprire adeguatamente
con buste di plastica e lattine vuote.
Un'attività
frenetica iniziava puntualmente nel primo pomeriggio di ogni
sabato attorno al camioncino nei pressi di una sconsolata Cadigia:
i vari controlli, le provviste, l'attrezzatura subacquea, il
badile, la benzina di scorta, il ben nascondere in quanto non
in regola la piccola pistola 7,65 o il fucile calibro 22 e poi
via. Ovviamente questa era un'attività che iniziava in gran
parte delle case della città: chi al mare, chi a caccia, chi
per un picnic in campagna e la città si svuotava; la differenza
era lo spazio disponibile, ognuno poteva perdersi a volontà.
Naturalmente tutto questo spazio non era solo nostro, vi erano
anche gli indigeni ai quali quegli spazi appartenevano di diritto
e gentilmente ce li cedevano anche se non di rado ci si ritrovava
molestati, una molestia ben studiata dovuta a situazioni contingenti
- la povertà - che si risolveva generalmente in breve con una
buona mancia che ci dava anche il sacrosanto diritto ad un nugolo
di fedelissime guardie del corpo d'età compresa tra i tredici
mesi e i tredici anni.
Difficilmente
si era molestati da adulti ma in questi casi la situazione diveniva
più difficile se non critica o addirittura pericolosa e la si
risolveva spostandosi di alcuni chilometri o al limite anticipando,
tra irripetibili imprecazioni con qualche stratagemma o laute
mancie per svincolarsi, il rientro.
La
meta del camioncino Balilla (inspiegabilmente non fu mai battezzato!)
era quasi invariabilmente la stessa, il mare; generalmente verso
Wakiro, una cinquantina di chilometri a nord della città di
Massawa,
di rado a sud della medesima. Di norma vi andavo da solo passando
la maggior parte della giornata in mare nuotando, raccogliendo
conchiglie ed ammirando le meraviglie subacquee; il fucile subacqueo
lo portavo sempre appresso per sicurezza sostituendo all'arpione
una corta canna in acciaio inossidabile - che avevo fabbricato
con la cooperazione del vecchio tornio che il genitore si era
costruito di sana pianta durante la seconda guerra mondiale
- con una molla ed un percussore e nella quale trovava alloggio
una cartuccia calibro dodici impermeabilizzata con ermetico
per le guarnizioni della testata dell'auto e invariabilmente
caricata a pallettoni, ma non ne ho mai avuto bisogno.
Il
Mar Rosso è un mare estremamente ricco e gli squali, di conseguenza
sempre ben nutriti, da quelle parti sono curiosi ma gentili
se non addirittura molto discreti. Un giorno mi ritrovavo su
una zattera costruita con fustini di plastica legati assieme
sotto un ponte di tavole di legno (certo, i motoscafi allora
esistevano ma come le fuoristrada erano alla portata di solo
pochi eletti) quando mi resi conto che un giovane squalo tigre,
una stupenda bestia bluastra e maculata di bianco, mi teneva
compagnia prendendosi il sole appoggiato alla zattera. Misurava
non meno di tre metri, forse quattro (uno squalo tigre adulto
può raggiungere o superare i tredici metri) ed era troppo bello
per lasciarlo andar via, decisi di catturarlo. Sparargli col
fucile subacqueo armato di arpione (ancora non avevo inventato
la lupara) dalla zattera ovviamente era facilissimo ma
significava perdere fucile e squalo per cui decisi di immergermi
calandomi silenziosamente in acqua dalla parte opposta allo
squalo ma una volta in acqua non lo vidi più: cominciai a nuotare
ed immergermi - dieci, dodici, forse quindici metri ma non si
vedeva ne il fondale ne lo squalo. Buio sotto, un'enorme macchia
luminosa sopra, niente attorno ma quel niente attorno ad un
certo momento mutò: a corto di respiro, la consapevolezza di
essere in un ambiente che non era il mio e la possibilità di
essere spiato da chi stavo cercando e, passato l'entusiasmo
iniziale la consapevolezza che un piccolo arpione per quel pesce
era come uno spillo per un'elefante e quel niente divenne un
mare di incontrollabile terrore … non rammento come tornai in
zattera ma la paura, la vera paura è indimenticabile. Anche
se sai perfettamente che un squalo tigre è innocuo e per nulla
pericoloso.
Curiose,
ma molto gentili, da quelle parti sono anche le popolazioni
nomadi della tribù Rashaida, genti di antica provenienza araba
rifugiatesi, perchè perseguitate, prevalentemente nelle zone
costiere presso Massawa e che mai si son mescolate con gli altri
ceppi etnici locali; molto si diceva della bellezza delle loro
donne, ma si mostrano sempre con ornatissimi veli che coprono
il loro volto fin sotto gli occhi, occhi invariabilmente d'un
nero intenso e di gran bellezza.
Le
gite a nord di Massawa erano più o meno sempre uguali ma piacevoli,
il Balilla
ormai sembrava programmato come un moderno personal computer:
bastava metterlo in moto ed arrivava a destinazione quasi automaticamente;
solo una volta mi fu necessario aggiungere alcuni cammelli ai
pochi cavalli che il suo vecchio motore disponeva per riuscire
a tirargli fuori la pancia dalle finissime sabbie dorate di
quelle zone. Ma avevo anche sentito parlare, stranissime storie,
di un altro pianeta che iniziava circa ottanta chilometri a
sud di Massawa e che si estendeva sino alla ex Somalia Francese,
la terra degli Afar e degli Issa. Ovviamente il Balilla ne fu
entusiasta, aggiunse un giorno di ferie al weekend e si mise
in moto. Si rese presto conto che le cose erano differenti,
la pista era più rocciosa, malandata, ogni tanto doveva aggiustarsela
per poter procedere, il radiatore beveva sempre di più per cercare
di dimenticare quella calura, ma niente poteva fermarlo. Ormai
era alle porte della Dancalia, aveva visto la piana di Wangabo
con branchi di innumerevoli ariel (una varietà di gazzelle -
negli anni seguente decimate dai militari americani che andavano
a caccia con il mitra solo per portarsi qualche corno a casa,
fatto che poi indusse il governo a regolamentare molto più seriamente
la caccia) e molti struzzi, tutte cose che al nord non esistevano
quando in una pianetta salata quasi d'un colpo sprofondò in
un fango viscido e colloso che lo invischiò sino ai parafanghi.
Ora
ci voleva un miracolo oppure un elicottero, temevo di dover
passare la il resto della mia esistenza ma avvenne il miracolo.
Una nube di polvere viaggiava veloce e sicura poco distante
in direzione nord, la vidi solo perchè il fango ancora non mi
aveva raggiunto gli occhi. Il mio intuito mi diceva che all'interno
vi si nascondeva la mia salvezza, per cui cominciai ad urlare
e gesticolare. La nube di polvere mutò direzione e si avvicinò,
tramutandosi in un magnifico Jeep Hurricane - fin'ora l'avevo
visto solo sui giornali ma in quel momento cominciai a sognare
- erano due norvegesi che rientravano da quel misterioso pianeta
che Balilla non avrebbe mai visto. Un robusto cavo d'acciao,
un'accellerata e alè! Balilla era di nuovo sul terreno solido;
due chiacchiere, una bibita, un grazie e via, di nuovo in marcia
verso sud. Forse era solo la stanchezza accumulata nel cercare
di disinfangarmi ma qualcosa non quadrava, mi sembrava che la
direzione di marcia e la direzione del muso di Balilla non combaciassero
ma non importava, ormai ero alle porte della Dancalia.
Un'altra
nuvoletta di polvere si materializzò in lontananza alle mie
spalle e in breve mi raggiunse tramutandosi in una Land Rover,
era il Rag. Tortelli, presidente della sezione asmarina del
Club Alpino Italiano, con alla guida un autista italiano, il
Sig. Colombo, un vecchio coloniale. Scambiammo due chiacchiere
- anche loro erano diretti in Dancalia - e al momento di separarci
il Sig. Colombo notò che Balilla sembrava di cattivo umore,
non che avesse la luna storta ma in effetti era un pò storto.
Meccanico capace e con lunga esperienza intuì immediatamente
la situazione; Balilla non aveva avuto uno strappo muscolare
ma bensì uno strappo al chassis: anteriormente era spaccato
in due sul lato guida e tra i due tronconi ci si poteva quasi
stendere un'amaca - forse l'Hurricane aveva tirato un pò troppo
energicamente - ci voleva niente a rimetterlo in sesto … sempre
che avessi del buon filo di ferro a portata di mano…
Istintivamente
lo sguardo si posò sul robusto bastone che avrebbe accompagnato
il Rag. Tortelli, che calza una scarpa ortopedica, per il resto
dei suoi giorni: troppo liscio! non fu certo facile recuperare
un tronchetto d'albero in una zona semideserta, ma un volta
disponibile bastò mettere in marcia Balilla avviandolo lentamente
contro una grossa roccia sino a riportare a giunzione i due
tronconi del chassis, appoggiare il tronchetto d'albero alla
ferita e fasciare saldamente col filo di ferro: era fatta, non
avrei avuto problemi a tornare a casa ma, a loro dire, conoscitori
della zona, dovevo rinunciare alla Dancalia oppure lasciare
Balilla in un piccolo villaggio di pescatori poco distante sotto
il vulcano Dola, un vulcano spento con il cratere disegnato
da Giotto e, all'interno del cono sui bordi alti del quale fioriscono
stupende orchiedee bianche una piccola e magnifica foresta e
unirmi a loro. Sarebbero arrivati solo fino a Bardoli, praticamente
l'inizio della Dancalia sulla penisola del Buri e il giorno
dopo sarebbero rientrati ma non avendo scelta abbandonai Balilla
e la mia preziosa solitudine e mi unii a loro.
Questione
di pochi chilometri e la situazione cambiò; la strada, se così
si poteva chiamare, si tramutò in una pista che anche i cammelli
percorrevano a fatica. Le pietre e la sabbia si tramutarono
in enormi blocchi di lava ed in alcuni posti vi erano grosse
fratture con enormi blocchi di basalto colonnare che cascavano
a picco nel mare sottostante, la sabbia dorata divenne nera.
Mi resi conto che il tronchetto di Balilla in quella zona si
sarebbe piantato subito e non sarebbe germogliato mai, si sarebbe
tramutato in una lapide per Balilla. A tratti a strapiombo sotto
di noi appariva un mare di un azzurro intenso poi la strada
si allontanò dalla costa dirigendosi verso l'entroterra e dopo
un paio d'ore d'infernali buche e salti, d'incanto, apparve
un deserto di sabbia dorata infestato da grosse pietre di nera
lava, quà e là qualche rovo e poi una diramazione con un vecchio
cartello: una freccetta e la scritta Mersa Fatma, un piccolo
porto in disuso quasi duecento chilometri più a sud: poco lontano
sulla sinistra seminascosto tra le rocce e le acacie si intravvede
una costruzione in muratura, è il piccolo fortino
di Bardoli.
Verso
l'imbrunire del giorno dopo Balilla è di nuovo in moto e dirige
allegramente verso Massawa, non risente minimamente della pesante
ferita sì ben curata. All'imbocco della diga di Forò è ormai
buio, per cui spengo motore e fari e attendo con la luce accesa
in cabina e le mani alzate. I poliziotti del luogo hanno la
vita difficile e pertanto il dito facile sul grilletto di giorno,
figuriamoci al buio … meglio farsi riconoscere e difatti poco
dopo arrivano avvicinandosi con cautela, uno di loro forse mi
aveva fermato per un controllo all'andata, riconosce la vettura
e dopo due parole con i compagni mi fanno cenno di passare.
Le ore passano, è buio pesto e dato che la giornata seguente
Balilla non potrà comunque essere a destinazione in quanto dovrà
cercarsi un saldatore per disinfettare la ferita e farsi dare
un paio di punti decide di dirigere sulla costa verso Ras Amas,
un incantevole posto che tanto piaceva a Cadigia, con un mare
ricco di scogli corallini d'un intenso color rosso.
Ma
qualcosa non quadra più, la pista è sparita; a un certo punto
Balilla si ritrova a cavallo di un dosso con le quattro ruote
che non toccano terra e ci vuole tanta pazienza per fargli ritrovare
la sua dignità … non è facile trovare al buio in zone desertiche
pesanti pietre da piazzare sull'estremità inferiore del camioncino
per fargli rimettere un paio di ruote a terra. Gira e rigira
si rende conto di essersi perso e di comune accordo decidiamo
di pernottare dove ci troviamo. Son coricato da un'oretta quando
una iena comincia a ridere; mi da fastidio esser preso in giro,
specialmente così, al buio nel cuore della notte. Tiro fuori
il fucile da suo nascondiglio e sparo un colpo in aria. La iena
non ride più, ma solo per un paio di minuti; uno, due, tre altri
colpi in aria ma niente da fare, non demorde e per evitare che
morda vado a cercar di dormire nel cassoncino di Balilla ma
ormai non riesco più a prender sonno. Mi alzo, faccio due passi
e ad un certo punto vedo - è strano, è buio pesto sotto
un'incredibile mare di stelle - una figura vestita di bianco
che si dirige verso di me. Ho il fucile in mano e il coltellaccio
alla cintola ma sono tranquillo, quella strana figura così visibile
di notte non mi intimorisce. Si ferma vicino a me e mi chiede
in lingua araba come raggiungere un certo luogo; credo di sapere
dove vuole andare e in arabo gli spiego chiaramente come arrivarci.
Mi ringrazia, si gira e se ne va, è di nuovo buio pesto.
Passa
un pò di tempo prima che me ne renda conto ma quella figura
al buio, il kaftano bianco, i lineamenti, il turbante, il tutto
si distingueva troppo bene e poi … io non parlo l'arabo; intuisco
qualche parola, posso dirne qualcuna. Eppure non ho sognato
… la iena ride ancora! |