Kagnew
Station
La
ricezione è alquanto disturbata stasera, è strano … è strano
dato che su tutta la banda FM esiste solo quella stazione, ma
il segnale non giunge chiaro; anche la musica, contrariamente
al solito, è di tipo diverso. Non è la solita musica da camera
che ci tiene compagnia, senza sgradevoli interruzioni pubblicitarie,
24 ore su 24 - stasera trasmettono canzoni americane e neanche
scelte tra le migliori.
Qualcosa
non funziona, forse le valvole, i transistor e gli altri componenti
della stazione trasmittente hanno un presentimento, intuiscono
che da un momento all'altro una mano disattiverà un interruttore
e per loro sarà la fine: tutto verrà in seguito trasferito in
una grande fossa a Cuscet nei pressi del "Track B", un mare
di antenne e cavi pochi chilometri ad ovest della città e un
lanciafiamme distruggerà il tutto - non dovrà restare niente
altro che cenere, nessuno dovrà appropriarsi di alcuno di quei
componenti elettronici.
È
la mezzanotte del 1° giugno 1974 e attendo con angoscia la voce
dell'annunciatore … eccola:
"Well
friends … it's hard to say good bye … all I have to say is with
tears in my eyes … ciao Asmara … ciao."
Sono
commosso ed anche imbarazzato in quanto mentre scrivevo queste
parole è entrata mia moglie e, forse per la prima volta, mi
vede con le lacrime agli occhi, ma lei può capire.
Tu,
lettore, se non hai trascorso almeno un'ora della tua vita in
Eritrea, se non hai toccato con mano il paradiso, puoi solo
tentare di farlo ma certe sensazioni non potrai mai provarle.
Tornando
alla fine della trasmissione, questa è la traduzione delle ultime
parole dell'annunciatore: "Bene, amici … è difficile dire addio
… tutto quello che ho da dire lo dico con le lacrime agli occhi
… ciao Asmara … ciao …". Segue l'inno nazionale americano e
poi silenzio, un silenzio irreale, quasi un presagio di quel
che dovrà venire.
La
Kagnew Station, una
stazione radio delle Forze Armate Statunitensi di stanza in
Eritrea, aveva iniziato a trasmettere il 6 marzo 1948 e ci aveva
tenuto ininterrottamente compagnia per oltre ventisei anni -
era una parte di noi stessi che si perdeva nel nulla, in quell'etere
che ci aveva portato tanti anni di compagnia.
Ho
volutamente iniziato questo scritto con una nota triste - in
un certo senso l'ho iniziato dalla fine - con qualcosa che mi
ha estremamente disturbato: riascoltare una cassetta con incisi
gli ultimi attimi di un'era felice, una felicità che non potevamo
comprendere perché vi eravamo immersi dentro, perché l'altra
parte del mondo con i suoi problemi, la sua lotta per vivere
e sopravvivere era molto lontana da noi, ci toccava solo marginalmente
tramite la stampa, il cinema, i racconti di chi ogni tanto vi
ci si recava ma in fondo era una parte di mondo che per noi
non esisteva, che non apparteneva alla nostra realtà.
Gli
americani avrebbero dovuto rimanere in Eritrea sino al 1999
e noi ci sentivamo in una botte di ferro. È vero, c'era la paura
del "dopo Haile Selassiè", il vecchio imperatore amico degli
italiani ma comunque fino al 1999…
Dalla
mia finestra scorgo gli incantevoli monti veneti incapucciati
di neve, non avrei mai creduto di finire così male, il mio cuore
sussulta ancora al ricordo di quei magnifici 48 o 50 gradi all'ombra
del bassopiano, al ricordo di un'unica lunga stagione all'anno
sugli altopiani etiopici : la primavera.
Ma
doveva finire, non poteva continuare ad esistere in questo mondo
un grappolo di privilegiati che godeva egoisticamente l'ultimo
angolo di paradiso del pianeta. Alle loro mani laboriose, perché
tanto in effetti gli italiani in Eritrea avevano fatto e creato,
si sarebbero sostituite mani armate di Katiuscia e Kalashnikov,
il loro posto sarebbe stato preso da militari cubani e consiglieri
sovietici, alle importazioni di beni di consumo o di uso agricolo
o industriale sarebbero seguite massicce importazioni di armamenti,
centinaia di migliaia di mani avrebbero abbandonato le zappe
e l'aratro per formare un nuovo ordine sostituendo detti attrezzi
con un'ideologia inadatta alla povera gente incolta ed analfabeta
delle campagne africane.
Noi
in un certo senso eravamo stati gli attori principali immersi
in una fiaba ma la fiaba non era a lieto fine. Mi volto indietro
con lo sguardo sul passato dopo dodici anni di separazione dalla
terra natale ed intravvedo una realtà dura, pesante, quasi opprimente
- quella realtà che dall'altra sponda del fiume del tempo non
credevo potesse esistere, la mia, la nostra realtà di tutti
i giorni: il lavoro, l'inflazione, la politica, la strumentalizzazione
dell'individuo, la droga, lo sfacelo ecologico, il problema
di arrivare alla fine del mese e mille altri problemi più o
meno importanti ma reali. È vero, anche in Africa avevamo dei
problemi ma forse, e per la maggiore, solo volutamente, ce li
creavamo perché è nella natura umana essere irrequieti; qua
si corre per scansarli ma ci si stanca di correre e nel nostro
affanno i problemi della vita quotidiana ci raggiungono, ci
toccano e ci vuole una grande forza d'animo o una grande incoscienza
per non rimanerne sopraffatti.
Dicono
che esiste il mal d'Africa - non lo so - personalmente non tornerei
in Africa a meno che il tempo non iniziasse a scorrere a ritroso.
Quello che esiste non è il mal d'Africa ma l'Africa che ci si
porta dentro, è un'altra vita, era un altro pianeta.
La
foto al centro: "La moglie della guida, tiene stesi mentre cammina,
e in turno i propri indumenti, per farli asciugare dopo la tempesta
tra le colline Dulale."
Da: "La Dancalia esplorata" di Ludovico M. Nesbitt - R. Bemporad
e Figlio - Editori - Firenze - 1930.
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