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<B>Una peccatrice</B> di
Giovanni Verga
Dirò come mi sia pervenuta questa storia, che convenienze particolari
mi obbligano a velare sotto la forma del romanzo. Verso la metà di
novembre avevamo progettato una partita di campagna con Consoli e Pietro
Abate. Il 14, con una bella giornata, noi eravamo sulla strada di
Aci. Verso Cannizzaro un elegante calesse signorile oltrepassò la
nostra modesta carrozza da nolo. Giammai si è tanto umiliati dal contrasto
come in simili casi. Consoli, ch'era forse il più matto della compagnia,
gridò al cocchiere: «Dieci lire se passi quel calesse!». Il
cocchiere frustò a sangue le rozze, che cominciarono a correre
disperatamente, facendoci sbalzare in modo da esser sicuri di ribaltare; e
siccome le povere bestie non correvano come egli voleva, Consoli salì in
piedi sul sedile dinanzi per togliere le redini e la frusta dalle mani del
cocchiere. Allora cominciò un alterco fra quegli che non voleva cederle
e Consoli che le voleva ad ogni costo, mentre il legno correva alla
meglio. Tutt'a un tratto i cavalli si arrestarono; Abate ed io,
sorpresi di vederci fermati sì bruscamente, domandammo che c'era. «Un
morto»: fu la risposta laconica del cocchiere. Un convoglio funebre
attraversava lentamente lo stradone; esso era semplicissimo: un prete, un
sagrestano che portava la croce, un ragazzo che recava l'acqua benedetta,
e tre o quattro pescatori; il feretro, coperto di raso bianco e velato di
nero, era portato da quattro domestici abbrunati, e una carrozza
signorile, in gran lutto, lo seguiva. Quando la carrozza fu a paro
della nostra, una testa scoperta si affacciò allo sportello sollevando la
tendina di seta nera, e noi riconoscemmo uno dei nostri amici
d'Università, Raimondo Angiolini, laureato in medicina da quasi due
anni. Domandammo chi era morto ad un domestico in lutto che seguiva,
anch'egli a piedi, il convoglio, e ci fu risposto: «La contessa di
Prato». «Ella!», esclamammo tutti ad una voce, come se fosse stato
impossibile che la morte avesse potuto colpire quella fata, che aveva
fatto il fascino di tutti. Non sapevamo spiegarci per quali circostanze
la contessa fosse morta in quel luogo e Angiolini ne accompagnasse il
feretro; per un movimento istintivo ed unanime scendemmo da carrozza, e, a
capo scoperto, seguimmo il mortorio sino alla chiesetta. Raimondo
Angiolini entrando in chiesa venne a stringerci la mano; i nostri occhi
soltanto l'interrogavano, poiché egli rispose tristemente le stesse parole
che ci erano state dette: «La contessa di Prato». «Ella!», fu
ripetuto di nuovo. Raimondo abbassò il capo tristemente. «Morta...
la contessa!... morta qui!», esclamò Abate. «Sì, ieri l'altro, alle due
del mattino... una morte orribile.» Rimanemmo un pezzo in silenzio:
giammai questo spaventoso mistero del nulla avea colpito siffattamente le
noncuranti immaginazioni dei nostri 23 anni. «Sembra un sogno!»,
mormorò Consoli, «saranno appena due mesi ch'io la vidi al teatro.» «La
sua malattia fu brevissima»; rispose Raimondo, «è morta per Pietro
Brusio.» «Per Brusio! ella!... la contessa!...» Anche Brusio era uno
dei nostri compagni d'Università, buon giovanotto, alquanto discolo; ma,
per quanto ci torturassimo il cervello, non arrivammo a comprendere come
la Prato, questa Margherita dell'aristocrazia, fosse giunta ad amarlo, e,
quel ch'è più, a morire d'amore per lui. Siccome i nostri volti al certo
esprimevano tal dubbio, Angiolini riprese: «Nessuno, fuori di me e
dell'amico mio Brusio, e forse egli meno di me, potrà mai arrivare a
conoscere per qual concorso straordinario di circostanze questi due
esseri» (Angiolini nella sua qualità di medico diceva
<I>esseri</I>) «si sono incontrati ed hanno finito per
assorbire l'uno la vitalità dell'altro. Sono di quei misteri, che sembrano
troppo reconditi ma troppo ben tracciati nel loro sviluppo per essere
casuali, e che fanno supporre quello che il coltello anatomico non ci ha
potuto far trovare nelle fibre del cuore umano». «Vogliamo saperlo
allora!», saltò su a dire Consoli, «siamo tutti amici di
Brusio.» Angiolini, malgrado il suo scetticismo di medico, volse uno
sguardo alla bara, posta fra quattro ceri, nel mezzo della chiesa, mentre
il prete celebrava la messa. «Comprendete benissimo, amici miei, che
questo non è il luogo, né l'ora.» Ricondotti a quella triste
meditazione tutti fissammo a lungo e in silenzio quella cassa coperta di
raso e velata di nero, su cui il più allegro sole d'inverno, che
scintillava sui vetri della modesta chiesuola, mandava a posare uno dei
suoi raggi. Io non so come ciò avvenga, ma nessuno di noi tre, in quel
punto, quando quel bel sole invernale animava quelle spiagge ridenti, con
quel mare immenso che si vedeva luccicare attraverso la porta, fra tutto
quel sorriso di cielo e la vita che sentivamo rigogliosa, fidente,
espansiva, con il canto allegro dei pescatori che lavoravano sul lido e il
cinguettare dei passeri sul tetto della chiesa, a cui faceva un triste
contrapposto il silenzio funereo di quel recinto, interrotto solo dal
mormorare del prete che officiava, e la luce velata della chiesetta colle
pallide fiammelle di quelle torce, nessuno di noi tre, dicevo, poteva
credere intieramente che quelle quattro tavole racchiudessero quel corpo,
meraviglia di grazia e di eleganza, che, pochi giorni innanzi, quando si
vedeva passare al trotto del suo brillante equipaggio, faceva voltare
tante teste. Lo ripeto: giammai la morte ci era sembrata più imponente
e più possibile nello stesso tempo prima d'allora. Quando uscimmo di
chiesa dissi a Raimondo: «Hai bisogno di noi?». «No, grazie.» «E
Brusio?», domandò Abate. «È là»; rispose Angiolini additandoci una
graziosa casina. A quelle sole parole scorgemmo tutto l'abisso che
dovea separare Brusio dalla società, in quel momento in cui lo immaginammo
solo e annientato in quelle camere ancora profumate da lei, ancora
stillanti di quell'amore che inebriandoli aveva ucciso il più fragile dei
due esseri; ora solo, perduto nell'immensità di quel dolore profondo che
sbalordisce come il fulmine. Sentimmo che nulla potevamo fare per lui
in quel momento. «Addio!», dissi ad Angiolini stendendogli la
mano. «Ci vedremo?», aggiunse Abate. «Chi sa?... fra un mese o due
forse...» «E ci narrerai questa storia?», disse Consoli. «Tu la
scriverai?», rispose Raimondo rivolto a me. «Forse.» «In tal caso
bisogna che Pietro me ne dia prima il permesso. Addio.» Tre mesi dopo
rividi Angiolini al Caffè di Sicilia. Gli domandai di Brusio: era
ritornato a Siracusa, sua patria; gli rammentai la promessa, ed egli mi
narrò le parti principali di quella storia di cui noi avevamo assistito
alla triste catastrofe; però pei dettagli mi promise di comunicarmeli
minuziosi e precisi, dopo che avrebbe consultato certe lettere che aveva
ricevuto da Brusio e dalla contessa. Un mese più tardi ricevei dalla
Posta un grosso plico col bollo di Napoli; vi erano i dettagli e le
lettere che mi aveva promesso Angiolini, due o tre fotografie
rappresentanti diverse località di una casa abitata in Napoli da Pietro
Brusio, e finalmente la preghiera, che Raimondo mi faceva, se mai mi
decidessi un giorno a pubblicare questa storia dell'amore onnipotente, di
salvare rigorosamente le apparenze, in modo che neanche gli amici di
Brusio potessero penetrarne il segreto. Dal canto mio non ho fatto che
coordinare i fatti, cambiando i nomi qualche volta, ed anche contentandomi
di accennare le iniziali, quando, anche conosciuto il nome, le circostanze
per le quali è ricordato non sono compromettenti; rapportandomi spesso
alla nuda narrazione di Angiolini e alle lettere che questi mi rimise;
aggiungendovi del mio soltanto la tinta uniforme, che può chiamarsi la
vernice del romanzo.
<B>I</B>
In una bella sera degli ultimi di maggio, due giovanotti, tenendosi a
braccetto, passeggiavano pel gran viale del <I>Laberinto</I>
che dovea trasmutarsi in Villa Pubblica, con quella oziosità noncurante
che forma il carattere degli studenti e dei giovanotti che non hanno
ancora le pretensioni di <I>dandys</I>. Passeggiavano da
quasi cinque minuti in silenzio, quando una signora, abbigliata con gusto
squisito, appoggiandosi con il molle e voluttuoso abbandono che posseggono
solo le innamorate o le spose nella <I>luna di miele</I>, al
braccio di un uomo, anch'esso molto elegante, passò loro dinanzi; e lo
strascico della sua lunghissima veste sfiorò i calzoni del giovane alto e
bruno che stava a diritta, il quale non sembrò accorgersene. «La bella
donna!», esclamò il suo compagno, un giovane biondo, come per rompere quel
silenzio, che durava da un pezzo. L'altro, istintivamente, alzò il capo
e guardò la signora, che, o naturalmente, o per l'istinto della donna,
avea volto a metà il viso verso di loro, parlando con l'uomo che
l'accompagnava. Il bruno sembrò esaminarla di un lungo sguardo dalla
piuma del suo cappellino, che scherzava coi ricci dei suoi magnifici
capelli cadenti sin quasi sulle sopracciglia, alla punta del suo piccolo
piede, chiuso in stivaletti di seta nera, che allora, forse per la più
squisita civetteria, l'ampia guarnizione della veste lasciava scoperto
sino al basso di una gamba sottile e ben modellata. «Sì, molto bella!»,
diss'egli, come rispondendo a se stesso. E, malgrado che tentasse
immergersi di nuovo nei pensieri che lo tenevano sì preoccupato un momento
innanzi, due o tre volte alzò gli occhi a fissare la veste, che ancora
strisciava lontana sulla sabbia del viale. Alla porta ella montò nella
carrozza che l'aspettava, e partì. «Ella non dev'essere siciliana»;
ripigliò il bruno, che si chiamava Piero. «Chi te lo dice?» «Tutto:
il suo genere d'eleganza, la sua andatura... il modo stesso con cui
accolse la tua esclamazione.» «L'ha udito dunque!», mormorò il biondo,
arrossendo come un collegiale. «Raimondo, amico mio, sarai sempre un
ragazzetto su questo argomento. Credi dunque che quando una bella donna ti
passa dinanzi badi ad ascoltare le sciocchezze che le sussurra un
imbecille qualunque sotto il naso?» «Ma quest'imbecille può anche
essere un amante... e allora...» «E allora ragion dippiù per ascoltare
ciò che si dice di lei, quale impressione desta passando, per poi fare un
presente all'innamorato delle tue osservazioni (se sono favorevoli però,
bada!) sotto il pretesto di riderne; presente che deve rendere innamorato
quel povero allocco per dieci gradi dippiù.» Raimondo rise
dell'osservazione; e ambedue proseguirono a passeggiare in
silenzio. All'ingresso del giardino si separarono, colla tacita
promessa, data nella più tacita stretta di mano, di rivedersi
l'indomani. Noi cercheremo di delineare questi due personaggi, dei
quali uno è destinato ad avere la maggior parte negli avvenimenti che
verranno in seguito. Pietro Brusio, l'uno dei due (ricorriamo al
pseudonimo per questo come per quasi tutti i nostri personaggi, viventi
ancora la maggior parte e molto conosciuti) è, come abbiamo accennato, un
giovanotto alto; di circa 25 anni; alquanto magro, ciò che non impedisce
che abbia delle belle forme, le quali sarebbero più eleganti, se avesse il
segreto, come l'hanno molti, di saperle fare spiccare; ha i capelli assai
radi, di un castagno molto più chiaro di quello dei suoi pizzi e dei
baffi; pelle bruna; occhi piccoli e vivissimi; labbra alquanto grosse e
sensuali; narici larghe e dilatantisi sempre più alla minima aspirazione
del suo carattere impetuoso; piedi e mani piccolissime, in rapporto alla
sua statura. Nell'assieme figura energica e maschia, che può avere anche i
suoi riflessi di bellezza, messa sul suo piedistallo, nella sua giusta
luce, al suo posto insomma. È un giovane quale se ne incontrano molti in
Sicilia: sangue arabo in vene andaluse: orgoglioso come un
<I>Cid</I> egli non dissumula menomamente le sue pretensioni
di superiorità, che nulla sembra autorizzare nel suo esteriore. Vivo ed
impetuoso come tutti i meridionali, egli scenderebbe sino alla lotta di
piazza pel minimo sguardo un po' dubbio che s'incrociasse col suo. Natura
generosa del resto, elevata, con molte aspirazioni al superiore, troppo
nobile forse per trovarsi in contatto colla società del giorno senza
risentirne gli urti, egli passa colla maggior facilità dall'estrema
confidenza nella sua <I>stella</I>, nel suo avvenire (poiché
egli avea dato due o tre drammi al teatro di Siracusa, dei quali si era
parlato il giorno dopo soltanto, o non si era parlato affatto) allo
scoraggiamento massimo, alla disillusione più completa di tutti quei sogni
rosati, che pur riempiono un gran vuoto, rispondono ad un gran bisogno di
quell'età in cui il cuore e l'immaginazione vivono anch'essi la loro
vita. Il compagno che gli passeggiava allato è molto più piccolo;
biondo, piuttosto grasso; uno di quei caratteri che non servono sovente ad
altro che a far spiccare una individualità superiore a cui si
accompagnano, di cui sentono e subiscono l'influenza come un
satellite. Raimondo, il biondo, ha però il merito di essere come il
compimento del carattere infiammabile, sovente del soverchio, del suo
amico. Egli non ha la superiorità d'ingegno di lui, ma molta maturità di
giudizio, ciò che lo fa ragionare calmo ed assennato, ed impedisce a
Pietro di commettere mille pazzie, poiché Raimondo ha la voce dolce ed
insinuante ed il carattere conciliativo; sembra infine che l'ardente
carattere dell'amico suo subisca a sua volta l'influenza della pacata
indole di lui. Entrambi appartengono a due buone famiglie di Siracusa.
Raimondo è già laureato in medicina da quasi un anno, e Pietro studia
legge per studiare qualche cosa che non gli renda soltanto strette di mano
dei comici, che per altro si misuravano dal numero dei rinfreschi offerti
e mai rifiutati, e qualche applauso, assai freddo, della platea, che avea
il valore di un biglietto gratis. Abbiamo insistito, forse di
soverchio, su questi dettagli fisici e morali, d'uso per alcuni, per noi
resi indispensabili dalla necessità, che abbiamo peculiare, di far
<I>sentire</I>, diremmo, i caratteri che presentiamo prima di
agitarli nelle scene di un racconto intimo. Scopriamo sin dal principio il
meccanismo, per non attirarci la taccia, poscia, di aver fatto agire delle
marionette, da chi non ne vedesse il filo motore ch'è il cuore. Cinque
giorni dopo, all'ora solita, noi incontriamo i due amici, che passeggiano,
colla stessa sbadataggine, sotto gli alberi del
<I>Rinazzo</I>; l'uno, il biondo, chiacchierando quasi sempre
solo; il suo compagno col capo basso e le mani dietro le reni. «Mio
caro», diceva il biondo, guardando l'amico negli occhi in aria di malizia,
«risponderai almeno questa volta a quella piccina?» «Io?», rispose
bruscamente Pietro, come destandosi di soprassalto, «e perché
fare?» «Bella risposta! che pure non avrebbe avuto l'opportunità di
venir fuori oggi, se tu l'avessi data a te stesso il giorno, o piuttosto
la sera, che ti venne in mente di accalappiare colle tue commedie quella
poveretta.» «Credo che tu abbi ragione in quanto alla risposta; e che
tu dica una bestialità, ciò che fai spessissimo, in quanto a quello che mi
vai cantando di accalappiamenti e di
poverette...» «Pietro...» «Lasciami tranquillo, ti dico!... Ci credi
sul serio dunque che a quest'ora Maddalena, la <I>piccina</I>,
come la chiami, pianga e si disperi perché non le scrivo più, perché la
sera, onde aspettarla sotto il verone, non rischio più di farmi gettare
delle immondezze sul capo da qualche serva maligna, che finga di non
vedermi, e perché non do più lo spettacolo ai vicini, che si mettono ad
origliare dietro le imposte, di quelle freddure che si ricantano sempre
sullo stesso tuono: <I>buona sera; come stai? mi ami sempre? non
quanto me</I>... ecc. ecc., poiché le varianti sono pochissime?! In
fede mia che ne ho abbastanza di tali amori da quindici anni!!... Se mi
avesse permesso di salire un momento sulle scale... pazienza!...» «Sì,
pazienza per altri otto giorni! La sarebbe finita come tutte le altre...
Eppure ti assicuro che se tu l'avessi veduta piangere come io l'ho veduta;
se ella ti avesse abbracciato i ginocchi come li ha abbracciati a me, per
indurti ad andarla a vedere, a scriverle almeno... se tu avessi udito le
parole ch'ella mi diceva!...» «Parola d'onore!», esclamò sghignazzando
Pietro, «che tu ne sei innamorato cotto. Va, Raimondo, amico mio, tu farai
il tuo cammino, coi tuoi ventidue anni, i tuoi capelli biondi, e il tuo
volto fresco e roseo.» Il biondo prese quegli scherzi come li prendeva
sempre, dalla parte che lasciano ad un uomo di spirito, ch'è quella di
riderne pel primo, e riprese: «Se così fosse, confessa che mi saresti
molto obbligato di averti sbarazzato di una <I>noia</I>, senza
i ritornelli soliti di <I>traditore, Iddio è giusto</I>,
ecc.». Pietro ne rise esso pure, e strinse con effusione la mano del
suo amico. «Sentimi, caro Raimondo»; diss'egli alquanto gravemente; «io
non son di quelli che dicono: <I>fo così perché così fanno gli
altri.</I> Mi sento troppo superiore a questi
<I>altri</I> per seguirne l'esempio. A diciott'anni è permesso
credere ancora all'amore, alla fedeltà, alla donna tipo eroina, come
impastocchiano gli sfa[c]cendati nei romanzi... A ventiquattro (è
desolante quello che dico, ma non è men vero) si è scettici come lo
scetticismo, quando cento volte si sono ascoltate le più appassionate
proteste, fatte colle lagrime agli occhi, dalla donna che ha in saccoccia
la lettera del rivale...» «È curiosa!», interruppe Raimondo. «Che
cosa?» «Come ti hanno guastato i romanzi di Sue; tu, accanito
avversario dell'esagerazione della scuola francese, e che ora mi copii sì
bravamente <I>l'uomo stufo a ventun'anni</I>, lo
<I>Scipione</I> del <I>Martino il
Trovatello</I>...» «Non copio io!», disse Pietro quasi con
asprezza; «ti dico soltanto quello che penso. Ti dico anche che darei
qualche cosa del mio avvenire per possedere ancora le illusioni sì care
de' miei diciassette anni... Tu conosci la mia vita, Raimondo!... Ti
ricordi di una giovanetta che amai alla follia... Che fece quella
giovanetta, per la quale avevo pianto,... ne ho vergogna anche a
pensarci... pianto dinanzi a te... come un fanciullo... come un vile?!...
Ella m'ingannò per un mercante; poi per un nobile, per un uomo
ammogliato... E questa donna, che avea dato appuntamento per la sera al
suo <I>amico</I>, che ascoltava tremando le ore che segnava
l'orologio del salotto, poiché temeva ch'io m'incontrassi con lui,
abbracciava i miei ginocchi, come ieri Maddalena abbracciava i tuoi; mi
supplicava colle lagrime più ardenti, colle carezze più tenere, cogli
accenti più deliranti di non lasciarla sì tosto, di non lasciarla in
collera, poiché s'era accorta ch'io avevo sospetto di quello che dovevo
vedere mezz'ora più tardi... Dopo amai una maritata; credei che una
signora che rischia di romperla colla società, e colla sua felicità
istessa, dovesse molto sentire, quest'affetto, al quale sacrifica il suo
decoro, la pace domestica, e, presso di noi, fors'anche la vita...
Quindici giorni dopo, a caso, in una festa da ballo, seppi, da uno di
quegli amici che s'incontrano dappertutto, che da tre giorni egli era in
relazione con quella signora... e le espressioni appassionate di lei,
ch'egli mi citò, erano le stesse di quelle che aveva impiegato per farmi
credere al suo amore... In seguito amai una fanciulla... <I>pura
siccome un angiolo</I>, come direbbe il signor Germont nella
<I>Traviata</I>; ella aveva tutto ciò che può far credere alla
purità del cuore: distinzione d'educazione, coltura d'ingegno, bontà di
sentimenti... Io l'amai come un pazzo, quella fanciulla dal viso pallido e
dagli occhi cerulei... Scesi persino alle puerilità del collegiale,...
passare sotto i suoi veroni, seguitarla al passeggio e in chiesa... Quella
giovanetta rispose finalmente alle mie lettere, mi promise amore e
fedeltà, nell'istesso tenore, suppongo, in cui l'aveva promesso sei mesi
prima ad un giovane che sposò alcune settimane appresso... E dopo questo,
dopo innumerevoli esempî, che ogni giorno cadono sott'occhio, credi che si
possa più aver fede nell'<I>amore</I> propriamente detto, in
quest'amore chiesto e giurato spesso col rituale alla mano, senza passare
almeno per uno scolaro di primo anno?» «Ti rispondo colle tuo parole:
Credo che abbi ragione almeno per metà; ma confessa che per l'altra tu
esageri un pochino, lasciandoti trasportare, al solito, dalla tua
immaginazione.» «Può essere anche questo»; rispose sorridendo il
giovane; «del resto colla Maddalena l'ho rotta tranquillamente o
diplomaticamente, come vuoi meglio. Infine vuoi una parabola per
convincerti?» «Fuori la parabola!» «Ecco!», e Pietro trasse dal suo
portasigari, che avea trasformato anche in portafogli e portamonete, un
bigliettino in carta profumata ed involto in una sopracoperta piccolissima
color rosa; colla stessa flemma ne prese un sigaro ed un fiammifero.
Acceso il foglietto, cominciò ad accendere tranquillamente il
sigaro. Raimondo ebbe il tempo di leggere le ultime frasi assai tenere
del bigliettino, scritto con quel carattere minuto ed uguale che sembra
particolare alle signorine distinte, firmato in basso colle sole
iniziali. «Hai veduto?», gli domandò Pietro trionfante, buffandogli in
faccia il fumo azzurrognolo del sigaro. «Ho guardato ma non ho visto,
come il cieco della Bibbia.» «È semplicissimo: vi è un detto celebre:
<I>Fumo di gloria non val fumo di pipa</I>: ciò che in
parentesi dimostrerebbe che le mie più belle produzioni-erba non valgono
il fumo delizioso di questo <I>regalia</I>; io ne faccio un
altro: <I>Amor di donna</I>, e d'uomo, se si vuole,
<I>non dura più di cenere di carta</I>, o <I>biglietto
amoroso</I>... o <I>sigaro regalia</I>. Spero di farmi
nome almeno coi proverbi... giacché non l'ho potuto con opere di maggior
lena... Ma guarda laggiù, imbecille!...» «Che c'è?» «Cospetto!... la
signora che incontrammo l'altra volta alla Villa!» «È vero.» «Che
donna... Perdio!...» «Non è poi quella maraviglia che mi vai
cantando...» «Non ho parlato di maraviglie. Ti dico semplicemente che a
Catania, e in tutta Sicilia anche, son poche le donne che sappiano recare
così bene il loro <I>perdessus reine-blanche</I>, e che
sappiano appoggiarsi con tanta grazia al braccio di quel briccone in
guanti paglia e <I>pincenez</I> che ha la fortuna di premere
quel polsino contro le sue costole.» Essi passarono quasi rasente a
quella donna, che questa volta non li vide o fece le viste di non vederli,
e che sorrideva del suo riso incantevole al suo cavaliere, mentre gli
parlava. «Hai udito che bella voce!», esclamò Pietro, premendo il
braccio del suo compagno; «all'accento mi parve torinese... Io adoro tutto
il Piemonte in questo momento...» «Eppure veduta dappresso non è
bella...» «È adorabile, se non è bella! Essa non ha la bellezza
regolare, compassata, che direi statuaria, e che non invidio ai modelli
dei pittori; ma ha occhio che affascina, e sorriso che seduce carezzando,
quando questo fascino ci può fare atterrire coi suoi brividi troppo
potenti. Questa donna alta e sottile, di cui le forme voluttuosamente
eleganti sembrano ondeggiare lente e indecise sotto la scelta toletta che
le riproduce con tutta l'attrattiva vaporosa delle mezze tinte, ha tutte
le perfezioni per poter coprire ed anche far ammirare come pregi altre
imperfezioni; questa donna che ha bisogno di tutta la delicatezza e la
bellezza di contorno del suo collo da inglese per non far troppo spiccare
la piccolezza della sua testa da bambina; di tutta la flessibilità della
sua vita per far dimenticare l'estrema sottigliezza del suo corpo; di
tutta l'abbagliante bianchezza dei suoi denti per fare una bellezza della
sua bocca alquanto grande, con cui ella sorride sì dolce che sarebbe a
desiderarsi di vederla sempre sorridere; che si serve di tutte le ombre,
di tutti i riflessi più lucidi, più belli, più azzurrognoli dei suoi
magnifici capelli neri per nascondere che la sua fronte è alquanto larga
ed alta del soverchio; di tutta la limpidità dello sguardo dei suoi occhi,
infine, per farne ammirare la pupilla di un riflesso molto chiaro; questa
donna mi colpisce mille volte dippiù coll'effetto direi strano,
sorprendente, poiché rubato a Dio, della sua beltà... Io non potrei
giammai esprimerti l'effetto che mi fa questa bellezza, che non è tale che
quasi per un miracolo, poiché non ha nulla per esserlo, ed in cui tutto
sembra formare un assieme di grazia e d'incanto; questa bellezza che ha
bisogno di tutte le risorse della toletta, di tutte le seduzioni dei modi
e dell'accento, di tutto l'incanto dello sguardo e del sorriso, per
circondarsi di questo vapore trasparente... illusorio, lo confesso, che la
fa bella però, che la fa adorabile, poiché sembra non farla vedere che in
nube, attraverso l'incenso e l'orpello; questa bellezza che vuol essere
tale a dispetto della natura che l'avea fatta comune; questa figura
plastica che non ha di bello che gli elementi, direi, per divenir tale, e
lo spirito creatore che fa nascere tutte le grazie di cui si circonda; che
si mette allo specchio donna per sortirne silfide... maga...
sirena...» «To... to... to!... Pietro, amico mio, ne saresti
innamorato?...» «Io!», rispose il giovane scrollando le spalle, come
cadendo dalla sua esaltazione, «sei pazzo!» «Eppure tutti i pregi di
costei non valgono un solo di Maddalena. Venti ancor più belle di lei non
farebbero un angioletto così bello e perfetto qual è la
<I>piccina</I>, come mi piace chiamarla; che pure hai
abbandonato senza un pensiero.» Pietro fissò uno sguardo sull'amico,
poi un altro sulla signora ch'era già molto lontano, e rispose
semplicemente, abbassando il capo: «Maddalena non sa neanche annodarsi il
nastro del cappellino come colei». «È graziosa!», esclamò Raimondo.
«Dunque ameresti dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata,
d'impiegare prima due ore allo specchio?» «Sì, lo confesso... Chiamala
anche civetteria, o ciò che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei
tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le
perfezioni dello spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi
dettagli dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola
della donna che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi,
che tal prestigio dovrebbe recarmi, poiché la riverenza del cuore io non
l'ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la
mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò che
seduce e addormenta... tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei
sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi
trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è, come
il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno, un'ora, ma
l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorché scoprirò un cuore
nella donna.» Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri
secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del
sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le
forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua
immaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a ridere
fragorosamente, esclamando: «Che ne dici della mia tirata,
Pilade?». «Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che sei
scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per trasportarti
ai tempi in cui impiastricciavi carta.» «Hai ragione; bisogna
dimenticare quei tempi...», disse il giovane con una forzata allegria, che
pure avea una leggiera tinta d'amarezza. «<I>Destino!</I> ecco
la gran parola che gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella
quale io son credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero
fitto in capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una
corona qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei
tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se gli
uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita,
l'incolpabilità delle azioni umane rimarrebbe sugli scritti dei penalisti:
ecco che, almeno una volta, parlo da saggio...» «Ed anche il merito
delle azioni umane, in tal caso... E tu sei superstizioso in
quest'idea?» «Al fanatismo!» «Ma se tu fossi
<I>destinato</I> ad amare quella donna, che non hai veduto che
due volte, in passando?...» Pietro cominciò dallo scrollare le spalle,
al [suo] solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse
tristamente, come se quell'idea gli facesse pena o paura: «Chi lo
sa!?...».
<B>II</B>
Venti giorni sono scorsi da quello in cui incontrammo i due amici al
<I>Rinazzo</I>. Siamo nei lunghi giorni del giugno. Pietro
studia assiduamente da mattina a sera le sue tesi, poiché si approssimano
gli esami; ed esce assai di rado. La sera di un giovedì Raimondo venne
a trovarlo nel suo stanzino da studio, nella casa che abitava insieme a
sua madre e alle sue due sorelle, in via Vittoria. «Che vuoi?», domandò
Pietro bruscamente, celando, al suo solito, la viva amicizia che nutriva
pel suo compagno sotto quell'apparenza di ruvidità. «Vengo per condurti
meco al passeggio.» «Ne ho forse il tempo? Sai bene che gli esami sono
vicini, e non ho ore da sprecare andando a spasso; sai pure che col
professore Crisafulli non c'è da scherzare.» La signora Brusio, ch'era
entrata con Raimondo nello stanzino di suo figlio, e si era appoggiata,
con quell'atteggiamento ineffabile d'amore delle madri, alla spalliera
della sua seggiola, unì le sue istanze a quelle di Raimondo per indurre
suo figlio a prendere un po' d'aria. «Stassera c'è musica alla
<I>Marina</I>», disse Raimondo. «Va pure, figlio mio»;
disse la madre, «da quasi venti giorni tu non esci più, e ciò ti farà
ammalare invece di farti proseguire i tuoi studî. Prendi qualche ora di
riposo; ne hai bisogno.» Pietro amava sua madre d'immenso affetto. Pel
suo carattere impetuoso ed insofferente quella dolce voce di donna, quella
mano pallida e affilata che carezzava i suoi capelli, erano
irresistibili. «Giacché siete congiurati, e volete così!...», diss'egli
sorridendo, «aspettami cinque minuti, Raimondo; il tempo di
vestirmi.» E passò nella sua camera. «Fatelo divertire, signor
Angiolini»; disse al giovane medico la signora Brusio, «ha tanto bisogno
di distrazione il mio povero Pietro! È tanto tempo che non fa altro che
studiare!... e mi sembra che sia divenuto più pallido... Mi atterisce
l'idea che abbia ad ammalare!» «Non pensi a queste cose, signora»;
interruppe Raimondo; «Pietro è forte come un toro, e quest'eccesso di
lavoro non può durare che altri otto o dieci giorni. Terminati gli esami
abbiamo stabilito di andare a passare una settimana alla
campagna.» «Grazie, grazie, Raimondo!», disse la madre, stringendo la
mano del giovane, «voi siete il degno amico del mio Pietro... Ve lo
raccomando!... Siamo tre donne che non abbiamo più che lui...» Vestito
che fu Pietro i due amici andarono alla <I>Marina</I>. I
viali erano affollatissimi; la musica eseguiva le più appassionate melodie
di Bellini e di Verdi; un bel lume di luna si mischiava alle vivide
fiammelle dei lampioncini, sospesi in festoni agli alberi, che
illuminavano i viali. Era una di quelle sere incantate che si passano su
queste spiaggie del Mediterraneo, in cui lo specchio terso ed immenso del
mare, che riflette tremolante il raggio dolce e pacato della luna, sembra
servire di cornice al quadro allegro, vivace, animato, che formicola colle
sue mille seduzioni sotto gli alberi. Pietro si sentì come allargare il
cuore e fu grato all'amico di quella piacevole sensazione; essi
passeggiavano per uno dei viali più appartati. «Non m'inganno!»,
esclamò Pietro tutt'a un tratto, come di soprassalto, stringendo vivamente
il braccio dell'amico contro il suo; «è lei!... là!... in mezzo a quei due
uomini!» In fondo al viale quasi deserto, perché troppo lontano dalla
musica, spiccava infatti, e per la solitudine del luogo, e per una certa
originalità elegante di abbigliamento e di andatura, la signora che aveva
recato tale impressione in Pietro Brusio. Vestiva un semplicissimo
abito di <I>tarlatane</I> a quadretti bianchi e bleu, tessuto
di una freschezza e leggerezza quasi vaporosa; uno scialle nero, fermato
sul petto da uno spillone d'oro; ed un cappellino grigio ornato
<I>cerise</I>. Nulla però varrebbe a riprodurre l'eleganza
suprema, la molle e quasi ingenua civetteria, con la quale ella rialzava
la veste sino a metà della sottoveste ricchissima e si appoggiava al
braccio di un uomo di quasi 30 anni, assai bruno, con volto ombrato da una
folta barba nera, che avrebbe fatto invidia ad un guastatore, e vestito
con ricercatezza alquanto leccata. Dall'altro lato era accompagnata da un
signore di mezza età, alto, quasi biondo, freddo, e che parlava con una
bella pronunzia toscana. I due giovani, passeggiando, s'incrociarono
con essi che venivano loro di contro. Questa volta uno sguardo della
signora, incerto, quasi negligente, si fissò indolentemente, ma a lungo
negli occhi ardenti di Pietro che la divoravano. Due o tre volte ancora
i due amici l'incontrarono di faccia; e ciascuna volta quello sguardo
limpido, chiaro, noncurante, si fissò sul giovane che la guardava a lungo;
e ciascuna volta il cuore di Pietro batteva stranamente in modo più forte;
e le sue guancie pallide e brune si facevano ancor più pallide; e il suo
occhio sfavillava più ardente; ed egli affrettavasi, trascinava quasi il
suo compagno per giungere a quest'attimo in cui quella silfide dovea
passargli dinanzi, in cui quella veste doveva sfiorarlo, in cui quegli
occhi dalla pupilla trasparente dovevano fissarsi sui suoi, sebbene come
non vedendolo. Una o due volte che Brusio non incontrò quello sguardo, fu
triste, e quasi dispettoso di se medesimo. Una volta, l'ultima, in cui gli
parve accorgersi che, lui oltrepassato di uno o due passi, ella, parlando
all'uomo a cui dava il braccio, verso di cui si piegava sorridendo con una
grazia affascinante, avesse rivolto a metà il viso verso di lui e che un
lampo partito da quegli occhi lo cercasse, egli fu ebbro... felice di una
sensazione nuova, strana, che non sapea definire, della quale avea quasi
paura, poiché non poteva giustificarla. Ritornando per lo stesso viale
la cercò invano cogli occhi da lungi... Giunse in capo al viale: era
deserto... La cercò per tutta la <I>Marina</I>, come se in
quella folla elegante ed animatissima avesse dovuto discernere in mezzo a
mille <I>colei</I> al solo riflesso azzurrognolo dei ricci che
ombreggiavano la sua fronte fin quasi sulle sopracciglia, al solo
movimento della sua piccola testa che sembrava inchinarsi come un giunco
sul collo sottile e ben modellato; era partita... Che voleva egli? Che
cercava da quella donna, di cui il lusso, il corteggio, l'adulazione era
l'atmosfera in cui viveva; che gli uomini più ricchi, più eleganti, più
nobili si fermavano ad ammirare, senza che ella mostrasse avvedersene; che
tre o quattro volte l'avea guardato come si guarda un fanciullo, un
albero, un oggetto qualunque che s'incontri?... Nemmeno egli lo sapeva in
quel punto; egli avrebbe arrossito di confessarsi la premura che prendeva
per colei che dovea essere sempre un'estranea per lui. Cinque minuti
dopo riprese il braccio di Raimondo, dicendogli: «Andiamo
via!». «Così presto?» «Non ti annoi a morte qui stassera?... Non c'è
alcuno!» Raimondo guardò attorno, come trasognato, perché giammai la
<I>Marina</I> di Catania avea offerto una riunione più bella;
e domandò ingenuamente: «Sei pazzo?... Tu stesso un quarto d'ora fa mi
dicevi esser deliziosa questa serata... qui...». «Sarà vero anche ciò,
come è vero che ora mi annoio... e se vuoi rimanere ti dico addio.» E
gli stese la mano come per congedarsi. «Un momento... ecco! giunge in
quel viale a sinistra Maddalena. Guardala almeno una volta.» «Che
m'importa di Maddalena a me!... Guardala tu, se vuoi... Addio!» E dopo
quella brusca separazione partì di buon passo e si diresse verso la sua
abitazione per via Garibaldi. Però giunto alla crocevia della Vittoria
sembrò esitare un momento, e proseguì a camminare sin fuori Porta
Garibaldi. La notte era magnifica, Pietro sedette sul sedile di pietra
circolare che limita la gran piazza. «È strano», mormorò egli, «come
stasera non ho voglia né d'andare a casa, né di rimettermi alle mie
tesi!...» E rimase altri cinque minuti in silenzio, collo sguardo fosco
e fisso sui ciottoli del marciapiede. «Andiamo!», esclamò quindi
levandosi, e come facendosi forza, «devono essere le undici, e mia madre a
quest'ora mi attende.» Guardò il suo orologio e si diresse lentamente
verso la sua abitazione. La signora Brusio, coll'occhio della madre,
osservò che il suo Pietro, quella sera, era più pallido e distratto del
solito; e che, invece di rimettersi a studiare, si ritirò, appena giunto,
nella sua camera. L'indomani Raimondo, verso le undici, si disponeva ad
uscire, quando Pietro entrò da lui nella camera che occupava all'Albergo
di Francia. «Buon vento!», esclamò Raimondo sorpreso da quella visita
che non si aspettava più da un mese; «ci son novità stamattina?» «Quali
novità vuoi mai che ci sieno?» «Per bacco! ti credeva sui
<I>digesti</I> a quest'ora; ed eccoti già a correre per le
strade come uno sfaccendato.» «È che lo sono. Avrò sempre il tempo di
finire le mie tesi, ed ero una gran bestia a prenderla tanto sul
criminale; infine ne vengono approvati tanti più asini di me!...
Usciamo.» «Usciamo pure. Hai fatto colazione?» «Non ci penso; mi
sento in vena di passeggiare.» «Con il caldo che fa non è la miglior
cosa.» «Andiamo alla Villa.» «Sia per la Villa.» E i due amici
uscirono, tenendosi, al solito, a braccetto. «A proposito della Villa,
sai dove abita quella signora piemontese tanto distinta che abbiamo
incontrato qualche volta?» «No... dove?» «In quella bella casa sulla
stada Etnea: della quale i veroni si vedono dal
<I>Laberinto</I>.» «Dici davvero?!», esclamò Brusio
animandosi quasi suo malgrado, e fermandosi in mezzo alla
strada. «Verissimo.» «E tu l'hai veduta?» «Io
stesso.» «Proprio lei?...» «Proprio lei!... Ma che diavolo!... Ne
saresti innamorato?...» «Mi credi forse pazzo da legare?», rispose
Pietro con un sorriso che dissimulava appena la contrarietà che gli
arrecava quella domanda. «Perché poi?» «Perché amarla io, sarebbe
una disgrazia: amarmi ella, assurdo.» «Mi piace questa modestia da
venticinque soldi.» «È modestia che vale amor proprio»; rispose Pietro
piccato, «prendila come vuoi.» «Eppure, vediamo»: insisté Raimondo
attaccandosi al braccio del suo amico, «immaginiamoci che per un
capriccio, una fantasia, un <I>destino</I>, secondo te, questa
donna si innamori di te; immaginiamoci ch'ella te lo dica, come lo dicono
le donne quando vogliono, facendotelo comprendere, cioè, cogli occhi, col
gesto, coll'atteggiamento... Ebbene! allora saresti il Catone del
momento?...» «Impossibile!», esclamò il giovane tristamente, come se
avesse creduto un momento a quel sogno e si fosse poi accorto ch'esso era
troppo bello e insieme penoso per lui. «Perché?» «Perché colei è
vana, orgogliosa, come lo dimostra il fasto di cui si circonda. Soltanto
potrebbe impressionarla la bellezza, l'eleganza, la nobiltà, la ricchezza,
il lusso... cose tutte che non posseggo. Dunque o costei è maritata, e non
amerà giammai un Don Giovanni in ventiquattresimo che si chiama
semplicemente Pietro Brusio; o è mantenuta, e non possederò mai abbastanza
per pagare i suoi fiori per un anno; o è zitella, e non sposerebbe
certamente l'uomo oscuro, comune, che non ha tanto da farla vivere in quel
lusso nel quale vive, e che le è necessario, indispensabile per essere
quella che è. In tutti questi casi io dovrei dunque essere vile per
amarla, o dovrei comprare il suo amore a prezzo di qualche
infamia.» «Ben pensato e ben ragionato! ciò che, in parentesi, ti
avviene assai di rado. Vogliamo far colazione al Caffè di Parigi?» «No;
andiamo al <I>Laberinto</I>.» Raimondo guardò il suo amico
di uno sguardo scrutatore e quasi beffardo. «Ti fo riflettere che non
ho ancor fatto colazione; abbi dunque la bontà di concedermi dieci
minuti.» I due amici entrarono dai Fratelli Guerrera. Mezz'ora dopo
erano alla Villa. Faceva molto caldo. Il <I>Laberinto</I>
era delizioso colle sue ombre profumate di fior d'arancio. I due sedettero
all'ombra, e quasi contemporaneamente alzarono gli occhi sui veroni della
casa, sebbene alquanto distante, che Raimondo avea indicato come
l'abitazione della <I>Piemontese</I>. Le tende di giunco
erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse
ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro
una di quelle si vedeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi
coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso
abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro batté forte,
come la sera innanzi. «È dessa!», disse Raimondo, «vedi che non
t'ingannavo!...» Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul
verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella
positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col
quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di
quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e
sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali
cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola
assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le
mani, e che ella udiva sbadatamente; e s'interrompeva di tratto in tratto
per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa
languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore, e
col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo,
quand'egli si recava alle labbra la sua mano. Allora solamente la sua
leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva
lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto
infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera,
e sopra vi appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo
debole per sostenere quella piccola testa. «Con questa donna ci sarebbe
da impazzire!», esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata
a lungo dello sguardo. «Credi che sieno marito e moglie?», domandò
l'altro. «È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle
sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto,
che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo
sono, è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo,
come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano.» Parecchie
volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il
banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. «Ti guarda!», disse
Raimondo sorridendo. «O guarda i passeri che saltellano fra le fronde.
Credi sul serio ch'io ne sia innamorato?» «Ne parli
tanto!...» «Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e
sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io
l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore...
come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il
velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della
veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le
due meno dieci minuti», aggiunse dopo aver consultato l'orologio. «Sì,
è troppo tardi; siamo qui da più di due ore», rispose il biondo
alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico, che ancora restava
fissato sul verone. «Vuoi venire, o no?» «Un momento... restiamo
altri dieci minuti e partiremo alle due precise...» «Non amo gli
inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai
detto d'andarcene...» «Hai ragione»; rispose Brusio ridendo,
«partiamo.» Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a
guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda
abbassata. «Bella donna!», ripeteva egli di tempo in tempo, con un
entusiasmo ch'era troppo allegro per non essere affettato, e troppo
affettato per non nascondere una preoccupazione: <I>«quanto io
t'amo!».</I>
<B>III</B>
Il dopopranzo, e l'indomani, e tutti i giorni in seguito, la Villa
divenne la passeggiata preferita di Pietro, che vi conduceva il suo amico,
il quale protestava sempre e finiva sempre col cedere. Allo stesso
verone, quasi ogni volta nella stessa positura e vestita di bianco, essi
vedevano la <I>Piemontese</I>, come l'aveva sopranominata
Raimondo, che vi restava da mezzogiorno spesso sino alle 3 e dalle 7 alle
8. Una sera l'incontrarono che andava al Caffè di Sicilia, accompagnata
dal signore biondo. «Se andassimo al caffè?...», disse Pietro, come per
esservi incoraggiato dal suo amico. Dalla soglia la videro seduta ad un
tavolino, al fianco del suo compagno, mentre due ufficiali dei
Cavalleggieri Alessandria le prodigavano tutte le delicate attenzioni di
chi vuol fare la corte ad una signora. Ella sembrava appena badarvi; ma
rispondeva qualche volta col suo solito sorriso grazioso, che mostrava i
suoi bellissimi denti di perle. Il giovane dalla barba nera, che Pietro
avea veduto una volta con lei alla <I>Marina</I>, veniva
dall'altra sala del caffè, e fermandosi dinanzi al tavolino dov'era ella
si levò il cappello, aspettando d'esser salutato. Siccome nessuno gli
badava, egli girò con tutta flemma sui talloni ed uscì. Pietro prese il
braccio del suo amico, e lo trascinò via, mormorando: «È meglio che non
entriamo!...». «Dove andiamo?», domandò qualche minuto dopo, come se
cercasse una distrazione. «Dove ti piace. A proposito... potremmo
approffittare dell'invito dei signori A***, che abbiamo per
stassera.» «Vi si balla?» «Sì.» «Andiamo, in tal caso!
M'immaginerò di ballare colla mia bella Piemontese»; aggiunse Brusio,
forzando le labbra ad un sorriso. Essi furono accolti con festa
dall'allegra brigata che era radunata nel salone. Pietro sedette al
pianoforte e suonò un valtzer, che otto o dieci coppie ballarono. «Vi
lasciaste molto aspettare, signorini!», disse in tuono di scherzevole
rimprovero una graziosa giovanetta, figlia del padrone di casa e maritata
ad un cugino di Raimondo, appena Pietro andò a raggiungere sul divano il
suo amico, ch'era seduto vicino alla signora. «È che Pietro, qui
presente, è innamorato cotto; e abbiamo fatto la ronda alla bella»; disse
Angiolini ridendo. «Davvero!... Non mi sorprende in lei, signorino,
questa novità [Si sa che bel modello!...] E chi sarebbe questa
sventurata?...» «Parola d'onore, signora, che lo sventurato son io,
almeno sta volta»; rispose Pietro. «Lei?!... È da ridere!... E di chi
sarebbe innamorato, s'è lecito?» «Molto lecito, al contrario! Giacché
non ho il bene di conoscerne neanche il nome...» «Ed ella conosce lei,
almeno?» «No.» La signora diede in uno scoppio di risa. «E l'ama,
a quanto dice?» «Come un pazzo!» «Dove l'incontra?» «Qualche
volta al passeggio, o alla <I>Marina</I>... E poi so dove
trovarla...» «Dove?» «A casa sua...» «Dunque va in casa?» «No;
dal verone.» «Ah! è amore da verone!», esclamò la giovane ridendo
sempre più come una folle; «e dove abita questa meraviglia?» «Al
<I>Rinazzo</I>, vicino il
<I>Laberinto</I>.» «Nella casa
***?» «Precisamente.» «Una giovane alta, sottile, molto elegante...
non tanto bella in verità?» «Può essere... ciò è relativo...» «È
forestiera?» «Forestiera. Credo sia piemontese.» «La
conosco.» «Sul serio?» «So il suo nome, almeno potrò insegnarglielo
e non farle fare più la figura dell'<I>amante della
luna</I>.» «Come si chiama?» «Si chiama Narcisa
Valderi.» «Narcisa!... bel nome; si direbbe averlo ricevuto a
vent'anni! E la conosce molto?» «Cioè... non molto. Sono stata in sua
casa due o tre volte.» «Mi parli di lei... a lungo!...» «Ella finge
di scherzare, signorino, ma ha lo sguardo troppo acceso per dissimulare
che quello che dice lo sente davvero.» «Sì, è vero!... Ma se le giuro
che l'adoro, colei!...» «L'ha veduta da vicino?», domandò in tuono
quasi derisorio la giovane. «Sì.» «È tutta toletta!...» «Io amo
appunto in lei questa toletta, questo lusso, questo apparato brillante e
vaporoso in cui la farfalla mi fa dimenticare il bruco.» «Via, via...
vedo bene che scherza...» «Dica dunque...» «Ella si alza alle dieci
o alle dieci e mezzo; prende un bagno di cui i profumi costano ciascun
giorno otto o nove lire; e poi si mette allo specchio, ove impiega da
un'ora e mezzo a due ore per l'abbigliamento della mattina, da due a tre
per quello della sera, e da tre a tre e mezzo e spesso sino a quattro per
la toletta da ballo o da teatro... È sorprendente... miracoloso, come una
donna possa star tanto ad appuntarsi gli spilli!...» «Ammirabile!...
Avanti.» «Dopo la toletta viene la colazione: ella ha l'affettazione di
mangiare pochissimo, ma i suoi cibi costano un occhio del capo, in
compenso; indi si mette al pianoforte, o al verone, sdraiata su di una
poltroncina, e vi resta, spesso dormendo, sino all'ora di pranzo. Suo
marito...» «Un uomo di quasi 38 anni, alto e biondo?» «Sì, il conte
di Prato; lo conosce?» «Me l'immagino.» «Suo marito l'ama alla
follia; passa i giorni al suo fianco, scherzando coi suoi capelli, e
guardandola coll'occhialetto faccia a faccia.» «Ed ella?...» «Ella
gli sorride... e chiude gli occhi come se temesse di fargli perdere la
testa seguitando a guardarlo com'ella fa.» «In fede mia!... credo che
n'abbia ben ragione!...» «Questi dettagli li ho risaputi da una mia
amica che abita dirimpetto alla casa della contessa...» «<I>En
place pour la quadrille!</I>», fu gridato. Pietro si alzò e prese
il cappello. «Se ne va, così presto!» «Sì; devo andare a finire le
tesi...» «O a passare una mezz'ora sotto le finestre della
bella?...» «Sarebbe agire da stolido, almeno, dopo quanto ella mi ha
detto.» Ed il giovane sorrise del suo sorriso che si sforzava di
rendere allegro mentre era amaro. Per andare a casa sua prese la strada
che a lui parve la più corta, passando cioè dal
<I>Rinazzo</I>. Nella casa della contessa non c'era lume.
Pietro si fermò a guardare in silenzio quei veroni oscuri, poscia chinò la
testa sul petto con un sospiro, mormorando: «Stassera al teatro si dà un
dramma molto in voga... È al teatro certamente... ella...». Indi, come
vergognandosi di questo monologo, scrollò le spalle con dispetto ed
affrettò il passo. «Andiamo a teatro stassera?», disse a Raimondo
l'indomani appena furono assieme. «Andiamoci, se così ti piace. E le
tesi?» «Dormiranno anche stassera. Avrò sempre il tempo di
finirle.» Alla piazza della Cattedrale incontrarono un amico che si
fermò a discorrere con loro. «Andrete a teatro stassera?», domandò
egli. «Perché questa domanda?» «Perché si darà una bellissima
commedia nuova e ci verrà tutta Catania.» «Ci sarò allora... poiché in
tal caso verrà anche la mia bella»; disse Pietro scherzando. «Ah!...
Ah!... la tua bella di numero... Non so più a qual numero sii... buona
lana!» «Sul serio; sono innamorato come uno stolido.» «E di
chi?» «Di una signora ch'è una maga... involta fra i merletti e i
velluti..., della quale so il nome da ieri soltanto.» «La contessa di
Prato?» «La conosci?» «Per bacco! Al ritratto che ne fai... non c'è
altra qui che possa appropriarselo.» «È veritiero però questo
ritratto?» «Perdio!... E tu l'ami, costei?!...» «Non so quello che
farei per una parola di quella donna...» «Non ci sarebbe bisogno di far
tante cose; basterebbe farti amico con suo marito... ed anche col suo
amante; ed uno di questi due ti presenterebbe... il resto verrebbe da
sé.» «Amante!», esclamò Pietro impallidendo suo malgrado mentre cercava
di sorridere; «ah! c'è dunque un amante?». «Pel momento però...
bada!... A Napoli sembra che sieno stati più d'uno; ciò che diede luogo a
molti scandali, che finirono con un duello in cui il marito ruppe, con una
sciabola, il braccio ad uno dei più indiscreti.» «E ciò non è
bastato?» «Ella fa quello che vuole di quest'uomo che comanda col gesto
del suo dito mignolo; e che ha il coraggio di andare a battersi in duello
mentre non osa fare la minima rimostranza alla moglie. È la storia di
molti mariti.» «E quel giovane bruno, dalla barba nera, che
l'accompagna spesso?...» «È l'amante di cui ti parlavo.» «Che
peccato!», esclamò Pietro fatto pensieroso. «Fatti presentare», insisté
Antonino. «Io!...», esclamò, con un accento indefinibile di stupore,
Pietro. «Sì; tu sarai il secondo dei suoi adoratori presenti, senza
calcolare gli assenti... Perdio! perché ti fai triste?... ne saresti
innamorato sul serio?...» «Sei tanto ingenuo da crederlo?» «Fatti
presentare allora.» «Sarebbe inutile.» «Chi lo sa!» «La mia
condizione mi proibisce di averla a prezzo di una viltà, e non ho danari
bastanti per mettermi nel numero di questi signori che le fanno la
corte... Del resto sento che non son fatto sul loro stampo... poiché non
saprei amarla in comune, com'essi fanno...» «Dimenticala
dunque.» «Non ci ho mai pensato che come uno scherzo.» «A rivederci
stassera.» «Addio.» Alle nove e mezzo i due inseparabili amici erano
alla porta del teatro, in mezzo alla folla dei giovanotti che fumando
stavano ad osservare le signore che scendevano dalle carrozze. La
recita era cominciata da cinque minuti. I giovanotti erano entrati a
prender posto. Raimondo strepitava, tentando di trascinare l'amico, poiché
protestava di non voler perdere la prima scena. L'ultima carrozza avea
deposto l'ultima signora sul marciapiede, e Brusio non si muoveva
ancora. Raimondo finalmente perdé la pazienza e lo lasciò solo per
entrare in platea. Poco dopo le dieci si udì il rumore di una carrozza
che si avvicinava; ed il solo orecchio di Pietro poté distinguere che il
passo dei cavalli non avea l'uniforme regolarità di quello dei cavalli
signorili. «Una carrozza da nolo... è la sua!», mormorò egli
appoggiandosi alla porta. La carrozza si fermò infatti alla prima
porta, ov'egli si trovava, ed un uomo, nel quale Pietro riconobbe il
conte, saltò il primo a terra, per dare la mano alla signora che
accompagnava. Brusio istintivamente fece un passo in avanti. La
contessa appoggiò appena alla mano del signor di Prato la sua mano da
ragazzina coperta dal guanto bianco; mise lentamente il piede, che
sembrava appena accennato nel suo stivalettino di raso, sul predellino, e
saltò sul marciapiede. Con una perfezione di grazia assai distinta, ella
tirò con sé il lungo strascico della sua veste di seta
<I>granadine</I>, per impedire che, rialzandosi nello
scendere, scoprisse più del basso della sua gamba sottile e ben modellata.
Soltanto, non potendo, nel tempo istesso, raccorre il
<I>bóurnous</I> che le copriva le spalle, questo, nel momento
in cui curvava fuori dello sportello la sua testolina ornata di fiori, le
scivolò per le spalle e per gli omeri nudi di un'abbagliante
bianchezza. Quell'uomo che, solo e fermo sull'ingresso, dimostrava
chiaramente di attendere qualcheduno, mentre tutti erano dentro il teatro,
le recò forse sopresa, poiché, passando dinanzi a lui, mentre raccoglieva
le pieghe della sua veste perché non lo sfiorassero, ella alzò un momento
gli occhi su di lui. Indi, come infastidita da quello sguardo
scintillante che s'incrociava col suo e che sembrava assorbirne tutto il
fluido, ella si volse un istante verso il conte, che dava alcuni ordini al
cocchiere, prima di salire le scale del corridoio. Vi fu un momento,
quando un lembo del leggerissimo tessuto di quella veste strisciò sui suoi
abiti, che le gambe di Pietro tremarono. Pochi minuti dopo egli si
diresse lentamente verso la platea. Entrando, il riflesso dei cristalli di
un occhialetto fisso sulla porta colpì i suoi sguardi. Alzò gli occhi su
quel palchetto della prima fila da dove partiva quel raggio, e vide la
contessa che abbassava lentamente l'occhialetto, appoggiandolo, col
braccio disteso, sul velluto del parapetto, mentre lo fissava ancora ad
occhio nudo, quasi con curiosità: aveva voluto conoscere certamente, per
una bizzarrìa da donna elegante, quest'uomo che aspettava sull'ingresso,
tre quarti d'ora dopo alzata la tela. Pietro cercò il suo posto e
sedette quasi dirimpetto alla loggia della contessa. La commedia fu
applauditissima; ma Pietro non applaudì giammai, poiché soltanto alcuni
squarci attrassero la sua attenzione; e in quegli squarci, quando il suo
cuore provava potentemente quello che aveva sentito l'autore, egli
rivolgevasi, senza accorgersene anche, verso il palchetto di Narcisa, e
cercava negli occhi di lei l'eco di quello che egli provava nel suo
cuore. La contessa voltava le spalle alla scena; e solo di tratto in
tratto, in quei momenti che avevano il potere di strappare Pietro alle sue
frequenti preoccupazioni, ella volgeva i suoi limpidi occhi verso gli
attori. Del resto ella discorreva qualche volta con i numerosi visitatori
che occupavano successivamente le seggiole del suo palchetto; e pochissime
volte si servì dell'occhialetto per esaminare le tolette delle signore.
Giammai però l'abbassò verso la platea. Nel suo sguardo, nel suo gesto,
nella sua attitudine, fin nel modo in cui parlava e sorrideva qualche
volta con quei signori che le tenevano compagnia, c'era un'indefinibile
espressione di stanchezza e di noia, che si traduceva in sfumature molli,
in pose voluttuosamente accidiose. L'occhialetto di Pietro stava quasi
sempre fissato su quella loggia. Due o tre volte, ella, sorpresa di quella
molesta assiduità, volse gli occhi verso quel binocolo che aveva
l'indiscretezza di guardarla sì a lungo dalla platea. Una volta infine
alzò lentamente il suo, e bruscamente, senza quelle transazioni che sono
assai comuni in teatro per mascherare il vero scopo, ella lo fissò di
contro a quello del giovane che si abbassò subito. Ella rimase alcuni
secondi in quella positura; indi lasciò quasi cadere sul parapetto il
binocolo, e fece un leggiero movimento di spalle d'impazienza. Prima
che terminasse la recita Brusio lasciò il suo posto e si recò sul
corridoio. Il suo occhio era acceso e brillante; le sue gote,
abitualmente pallide, si coloravano di un rossigno febbrile. Pochi
minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la
porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano,
mischiandosi al fruscio di una veste. La contessa gli passò dinanzi,
questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati
nel suo palchetto. Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della
sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza
che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo
con occhio assai cupo e sospettoso. Il giovane scese le scale quasi
insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la
mano agli altri, e partire. Egli rimase immobile sul limitare. «Non
vai a casa?», gli disse alle spalle la voce di Raimondo. «Sì... ti
aspettavo per dirti addio...» «A domani, non è vero?» «Non lo so...
Avrò forse da studiare tutto il giorno...» E s'incamminò lentamente per
la <I>Marina</I>. A due ore del mattino Raimondo si
disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia
alla sua porta. «Chi può esser a quest'ora?», disse fra sé il giovane
sorpreso andando ad aprire. «Son io, Raimondo... son io! Aprite, di
grazia!», udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la
porta. «Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa!», esclamò il
giovane introducendo la madre del suo amico nella sua
camera. «Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor Angiolini?»,
disse la povera madre colle lagrime agli occhi. «Pietro non è in
casa?», domandò Raimondo vieppiù sorpreso. «Son due ore del mattino e
mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo
al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che
sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano
stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta
qualche disgrazia!... Dove lo lasciaste voi?...» «Ci separammo
all'ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non
so nulla di risse...» «Dio!... Dio mio!...», singhiozzò la madre
torcendosi le braccia, «come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, signor
Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!...
Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere
informazioni...» «Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al
più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi
qui.» Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed
uscì. Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre
la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza
del figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli
si diresse per la strada Stesicorea ed indi per quella Etnea, verso la
casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul
marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile
sul lastrico. Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a bassa
voce. «Che vuoi?», rispose una voce rauca e ancora tremante, come se
inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere,
nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stato meno
famigliare. Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo
scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le
mani. «Tu qui!... a quest'ora!», esclamò Raimondo. «Che vuoi, ti
dico?!», replicò con maggiore asprezza Pietro. «Non son forse più padrone
di fare quello che mi piace?!...» Raimondo capì che quello non era il
momento di parlare al suo amico; e sospirando tristemente, poiché allora
soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si
cullava, sedette silenzioso al suo fianco. Pietro rimase muto, come non
avvedendosene, cogli occhi di una sorprendente lucidità, fissi sul lume
che brillava dietro le tende di seta del verone. Qualche volta, a
lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che
partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un
tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo! «Guarda!...
guarda anche tu!», diss'egli con la voce stridente ed interrotta del
delirante o del pazzo. E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino
al verone per meglio osservare. «Io non vedo niente», mormorò Raimondo
che si fregava gli occhi inutilmente. Pietro, senza rispondergli, gli
porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del
<I>soprabito</I>. «Guarda, ti dico!... c'è da diventar
pazzo!» Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso
le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata, nella
sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora
colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un
uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava
verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli
sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorché il conte
rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di
voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e
bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso
volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma
lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse
voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai
suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo,
quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi
di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente
nell'astuccio l'occhialetto, disse col tuono di chi prende una
risoluzione: «Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a
casa mia!». «Mia madre!...», esclamò il giovane con un sussulto che
dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore,
mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. «Sì, tua madre,
spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una
pazza.» «È tanto tardi dunque?», domandò egli come parlando in
sogno. «Son le tre fra poco.» «Non credevo fosse sì tardi... Hai
ragione, andiamo via... bisogna essere uomini!» Poscia si fermò in
mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel
punto. «Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli!», replicò
Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e trascinandolo in
qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino
come un ragazzo.
<B>IV</B>
Quando entrarono nell'Albergo di Francia, dove li aspettava la signora
Brusio, questa corse ad abbracciare suo figlio con tutta l'effusione di un
cuore di madre; ma rimase senza osarlo, colle braccia aperte, dinanzi allo
sguardo fosco e alla fisonomia cupa ed irritata del figlio
suo. «Credevo», disse questi aspramente, «di non essere più all'età di
uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto tardi nel ritornare da
scuola...» La madre fu dolorosamente colpita da quelle parole, le sole
che avesse udite in tal modo da quel figlio che l'idolatrava. L'istinto
materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che in un'ora avea
potuto dimenticare siffattamente il culto che nutriva della madre, e
risponderle in tal guisa. «Andiamo, figlio mio, le tue sorelle ci
aspettano...», diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo; «grazie,
signor Angiolini!...» S'incamminarono verso casa; e la madre osservò
sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e camminava cupo,
ed anche indispettito al suo fianco. Sulla scala corsero ad incontrarli
le due sorelline ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano: «Mamma!
mamma!... L'hai trovato?... È qui il nostro Pietro?!...». Le loro
festanti esclamazioni furono interrotte dalla voce dura del
fratello. «Per l'avvenire», esclamò questi, cercando di dare la
possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione, «spero che le
mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro... che mi
costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui ho
bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della porta,
onde non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola
finita!...» E senza neanche prendere il lume, si chiuse nella sua
camera, sbattendone l'uscio con impeto. «Povero figlio mio!»,
singhiozzò la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: «ecco
le prime lagrime che mi fai versare!». Pietro passeggiò per la camera
alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone. La calma
serena di quella notte d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava
il sudore sulla fronte lo calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di
sua madre ed odiò se stesso come giammai aveva odiato. «Son vile!...
sì, son vile!...», esclamò strappandosi i capelli. «Oh! la testa... Dio
mio!...» Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e camminando
leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della camera di sua
madre, onde vedere se dormiva. La signora Brusio era ancora in piedi
quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più
lieve rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del
cuore di lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno,
che suo figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto
materno le suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare
nel suo pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e
finse di dormire. Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro
alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non
poté frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance: lagrime
di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire (che
allora soltanto intravedeva) per ciò che provava. «Povera madre!»,
esclamò singhiozzando; «povera madre mia!». E la madre udì quei
singhiozzi, e soffocò i suoi fra i guanciali. Pietro si ritirò in punta
di piedi, com'era venuto; e si rimise al verone. Colla fronte fra le
mani, ed i gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel
vortice luminoso e turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano,
e dove vedeva un'ombra, dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale
l'avea veduta poche ore innanzi... carezzantesi la fronte ed i capelli con
le mani di quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli
alzò gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea
scintillare i vetri. «Diggià!», mormorò egli: «il giorno vien presto al
presente!...». Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui,
osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato la
sera innanzi. «Madre mia!», le disse il giovane prendendole una mano,
in tuono di pentimento del passato ma risoluto ad ottenere quello che
domandava, «ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto ieri... Ma ti
prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà, che l'età mia
ora richiede...». «Fa come vuoi, figlio mio...», rispose la madre
abbracciandolo. «Io non temo che tu ne possa abusare, poiché sei figlio di
un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a
me...», e la povera donna sospirava tentando di sorridere, «in quanto a me
cercherò di vincere le mie sciocche paure...» «Grazie, grazie, buona
madre!...», esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime
quella mano che baciava. Però ogni sera quella madre, che numerava coi
battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava,
sino alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da
lungi, nel silenzio della strada, ch'era <I>lui</I> che
veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva
passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere
interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate,
cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e
sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni
mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non
s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera
malaticcia. Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni
al <I>Laberinto</I>, la sera seguendo la donna che gli aveva
ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio,
(dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e
snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero
giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse,
quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti
pieni di seduzione del corpo da fata) o al teatro dove la vedeva splendere
di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante
che recano la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare
la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti;
armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla
bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo;
spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda,
appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo
palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo più oscuro della loggia,
colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata
all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella
sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile
nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con
maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il
potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di
lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza;
aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da
sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i
rumori più insensibili del suo passo, del fruscio della sua veste, tutte
le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della
sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva,
come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo
levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata;
conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il
rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava
a sé. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che
l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo
febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste
gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune
volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata [dal
conte e] da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano, si era
rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato
con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio
osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza, Pietro osservava, qualche
volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva
dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover
trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un
mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto per
guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del
mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla
serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran
trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo
il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto.
Narcisa ne scese più lentamente del solito, e scomparve quasi subito
insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggero
di lei che saliva le scale, accompagnato dal passo più pesante dell'uomo
che la seguiva; udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco
dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano
accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento
molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il
cuore del povero giovane. «Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in
questa casa stassera!...» Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal
pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia,
che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale
d'<I>Ernani</I>, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa
capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: <I>Il
Bacio</I>, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine
estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi
imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava,
con una espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di
delirio festevole dalle note del valtzer e faceva piangere con quelle del
melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella
che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio
profondo di quella notte, profumata dal vicino
<I>Laberinto</I> e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto
anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si
avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne
rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla
testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora
nel suo più alto emisfero, la circondava quasi in un trasparente
vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. «Perdio!»,
disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro
riconobbe per quella del conte, «non mi leverò mai d'addosso
quest'accidente!» Brusio sentì che quelle parole erano al suo
indirizzo, e il sangue gli montò al viso. «Che dite?», rispose la
fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. «Parlo di
quell'importuno che sta a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia
un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi...» La
contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi
mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più
completa noncuranza, lasciando il verone: «E che ci ho da fare io se
quest'uomo e pazzo?...». Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si
piegassero sotto, sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte, coi
denti sbattenti di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto
atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui, e dal
sinistro splendore dei suoi occhi ardenti. Egli rimase un momento
immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di
un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che
si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli
altri. «Questa donna ha ragione!», mormorò egli quindi colla voce
rauca, stentando a proferire le parole: «io son pazzo!... son pazzo!...
Sono stato vile anche!...». E partì lentamente, quasi strascinandosi.
Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del
valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a
guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata
amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante
d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi
solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: «Addio,
signora!... Addio!». Camminò tentoni, barcollando com un ubbriaco, fino
a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di
marmo sotto gli alberi del <I>Rinazzo</I>. «Oh! questo
valtzer! questo valtzer!», gridò egli smaniante, come se quelle note gli
percuotessero sul cervello, «Dio!... mi pare di diventar matto davvero...
Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei,
questa donna?!!...» E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei
suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò
quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città;
spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere
a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava
gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo
di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo
volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che
mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si
articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido,
or come un singhiozzo, or come un'invocazione disperata: «Narcisa!...
Narcisa!...». E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli
si afferrava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin
quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue
passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì
gli occhi come un riverbero infuocato; quella vita che si risvegliava
nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli
sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli
parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al
suicidio perché odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì
la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre
addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto,
vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello:
era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta
fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano
resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato,
febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto,
dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva
la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo
gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla
respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e
straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa
dell'uscio, stette quasi un giorno intiero ascoltando con angosciosa
ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente,
verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella
ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile
passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e
fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato,
buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo
sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche
scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro
passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a
seconda delle istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue
idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle
imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori
della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in
lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino
alla sua famiglia, quella famiglia che avea formato il suo culto e per la
quale avrebbe dato altra volta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il
tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo; coll'occhio arido,
lucido, di una straordinaria fissità. Una febbre ardente faceva vibrare
con forza le sue pulsazioni; allorché sentì battere sì violentemente le
sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi
percossi sul cervello; allorché sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la
sua fronte; allorché, più che mai, intravide dei lucidi bagliori
attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava
una striscia infuocata fra la tempesta delle sue passioni, dubitò un
momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di
non esser più padrone di sé, della sua vita, nel momento che sentiva
averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di
quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare
questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che
erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati
che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che erano costati,
dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di
calma, per convincersi che non era pazzo... poiché egli avea paura
d'esserlo... poiché egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore
all'orologio della stanza contingua. «Vediamo!», mormorò egli
alzandosi, «a quest'ora dev'essere buio... Ho tutta la mia ragione
ancora!... Che vale disperarsi per colei?... quali diritti ne ho io? Siamo
uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno
che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non
voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la
testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla
fra il vino... le donne... l'orgia!...» Aprì le imposte, per vedere
s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se
lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e
appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che
udiva camminare nell'altra stanza.
<B>V</B>
Gli parve di respirare più liberamente quando l'aria aperta lo percosse
sul volto, rinfrescando il calore delle sue membra ardenti di febbre:
quella dolce sensazione gli parve fargli bene. Per la strada Vittoria
scese alla <I>Marina</I>. A misura che l'influenza di quella
bella sera s'insinuava nel suo organismo, egli sentiva però crescere e
giganteggiare un fantasma che voleva scacciare con tutte le forze
dell'essere suo... che l'atterriva. Sotto il Seminario, vicino
<I>Porta Marina</I>, in una bottega, udì i suoni di alcuni
strumenti da fiato e da corda che eseguivano una polka, e i passi
saltellanti e vigorosi di coloro che ballavano. «Costoro si divertono»;
diss'egli, «chi sa se anch'io vi potrei almeno dimenticare!...» Fece
alcuni passi per entrare nella bottega di tabacchi che precede l'ignobile
sala da ballo, ma non ebbe la forza di farlo. L'istinto, l'abitudine
piuttosto, del giovane bene educato non gli permise di mischiarsi senza
transazioni a quanto vi avea d'impuro e d'abietto in quella gentaglia,
operai d'infima classe, lustrastivali, borsaiuoli, barcaiuoli e femmine di
mala vita, che componevano la società di quel ballo. «Oh! stordirmi!
stordirmi!...», esclamò egli, con un accento quasi doloroso, fermo in
mezzo al viale ove avea incontrato Narcisa e questa l'avea guardato. E
partì di buon passo per la strada Stesicorea; ai Quattro Cantoni entrò
alla Villa di Sicilia. Era la capitolazione del giovane di buona
famiglia, che non osava ancora penetrare nella taverna per ubbriacarsi e
cercava la taverna elegante. Al garzone, che gli domandava cosa ordinasse,
rispose di non saperlo, di recare quel che voleva, come per esempio
un'insalata, purché l'accompagnasse di una bottiglia di marsala. Il
cameriere guardò sorpreso quel giovane che beveva una bottiglia di marsala
su di un'insalata. Pietro fu quasi atterrito, quando, riflessa
dirimpetto a lui, su di uno specchio, vide una sinistra figura da spettro,
col cappello ammaccato, i capelli incollati e cadenti sul volto di un
pallore che sembrava terreo, magro in modo da far luccicare
straordinariamente il bagliore che la febbre dava ai suoi occhi, i quali
sembravano più grandi; cogli abiti scomposti; egli stentò un pezzo a
riconoscere se stesso, e finalmente un riso amarissimo errò sulle sue
labbra violacee. Il cameriere gli recò quanto avea ordinato; egli
cominciò a bere il vino senza toccare l'insalata. Allorché sentì i polsi
battergli più forte, le gote animarsi, i vapori annebbiare la sua testa,
ancora vertiginosa, egli si alzò, dopo aver pagato lo scotto, ed
uscì. «Ora andiamo al ballo!», mormorò con triste sarcasmo; «forse
anch'<I>ella</I>, a quest'ora, è alla sua festa!...» E
scacciando un'ultima volta quest'immagine che, anche fra i fumi del vino,
anche nel momento che si stordiva per non vederla e che la fuggiva nello
stravizzo, trovava modo d'inchiodarglisi ferocemente nel cervello, egli
corse alla <I>Marina</I>; esitò ancora un istante prima di
mettere il piede su quella soglia, e finalmente entrò nella bottega che
precedeva lo stanzone ove si ballava. Fingendo di dover comprare sigari,
domandò a colui che stava al banco se l'entrata al ballo era libera per
tutti, pagando; colui lo squadrò dal capo alle piante, come sorpreso che
un giovane il quale indossava abiti piuttosto eleganti venisse a cercare
una tal festa; poi, alzando le spalle con ruvida indifferenza, gli rispose
con un cenno del capo affermativo. Brusio, pagati alla porta i pochi
centesimi che davano diritto all'entrata, passò nella sala da
ballo. Era, come abbiamo accennato, una stanza assai grande, illuminata
da lampade ad olio, con alcune panche disposte in giro alle pareti, su di
una delle quali sedevano un contrabbasso, un violino ed un flauto che
facevano saltare col movimento della polka una ventina di ballerini e
ballerine. La vista del giovane in cappello a cilindro fece impressione
certamente, poiché le danze furono sospese, e tutti si volsero a guardare
con curiosità il nuovo venuto; poco dopo incominciò a farsi udire un
mormorio di cattivo augurio contro quell'importuno che veniva a disturbare
il loro passatempo. «Egli viene a ridere di noi... il signorino!»,
esclamò una delle donne, che si appoggiava alla spalla di un uomo
atletico, vestito di velluto e di volto assai caratteristico. «Noi non
andiamo a mischiarci alle sue smorfiose... quando essi si divertono!...»,
gridò un'altra. «Non vogliamo seccatori qui! non vogliamo spie!», urlò
una terza voce. «Ora vado a prendere per le spalle questo piccino e te
lo metto fuori», disse l'uomo erculeo alla sua donna. E si avanzò, col
cipiglio arrogante, verso il Brusio, il quale ancora esitava ad
inoltrarsi. «Che vuoi tu?», gli disse colla voce dura dell'imperio che
esercitava sui suoi compagni quando gli fu faccia a faccia, covrendolo
quasi col suo largo petto e la sua alta statura. «Non ho da dirlo a te,
né a nessuno qui!», rispose il giovane, irritato, quantunque avvinazzato,
da quella brutale famigliarità, guardandolo fisso negli occhi. «Per
Cristo! non hai da dirlo a me?», rispose sghignazzando il colosso. «Ma sai
che qui sei in casa mia, e che se ti prendo fra l'indice ed il pollice ti
stritolo?!...» «S'è casa tua ci resto!», disse Pietro coll'ostinazione
dell'ubriachezza o del puntiglio giovanile; «in quanto a stritolarmi,
provati!» E incrocicchiò le braccia sul petto, stendendo un passo in
avanti e spostandosi solidamente sulle sue gambe snelle ma nervose, come
se aspettasse l'assalto. L'altro fece ancora un passo, minacciandolo
dello sguardo più che del gesto, con la bravata audace e cinica che dà la
coscienza della superiorità fisica in tali uomini; e mormorò, con voce che
cominciava ad essere rauca d'ira, accostandosi sin quasi a toccarlo col
petto: «Vattene!». «No!», rispose Pietro bruscamente. Il gigante
stese le braccia per afferrarlo; le braccia muscolose del giovane lo
ributtarono due o tre passi all'indietro con un vigore che il bravaccio
non avrebbe mai supposto in quel corpo magro e svelto; allora mise un urlo
di rabbia: l'urlo della iena che ha sentito pungersi mentre scherzava; e
afferrata una sedia la slogò di un sol colpo sul pavimento, tornando
quindi verso di Brusio con la sbarra pesante e ruvida fra le mani, che
brandiva sulla sua testa come una clava. Pietro, dal canto suo, fu lesto
ad impadronirsi del bastone di uno dei suonatori, che si erano salvati
dietro le panche, e a pararsi il colpo con quello. Allora cominciò un
combattimento accanito e feroce fra l'uomo atletico, che mugghiava come un
toro ferito per la rabbia che non poteva sfogare, rabbia accresciuta dalla
inopinata resistenza che incontrava e che gli toglieva il prestigio
d'invincibilità nell'opinione dei suoi compagni, ed il giovane alto,
sottile, pallidissimo, colle grosse labbra chiuse e sdegnose, l'occhio
scintillante, la fronte alquanto calva, altiera ed impassibile, su cui si
appiccicavano i capelli arruffati e si schiacciava il suo cappello a
cilindro. Per fortuna Pietro aveva studiato la scherma del bastone con
maggiore attenzione di quanta ne avesse messa ad ascoltare le lezioni del
canonico Russo; fu perciò col massimo piacere degli spettatori, comprese
le femmine, che questi assistettero a quel duello singolare fra i due
avversarii degni di starsi a fronte l'un l'altro; essi battevano le mani
ai bei colpi, e incoraggiavano con acclamazioni i combattenti. Brusio non
era più uno straniero per loro, un <I>signorino</I>, ora che
maneggiava sì bene il bastone. L'uomo vestito di velluto avea il
braccio e le reni solidi come bronzo, e molta abilità in questa maniera di
scherma, ciò che gli faceva menar colpi che calavano giù rombando
terribilmente; il giovane però, se non avea la forza muscolare del suo
avversario, lo vinceva nell'elasticità e sveltezza dei movimenti e nel
sangue freddo inalterabile, che in lui era uno strano effetto della
collera, con cui aggiustava i suoi colpi e parava quelli che gli venivano.
Tutt'a un tratto una legnata violenta di Brusio spezzò la spada colla
quale il bravaccio parava il colpo alla testa, e si vide quest'ultimo
stramazzare a terra colle braccia stese: avea il cranio
spaccato. Successe uno straordinario tafferuglio: alcuni gridavano
evviva, altri imprecavano e minacciavano Pietro più seriamente al certo di
quanto fosse stato minacciato sino allora, poiché nella mezza luce si
vedevano luccicare lame di coltelli affilati. «Silenzio, canaglia!», si
udì gridare una voce la quale avea tutte le gradazioni fra quella
dell'uomo e quella della donna, «questo giovanotto lo proteggo io! è dei
nostri!... Ha cuore e pugno... Egli vuol essere dei nostri, giacché è
venuto; non è vero?» «No! no! Sì! sì!», urlarono alcune voci
avvinazzate: «Non vogliamo <I>cappelli</I>! non vogliamo
<I>signorini</I>!...»; «Viva il <I>signorino</I>!
egli ha il pugno di ferro; egli ha vinto Nicola!». Nulla avrebbe potuto
sedare quello schiamazzo, e Pietro avrebbe corso fors'anche il più grave
pericolo, minacciato dalla vendetta degli amici del caduto, quantunque
difeso anche dal piccol numero dei suoi ammiratori; un altro
combattimento, in più grandi proporzioni, era almeno imminente, se non
fosse entrato in quel punto il padrone dello stabilimento; il quale,
impassibile sin'allora a quanto era avvenuto, dietro il suo banco della
prima camera, accorreva dimostrando nel gesto e nella fisonomia
l'importanza della notizia che recava: «I carabinieri!», diss'egli. «I
carabinieri!» fu gridato da ogni parte. E tosto amici e nemici si
fusero in un lodevole accordo a nascondere in uno stanzino il mal capitato
Nicola, cui, quantunque fosse rinvenuto e mandasse lamentevoli gemiti,
nessuno avea badato, a lavare il pavimento lordo di sangue, e a tirare i
suonatori da sotto le panche. «La <I>Fasola</I>! la
<I>Fasola</I>!», fu gridato da tutti. Venti braccia
soffocarono Pietro in un energico amplesso; e venti voci, anche di quelle
che avevano minacciata la sua vita un momento innanzi, gli susurrarono:
«Siamo amici, non è vero? Sei dei nostri!... Vuoi essere dei
nostri?». «Sì, son dei vostri!... amici! tutti amici!», rispose Pietro,
urlando tanto forte da cercare di soffocare le stesse parole che
proferiva; stendendo le mani alle venti mani nere e callose che gli
venivano stese, onde stordire tutto quello che sentiva d'ignobile, di
ributtante, di vile in quell'accozzaglia alla quale veniva a domandare le
sue distrazioni; ballando anche lui quella ridda infernale sul sangue
versato da poco e ancora tiepido... Egli, a misura che le acri esalazioni
di quei cenci e di quei corpi, e l'esaltazione avvinazzata di quel
tripudio cominciarono ad offuscargli il cervello, come il marsala non
aveva potuto fare; egli, che aveva avuto ribrezzo a toccare la mano di
quella femmina, spudorata corifea della festa, ch'era stata la donna di
Nicola, cominciò a saltare più furiosamente degli altri, e stringersi più
ebbro quell'abbietta creatura fra le braccia. Due ore dopo mezzanotte
egli usciva stordito, briaco da quell'orgia; ancora sbalordito dal baccano
che avea fatto il suo cuore; mormorando come per illudersi anche in quel
momento: «Oh! la vita!... Questa è la vita!... Donne e vino!... Viva
l'allegria!». Da quel giorno, o piuttosto da quella notte, Pietro
Brusio cominciò una vita indegna ed abbietta, di cui egli cercava occupare
tutti gli istanti con gli eccessi più sfrenati, per non darsi il tempo
neanche di vedere dov'era caduto. Egli faceva sforzi sovrumani per
annegare nel frastuono, nell'ubbriachezza, quanto sentiva ancora di
elevato e di nobile nel suo cuore, che gli rimproverava come un rimorso la
vita che menava, e gli faceva pensare spesso, malgrado la sua disperata
volontà, malgrado gli eccessi a cui ricorreva, a quella donna fatale di
cui malediva la memoria. Spesso fra le orgie più impure,
nell'ubbriachezza più profonda, egli rimaneva in disparte, muto, pallido,
coll'occhio fisso e pensieroso. Spesso, al contrario, stringendosi una di
quelle femmine da trivio fra le braccia egli mormorava un nome cogli occhi
umidi di lagrime: ciò che rendeva dapprincipio attoniti, e faceva ridere
dappoi i suoi compagni di stravizzo. Egli logorava la giovinezza del
suo cuore e del suo corpo in questa vita febbrile, divorante, che s'era
imposta; fuggiva lo sguardo della madre e delle sorelle come se avesse
temuto di contaminarle col suo, come se avesse temuto che la muta
eloquenza dell'occhio umido della madre gli facesse sentire tutta
l'infamia dell'abbiettezza in cui affogava le sue memorie e il suo amore,
che provava ancora rigoglioso e potente. Fuggiva gli amici di una volta,
che forse avrebbero potuto rimproverarlo col loro freddo contegno;
[fuggiva sin anche] Raimondo, cui non si sentiva bastante coraggio di
avvicinare. Siamo al Giovedì Grasso. Brusio ha passato più di quattro
mesi di questa vita; è divenuto il corifeo di questa canaglia composta di
femmine da trivio e di uomini perduti; e in quella sera, tutti mascherati
in modo poveramente e orribilmente grottesco, vanno al Teatro a farvi
pompa del cinismo del vizio, della brutalità della violenza, della
petulanza della miseria colpevole; occupando la galleria, ove mangiano,
bevono, contendono ed urlano anche nel tempo della rappresentazione,
malgrado la presenza delle numerose Guardie di Pubblica Sicurezza e dei
Reali Carabinieri. Dopo la recita aspettano l'apertura del ballo
mascherato per lanciarsi, coi loro costumi sudici, in mezzo alla platea,
per mischiarsi a quella società elegante che non sentonsi in diritto
d'avvicinare coi loro cenci, e per farlo ne cercano il coraggio
nell'ebbrezza, nell'esaltazione e negli eccessi. Brusio, in prima fila
fra di essi, sul proscenio, indossando un travestimento tutto suo,
composto di cappuccio, casacca e pantaloni di pelle di montone (vestito
che egli avea denominato da orso), si occupava metodicamente a dar fiato
ad un enorme corno ad ogni scena nuova; e le rimostranze delle guardie di
Questura erano soffocate dagli urli, dai suoni di trombe e di campane e
dai fischi della mascherata numerosa che gli faceva codazzo. Poco prima
di mezzanotte fu aperto il ballo. Quella folla ululante irruppe come un
torrente limaccioso nella sala. I palchetti erano gremiti di
elegantissime dame e di signori mascherati con lusso. Poco dopo si aprì
l'uscio di un palchetto di seconda fila ed entrò la contessa di Prato,
mascherata da baccante, accompagnata dal marito e da un bel giovanotto
biondo, sottotenente negli Usseri di Piacenza, che le tolse dalle spalle
la mantelletta <I>Fatma</I> di peluscio. Giammai la signora
aveva brillato di tutta la pompa affascinante delle sue seduzioni
irresistibili, come quando si avanzò sul parapetto della loggia colle
braccia, le spalle ed il petto nudi nel suo abito diafano di velo, col suo
sorriso sulle labbra, con quel piccolo grappolo d'uva e quell'unica foglia
verde a metà nascosti tra i riflessi cenerognoli de' suoi capelli neri,
che vi si inanellavano attorno alla fronte e le cadevano mollemente sul
collo. Pietro non alzò nemmeno gli occhi verso i palchetti. Non osava
di farlo, di dissipare forse collo spettacolo di quella profusione di
eleganze e di bellezze che ornavano le loggie, il denso vapore avvinazzato
e fangoso in cui si avvolgeva; non osava d'incontrare un viso ch'egli non
voleva vedere per non avere a dubitare un'altra volta della sua
ragione. L'orchestra suonava un valtzer; la folla avea incominciato a
ballarlo gesticolando e gridando. Tutt'a un tratto fu veduta una figura
umana, imbacuccata in pelli nere che la facevano mostruosa, montare di un
salto sul palcoscenico, e gridare colla sua voce più forte, stendendo il
braccio con un gesto imperioso verso l'orchestra: «Abbasso il valtzer!
Non vogliamo valtzer! Non vogliamo balli aristocratici... Vogliamo la
<I>Fasola</I>!...». Quella voce che comandava, quel gesto
che imponeva fecero fermare i ballerini che danzavano e i professori che
suonavano; e cominciò un immenso frastuono. Dai palchi partirono alcuni
fischi acutissimi, tratti certamente con l'aiuto delle chiavi. Allora
quell'uomo, quel mostro, alzò la testa orribile a vedersi col suo pallore
cadaverico sui suoi lineamenti dimagriti, collo scintillare dei suoi occhi
infuocati fra i peli che gli cadevano dal cappuccio sulla fronte; e quello
sguardo che fissò su quei cavalieri giovani, ricchi, eleganti; su quelle
mani in guanti bianchi che si sporgevano fuori dei palchi ad imporgli
silenzio; su quelle signore belle, profumate, splendenti di gemme; su
quella folla dorata che faceva il più vivo contrasto con quella brutta,
cinica, briaca, cenciosa, che l'accompagnava, quello sguardo fu d'odio
immenso, indicibile, e anche di feroce vendetta. «Abbasso gli
aristocratici!», gridò egli, Pietro, il giovane aristocratico per istinto;
«abbasso i guanti bianchi! Vogliamo la <I>Fasola</I>! Suonate
la <I>Fasola</I>!» A quelle parole successe un immenso
schiamazzo di urli che applaudivano alle sue parole e chiamavano la
<I>Fasola</I>, questa danza popolare. I carabinieri,
quantunque avessero spiegato la massima energia nel cercare di calmare
l'effervescenza, erano in troppo piccol numero per imporsi a quella folla
resa audace dalla sua istessa insolenza; finalmente si fece venire il
picchetto di Guardia Nazionale ch'era alla porta. In questa una
fischiata solenne e generale, partita dai palchi, sembrò sfidare la
collera di quella gentaglia irritata: le mani inguantate di bianco non
volevano lasciarsi sopraffare dalle mani nere e callose. Nella platea
scoppiò un grido generale di rabbia. Alcune signore svennero allo
spettacolo di quella folla urlante che levava braccia nere e facce
infuocate e furibonde, come ad imprecare, verso i palchetti, e in mezzo
alla quale scintillavano alcuni ferri aguzzi. I carabinieri misero le mani
sui <I>revolvers</I>, e la Guardia Nazionale entrò nella sala
colle baionette in canna. Rinunziamo a descrivere lo stato
d'esasperazione di Brusio a quella sfida imprudente che l'aveva percosso
come uno schiaffo; egli saltò in mezzo alla folla gridando: «Ora faccio
scendere tutta questa canaglia coi guanti a ballare la
<I>Fasola</I> con noi! Vado a prenderveli per le
orecchie!». E si fece largo in mezzo alla calca. Nessuno, né
carabinieri, né Guardia Nazionale badarono a quell'uomo che usciva, a
quella jena assetata di vendetta, che spingeva in avanti il collo anelante
come un animale sitibondo. In due salti egli fu sulla scala del
second'ordine, e si avanzò pel corridoio. Tutt'a un tratto egli si
fermò, come percosso dal fulmine, coll'occhio smarrito, col volto pallido
e convulso: si era trovaro faccia a faccia a Narcisa, che partiva dal
Teatro, spaventata di quel frastuono. La contessa aveva messo un grido
nel vedere quell'uomo che correva come un pazzo contro di lei, facendo
scintillare nel suo pugno la lama larghissima di un coltello a manico;
quella figura informe ed orrenda sotto le pelli che la coprivano, della
quale gli occhi soltanto luccicavano come due carbonchi sul volto che
sembrava una maschera di cera gialla. Ella si era stretta contro la
parete, aggrappandosi al braccio del conte, come per farsene
schermo. Pietro aveva avuto uno sguardo, un solo, per lei; il coltello
gli era caduto di mano; poi era fuggito, correndo a salti, urlando
disperatamente, come l'animale che voleva figurare. «Oh! questa donna!
questa donna!... questo demonio!», gridava egli, correndo all'impazzata
pel Molo. Si fermò sull'ultimo limite di questo, quando non vide più
dinanzi a sé che il mare bruno ed immenso, su cui scintillavano le stelle.
Fissò uno sguardo ebete, smarrito su quella superficie che si stendeva a
perdita di vista, luccicante di riflessi fosforici; su quelle stelle che
splendevano sulla sua testa... Due o tre volte avanzò il passo verso
quell'abisso che poteva inghiottire la sua vita coi suoi vortici
spumeggianti; e ciascuna volta egli sentì una forza che l'afferrava e lo
tratteneva... Finalmente cadde accosciato sul suolo umido e spazzato
qualche volta dalle onde, prorompendo in lagrime amare, ardenti, ma non
più disperate. Egli pianse a lungo: quel pianto, che non aveva potuto
versare da circa cinque mesi, forse lo salvò. «Questa donna ha
ragione», mormorò quando fu calmo, come aveva detto allorquando gli era
parso che il suo cuore si fosse spezzato: «quali diritti ho io al suo
amore, alla sua attenzione, fin'anche?... Io, Pietro Brusio!... Ma io
voglio averli, questi diritti che Dio m'ha dato, che in un istante di
scoraggiamento io ho sconosciuto, ho ripudiato, ma che sento in me...
Questa donna anderà superba un giorno dell'amore di Pietro Brusio!!». E
rialzando la testa, quasi lieto ed altiero di quel nuovo indirizzo che
dava alla sua vita, di quell'espiazione che s'imponeva del passato, della
speranza che gli brillava negli occhi ridenti, guardò il cielo quasi
calmo, quasi giocondo ora. Si alzò, e con passo fermo s'incamminò verso la
sua casa. Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la
lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che
ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi
che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste
sole parole: «Perdonami, madre mia!... perdonami!». Due mesi intieri
ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la
sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle. L'aveva
dimenticata? No! Egli aveva tal forza perché viveva per lei, con lei,
in lei; perché tutta la sua vita era ormai Narcisa. Egli lavorava con
un entusiasmo quasi accanito, con una lena che soltanto poteva dargli
l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore
nell'opera sua. Due mesi dopo avea finito un dramma che rileggeva cogli
occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una
parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di
lei. Quando egli fu soddisfatto dell'opera sua, di se stesso; quand'egli
si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò. La sua casa era deserta
e le imposte dei veroni chiuse. La cercò inutilmente otto giorni pei
passeggi e al Teatro; ne domandò agli amici: nessuno l'avea più
veduta. Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa
A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa. «A
proposito, che n'è di lei?», domandò. «Credevo che lo sapeste, voi suo
amante: è partita.» «Partita!» «Sì, da venti giorni.» «E per
dove?» «Per Napoli.» «Anderò a Napoli!», disse a se stesso
Brusio.
<B>VI</B>
Parecchie settimane dopo, in Napoli, ad una delle serate che dava il
barone di Monterosso, noi ritroviamo Narcisa, accompagnata dal marito e
dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli Usseri, che abbiamo
incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che apparteneva ad una
delle più nobili famiglie del Napoletano, l'avea presentata ad una signora
di mezza età, la quale recava con tutta disinvoltura gli occhiali sul
naso, appartenente anch'essa alla più alta società e che col suo ingegno
si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d'Italia. Le
due donne, l'una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l'altra
pel prestigio del suo nome, sedevano l'una presso all'altra su di un
canapè, accerchiate da uno stuolo di cortigiani. Il barone di
Monterosso venne a complimentare la signora contessa R***, e a dire anche
due parole d'occasione a Narcisa. «Avrò la fortuna, signora contessa»,
disse, parlando alla donna matura, «di presentarle stasera un uomo, che,
ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella
letteratura drammatica.» «L'autore di <I>Gilberto</I>
forse?», domandò la signora. «Lo conosce?» «No; ne ho udito
semplicemente parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel
che pare; e di cui i giornali si sono disputati i meriti con
quell'accanimento che dà sempre della rinomanza all'autore. È
napoletano?» «È siciliano; si chiama Pietro Brusio.» «Brusio?... Non
ho mai udito questo nome...» «Fra otto giorni questo nome sarà
pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa.» «È una
celebrità in erba, dunque?» «Sì, signora contessa: una celebrità che
nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato
replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta;
l'impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le
produzioni letterarie in ltalia, e l'ha impegnato a scrivere pei
Fiorentini con un appuntamento che lo farà vivere da signore.» «Domani
andrò ai Fiorentini», disse la dama, «stasera mi presenti il suo protetto;
lo pregherò di passare da me le sere in cui ricevo.» Il barone
s'inchinò allontanandosi per dar retta ad altri invitati. Narcisa ballò
come una silfide e confessò al suo cavaliere di mai essersi divertita come
in quella sera. Verso mezzanotte il barone si avvicinò di nuovo al
divano ove sedevano Narcisa e la contessa, accompagnato da un giovane alto
e bruno, di cui l'espressione fredda, altiera e quasi severa era appena
temperata dal contegno grazioso che gl'imponeva l'atto che andava a
compiere. «Mi permetta, signora contessa R***», disse il barone con il
garbo di un uomo di società, «che abbia l'onore di presentarle il signor
Pietro Brusio, il giovane autore di cui le feci parola.» Pietro
s'inchinò in silenzio, mentre la dama originale l'esaminava con tutta
flemma, attraverso gli occhiali, dal capo alle piante e gli faceva i
complimenti d'uso. Anche Narcisa esaminava il nuovo arrivato con una
curiosità che andò a finire nella maggior sorpresa. Ella stentò a
riconoscere il giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo,
divorando degli occhi il suo sguardo, e che passava le notti sul
marciapiede dirimpetto alla sua casa, in quel giovane che le stava dinanzi
con la fronte nobile, quantunque solcata dalle febbrili emozioni della
creazione, e dai delirii sublimi del pensiero; coi lineamenti sbattuti
dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti dell'idea, che aveva sentita
immensa, colla forma, che spesso non sentiva abbastanza. Egli avea
l'occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza e l'avvenire,
quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile sviluppava la
forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la grazia di
un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni cosa
servì a farglielo riconoscere, meglio che l'altiero portamento della
fronte, ch'egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il
sorriso a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla
contessa R***, fu questo. La contessa gli parlava con la famigliarità
che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio degli
ammiratori di lei gli si affollava d'attorno, e lo guardava con occhio
invidioso. Tutt'a un tratto ella lo vide diventar pallido come un
cadavere, e dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non
seppe padroneggiare; e ciò fu quando il barone (ch'era rimasto al suo
fianco frapponendosi fra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva
veduto la contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un
complimento ch'ella non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile,
senza poter parlare, cogli occhi, che si erano fatti di una sorprendente
lucidità, fissi in quelli di lei, mentre una leggiera convulsione faceva
tremare sul suo labbro superiore i baffi castagni. La signora R***, che
gli parlava in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo
guardò con curiosità. Pietro staccò quasi con isforzo gli occhi da
quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e chiaro, per
volgerli all'ufficiale, che anch'esso lo guardava sorpreso, arricciandosi
le basette. Egli fu freddo, distratto, impacciato tutto il tempo che
rimase a discorrere colla donna celebre. Quando questa gli parlava dello
splendido avvenire che la riuscita della sua produzione l'autorizzava ad
aspettarsi, rispose tristamente: «Forse, signora contessa, giammai in
tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto
giorni, e al quale il pubblico ha avuto la bontà di fare buon viso». «È
solo modestia che le fa dir ciò?» «No, signora; forse è
presentimento.» «Bisognerebbe, in tal caso, non ammettere questo dramma
come parto del suo ingegno, ma piuttosto...» «Del cuore?», interruppe
il giovane; «sì, signora!». «Ella ha ragione: in un momento di passione
si possono operar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un minuto
dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo
<I>Gilberto</I>.» «Chi lo sa?» E lo sguardo del giovane,
che s'inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di
lui con un'espressione che dimostrava più della semplice curiosità. Si
ordinavano le coppie per un valtzer; e l'ufficiale venne a presentare il
suo braccio a Narcisa, che vi abbandonò il suo corpo flessibile, splendida
di tutta la sua strana bellezza; coi capelli, intrecciati di perle,
cadenti sulle spalle bianchissime e vellutate; col bel seno anelante sotto
il velo ed il merletto che lo copriva; col suo sorriso indefinibile sulle
labbra, e gli occhi che, senza esser brillanti, avevano un'onda di voluttà
nei loro raggi. Ella si avanzò lentamente, mollemente, come
immedesimandosi al corpo dell'uomo a cui si accompagnava, con un
inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che
s'intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi, fossero troppo
pesanti per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e
scintillante tutto quel torrente d'impetuose voluttà che il valtzer,
questo ballo degli innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i
delicati tesori del suo corpo al braccio del suo cavaliere, per trarne
quella foga d'esaltazione che la musica, l'eccitamento, il contatto del
corpo dell'uomo elegante doveano darle. Nulla varrà a riprodurre, ad
accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel
corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del
suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo. Le
coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva <I>Il
Bacio</I> di Arditi. Dopo il primo giro, quando la contessa si
fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere,
sfiorandogli un'ultima volta il viso coi suoi capelli; colle guance
accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere,
incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione
d'angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto
calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo
su quello che si fissava su di lei. «Vogliamo ricominciare?», le
sussurrò all'orecchio l'ufficiale, passandole il braccio attorno alla vita
da bajadera. «È inutile... mi sento stanca... Non ballo più...» Ella
cercò cogli occhi un'altra volta quello sguardo supplichevole e nello
stesso tempo minaccioso: era scomparso. «Oh! questo
<I>Bacio</I>! questo <I>Bacio</I>!... avrò da
sentirlo dappertutto!...», mormorava Pietro delirante scendendo le
scale. «Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore; a
quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmici?», domandò
Narcisa al marito. Questi s'inchinò in silenzio. L'indomani,
infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere
entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul
proscenio. Il sipario non era ancora alzato e la sala era
affollatissima. La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole
bianche che posò sul parapetto insieme all'occhialetto. Il dramma fu
recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli
spettatori quando l'autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori
colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol
getto, che sono belle perché sono vere, che sono inimitabili perché sono
semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti
sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti
i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati, ella sentì che quel
dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di
rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che avea
battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con
sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta
assorta in quel <I>Gilberto</I> che ad ogni parola destava in
lei una reminescenza e le svelava quale amore quasi sopra[n]naturale avea
saputo destare. Nel mezzo della scena che l'avea commossa dippiù, ella,
coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e
capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e
l'avea legato al nastro del mazzetto. Alla fine del second'atto
l'autore, chiamato fragorosamente dal pubblico, venne sulla scena. Egli
non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi
frenetici, in mezzo all'agitazione di quella folla che si levava gridando
il suo nome, in mezzo all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante:
uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di un proscenio al
second'ordine. Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava
sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli
Usseri. Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli
cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle
acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole
bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea
raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme
d'impazzire, poiché tutti questi applausi non potevano dargli quello
sguardo ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a
prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul
giovane sottotenente. La folla chiamò invano replicate volte
l'autore. «Che ne dite del dramma?», domandò la contessa all'ufficiale,
dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per
fare ordinare la carrozza dal <I>jo[c]key</I> che aspettava
sul corridoio. «Molto bello, in verità; e anche assai
applaudito.» «E dell'autore?» «Che volete che ne dica?... ch'è un
autore come tutti gli altri», soggiunse colui con il supremo disprezzo
degli uomini di spada. «Eppure quest'uomo è celebre!», aggiunse la
contessa avvolgendosi nella sua <I>vespertina</I> di
<I>cachemire</I> bianco. «Sarà anche questo.» «Sento che
amerei quest'uomo come una pazza!», esclamò Narcisa punta dal freddo
motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere
mobile ed impetuoso. «Confessate almeno che questa franchezza è
odiosa!...», rispose ridendo il sottotenente, poiché non sapeva se dovesse
prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della
contessa gli desse molto a pensare. «Ha però sempre il merito della
franchezza!», replicò con tutta flemma Narcisa: «Quest'uomo io l'amo...
poiché la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare
superba!... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a
ritornare generale d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse....
io vi amerò come sento che amo in questo momento
quell'uomo!». «Signora!», esclamò l'ufficiale coi denti stretti,
facendosi pallido. «Non mi accompagnate sino alla mia carrozza?», disse
senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell'occhialetto da recarle,
nel momento che suo marito rientrava nel palchetto. Brusio era
ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza
dormire. Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato
dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto
appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quell'uomo, quel
soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da
presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto le sue dita
incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece
impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di
lui, invece di essere l'espressione della simpatia, non dimostravano
piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con
cui si paga l'abilità di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e
l'indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto
a Narcisa - sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più
delicata:
<I>Signora contessa, Ieri ebbi la fortuna di raccogliere un
mazzo che le cadde dal palchetto sulla scena. Se, unita ai fiori che lo
compongono, non vi avessi trovato una gemma di qualche valore, io l'avrei
forse conservato come un ricordo dippiù della simpatia di cui mi onorarono
gli spettatori; ma nel dubbio d'ingannarmi sulla destinazione del suo
prezioso regalo, poiché tali sogliono essere le ricompense dei commedianti
celebri, mi fo un dovere di rimetterlo alle mani dalle quali è
partito. La prego, signora, di gradire la testimonianza della mia più
distinta considerazione, ecc.</I>
Suggellò il biglietto, dopo averlo firmato, aspettando con impazienza
l'ora convenevole per ricapitarlo. Bisogna dire che il giovane,
esagerando la sua suscettibilità, scrivendo quella lettera di orgoglioso
rimprovero sotto le frasi gentili, cedeva ad una segreta speranza di
mettersi in relazione con Narcisa; e che egli avea adottato quel mezzo
come ne avrebbe adottato un altro, se gli si fosse presentato. A
mezzogiorno suonò, e disse al domestico che comparve, consegnandogli la
lettera ed il mazzo: «V'informerete dalla servitù del signor barone di
Monterosso dell'abitazione della signora contessa di Prato, e andrete a
recarle questa lettera insieme ai fiori e all'anello,
<I>personalmente</I>», aggiunse in ultimo, accentuando la
parola. «Ascoltate....», disse quindi, mentre il servitore stava per
uscire, esitando tuttavia a proferire quelle parole che gli pareva
svelassero la sua segreta speranza che cercava dissimulare a se stesso:
«se vi dicono esserci risposta aspettatela». Attese con ansietà
febbrile i tre quarti d'ora che il domestico impiegò a ritornare colla
risposta. Finalmente l'udì sulle scale e andò ad incontrarlo nel salotto,
dominandosi a pena. Gli venne recato su di un vassoio da lettere un
biglietto da visita; al di sotto del titolo <I>Conte di
Prato</I> in litografia, c'era scritto a mano: <I>prega il
sig. Brusio di far trovare alle 8 due suoi amici al Caffè
d'Europa</I>. «Un duello!», esclamò Pietro sorpreso di leggere
tutt'altro di quello che sperava: «confesso che me l'aspettava pochissimo.
Quello che non so comprendere è perché il signor conte spinga la
permalosità sino a sfidarmi per un mazzo rimandato... a meno
che...». Rimase pensieroso alcuni secondi, senza compire la frase,
girandosi il biglietto fra le dita. «Non importa»; disse quindi
riscuotendosi; «quest'uomo è destinato; io l'ucciderò, com'è vero che mi
chiamo Pietro e che quest'uomo mi ha insultato a Catania...» Uscendo
per prevenire i testimoni passò dal barone di Monterosso e vi trovò un
altro suo amico. «V'incontro a proposito»; diss'egli stringendo le due
mani che gli venivano stese, «ho un affare col conte di Prato e venivo a
pregarvi della vostra assistenza.» E raccontò ai due amici il fatto della
mattina che avea causato la sfida del conte. «Le condizioni?», domandò
il barone. «Vi dò carta bianca; l'appuntamento è per stasera, alle
otto, al Caffè d'Europa. Vi prevengo soltanto che non accetterò
accomodamenti.» Alle dieci i due padrini vennero a trovarlo al Teatro
S. Carlo per riferirgli le condizioni stabilite. «Diavolo!», esclamò il
barone, «l'affare sembra più serio che io non mi fossi immaginato. Il
conte è furioso, a quanto pare; ed ha proposto condizioni d'inferno:
trenta passi, dieci passi liberi per ciascheduno. C'è da divertirsi con
due uomini che possono venire a scaricarsi le pistole sul petto a dieci
passi!» «Accetto!», esclamò Pietro col suo accento vivo e
brusco. «Caspita! lo sapevamo; giacché abbiamo accettato per voi...
Quando c'entra quel demonio di contessa...» «La contessa?» «Eh,
via!... forse che domani andate a cacciarvi una palla in corpo quasi colle
pistole appoggiate sullo stomaco per quel povero mazzo che c'entra quanto
un pretesto?!... Il conte è irritatissimo per l'assiduità che spiegaste
nel far la corte a sua moglie, per cui la seguitaste da Catania a Napoli;
e si è servito di questo pretesto per sfidarvi onde evitare il
rumore.» «Vi assicuro che non ho ancora l'onore di essere conosciuto
personalmente da quella signora...» «Il conte però sembra che vi
conosca molto bene... A domani!» A mezzanotte Brusio rientrando trovò
una lettera che il cameriere gli disse aver recato due ore avanti una
giovane assai elegante, che erasi annunciata per la cameriera della
contessa di Prato. Egli aprì con febbrile impazienza la lettera profumata,
della quale il bellissimo carattere inglese era tracciato con mano
incerta, e vi lesse:
<B>Signore, Il conte l'ha sfidato. Le condizioni di questo
duello sono orribili: due uomini che si battono alla pistola non si
battono per una semplice riparazione; si battono per uccidersi. Questo
duello è un delitto. A Napoli si è molto parlato del suo scontro di un
mese fa con un giornalista il quale ancora guarda il letto; si dice ancora
che ella è un terribile tiratore; il conte anche lui possiede questa
sciagurata destrezza... E questi due uomini, che si odiano a morte,
andranno, domani, dope essersi abbigliati freddamente, come al solito,
dopo di aver fatto attaccare la carrozza, dopo di essersi salutati
civilmente, a mettersi a 15 o 20 passi di distanza colle pistole in mano,
mirando col triste sangue freddo che deve dare in mano dell'uno la vita
dell'altro... Oh! signore!... lo ripeto: questo è delitto!... questo è il
più spietato assassinio legale!... O il conte resta ucciso ed io avrò il
rimorso di essere stata causa della sua morte... o invece... Signore...
a Catania conobbi un giovane nobile e generoso... che mostrava d'amarmi...
Io invoco questa memoria per scongiurare tale disgrazia... Questo duello
non deve aver luogo! Si ritratti, signore, il conte accetterà le sue più
semplici scuse, e le basterà di fare il primo passo perch'egli le venga
incontro a stringerle la mano. Se ha una madre pensi a questa madre, se ha
un'amante pensi all'amante, signore... e farà il più nobile sacrifizio che
amor proprio d'uomo possa fare evitando questo duello.
Narcisa Valderi</B>
Pietro fu tristamente colpito da quella lettera. Egli si aspettava
tutt'altro, egli credeva di trovare affettuose parole di donna amante, e
per contro rinvenne la moglie che supplicava il duellista famoso per la
vita del marito; egli non vide, non seppe scorgere tutto ciò che lasciava
[in]travedere, che accennava anche quella lettera che parlava delle
reminiscenze di Catania... poiché a quelle reminiscenze non si era data
più importanza di quanta se ne dà a sentimenti che non si dividono; avea
riletto due o tre volte una parola, quell'<I>o invece</I>...
che un momento avea fatto la sua speranza, come se avesse cercato
interpretare tutto il senso di quei puntini che la seguivano, e trovarvi
quello che il suo cuore voleavi vedere; ma quei puntini potevano anche
nascondere, come spesso, il nulla. Se Narcisa gli avesse scritto
semplicemente: <I>Pietro, non uccidete mio marito,
ritrattatevi</I>: egli non si sarebbe ritrattato, ma non avrebbe
neanche fatto il passo che fece, rimandandole la lettera, come una suprema
impertinenza. Sorridendo del suo riso amaro, scrisse, in basso della
stessa lettera della contessa, queste sole linee, che gli parve la
completassero, e ne fossero la degna risposta, mormorando fra i denti
stretti dal sarcasmo: «Ah! costei ha paura che io le uccida il marito!...
costei si rivolge al giovane di Catania, e ne accenna la memoria, come si
farebbe di un balocco ad un fanciullo; per ottenere il suo intento!... Ma
non sa questa donna quali lagrime stillino ancora queste
memorie?!...». Le due linee dicevano: «Se amassi una donna, come io e
nessuno può amare - e questa donna mi chiedesse una viltà - io la negherei
a questa donna. - Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il
conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo». Sì, egli l'amava tanto,
colei, malgrado tutto quello che aveva sofferto per lei, e forse a causa
di ciò, malgrado i torti che si figurava aver ella verso di lui, da farle
il sacrifizio della vita senza neanche pensarci, senza neanche farglielo
indovinare; mentre l'assicurava della vita di suo marito, ricusandosi nel
tempo istesso a far le sue scuse al conte, - ciò che valeva offrirsi come
un bersaglio ai colpi di lui. Quest'uomo che non sapeva se la sera del
domani dovesse venire per lui; quest'uomo che andava fra poche ore a
barattare una vita giovane e ricca d'avvenire, acclamata, festeggiata,
contro un colpo di pistola, dormì tranquillo tutta la notte, poiché si
sentiva più vicino a Narcisa, la sirena che gli avrebbe fatto adorare
l'inferno per mezzo delle sue seduzioni. All'alba era alzato e si
vestiva. Nel punto di scendere le scale consegnò al cameriere la lettera
della contessa dicendogli: «Recate al suo indirizzo questa lettera, e
dite alla contessa di avervela io data nel punto di montare in carrozza.
Fate avanzare». «La carrozza!», gridò il cameriere. I briosi cavalli
lo trasportarono rapidamente all'abitazione del barone, nella strada del
Pilierò, ove aspettavano i due testimoni.
<B>VII</B>
Quando giunsero sul terreno, al Vomero, vi trovarono il conte coi suoi
due padrini; tutti si salutarono levandosi i cappelli. «I signori hanno
da offrire ritrattazione da parte del loro primo?», domandò uno dei
testimoni del conte a quelli di Brusio. «No, signore»; rispose breve il
barone. Colui sembrò sorpreso, poiché era forse prevenuto dalla
contessa di aspettarsi tutt'altro, e cominciò a misurare il terreno
d'accordo cogli altri. Situati i duellanti, i padrini misero loro in
mano le pistole, e si allontanarono. In questa fatta di duelli,
l'ultimo colpo è scelto a preferenza dal più coraggioso, o dal più
arrabbiato, che approfittando dell'eventuale cattivo esito
dell'avversario, può venire a fare il suo colpo a 15 ed anche a 10 passi
di distanza; ciò che dà molte probabilità di riuscita. I padrini di Brusio
videro dunque colla massima sorpresa, che questi, né novizio, né
inesperto, fermo al suo posto (dopo aver mirato un momento con freddezza)
avea tratto il suo colpo, il quale avea spezzato un ramoscello, che
sorpassando il muro del giardino, a cui volgeva le spalle il conte, si
stendeva sulla testa di quest'ultimo. Il conte (che si era fermato dopo
tre o quattro passi, facendo l'atto di chi prende la mira più
accuratamente per tirare, onde prevenire il giovane) rassicurato dal
cattivo esito del colpo di lui, fece tranquillamente i suoi dieci passi,
mirando sempre colla calma di un tiratore al bersaglio, e fece fuoco a 20
passi; la palla andò a scalfire il braccio sinistro di Brusio. «L'onore
è salvo!», gridarono i padrini. Il conte salutò e andò a rimontare
nella carrozza coi suoi due amici. Passando dal Caffè Nuovo offrì una
colazione ai testimoni; dei quali uno, quello che avea fatta la domanda di
ritrattazione, si scusò di non potere accettare, accusandone un affare
urgentissimo e partì. «In sala c'è un signore che l'aspetta da cinque
minuti, e che mostrava aver molta fretta di vederla»; disse il cameriere a
Brusio, appena questi fu di ritorno. «Ha detto il suo nome?» «No,
signore.» «Va bene.» Nel salotto infatti aspettava uno dei testimoni
del conte, quello che l'avea lasciato al Caffè Nuovo, vecchietto rubizzo
ed elegante. Appena vide Pietro gli stese la mano. «Ero impaziente di
stringere la mano dell'uomo più nobile e generoso ch'io m'abbia
conosciuto»; gli disse, «e avrà la bontà di perdonarmi se ho rischiato
d'essere importuno per affrettarmene il piacere.» «Io non capisco,
signore», rispose Brusio freddamente. «Sono l'interprete dei sentimenti
della contessa di Prato.» «La contessa di Prato!», esclamò Pietro
involontariamente. «Cui ella ha salvato il marito rischiando la
vita.» «Io? No! sono stato sfortunato: ecco tutto.» «So che a trenta
passi ella mette una palla in un anello. Ho assistito al più strano duello
ch'io abbia veduto, ed ho l'onore d'assicurarle che me ne intendo un poco
di questi giochetti. Tutto questo mi autorizza a creder poco nelle sue
parole, in questo momento, e molto nella sua discrezione e nella sua
modestia.» «Signore!» «E che!... forse che andiamo in collera perché
vengo a recarle i ringraziamenti della contessa?» «La signora contessa
nulla mi deve e nulla ha a ringraziarmi.» «Stamattina, molto prima di
partire pel Vomero col conte, ho veduto un biglietto così concepito in
sostanza: <I>Io non mi ritratterò, ma posso assicurare la signora di
Prato che non le ucciderò il marito</I>. Se la contessa avesse avuto
la bontà di cedermi per un quarto d'ora quel biglietto, come io ne l'avea
pregata, non avrei avuto la sfortuna, a quest'ora, di esser sì poco
creduto.» Brusio arrossì impercettibilmente e chinò la testa. «Ella
ha letto questo biglietto?...», disse esitando. «Letto propriamente no;
poiché è stata la contessa che ha avuto la bontà di leggermelo.» Pietro
respirò. «Ebbene?» «Ebbene! io so tutto. La contessa istessa mi ha
tutto rivelato!», aggiunse con enfasi napoletana l'interlocutore di
Brusio. «Ella?!» «La prego di credere, prima di farsene le
meraviglie, ch'io ho l'onore di trovarmi molto innanzi nell'amicizia della
signora contessa di Prato, e che ella ha la bontà di mostrarmi tutta la
fiducia... Non so se ella m'intende...» «Non molto,
veramente.» «Eppure è sì chiaro!», aggiunse il vecchietto con un
sorriso malizioso. «È adorabile quella contessa!... peccato che lei non
abbia la fortuna di conoscerla intimamente...» «Me ne rincresce di
cuore. Sicché?...» «Sicché ho saputo dalla Valderi, ieri sera», seguitò
colui, assumendo completamente l'aria misteriosa e gonfia del vecchio
ganimede che si crede sicuro del fatto suo, «che lei, signore, ha voluto,
non so perché, rimandare alla signora un mazzo che questa le avea gettato
sul proscenio la sera che si rappresentava il suo
<I>Gilberto</I>; cosa che il conte ha preso in mala parte, per
cui n'è seguito lo scontro di stamattina... Quello di più delicato, che la
contessa non volle, non seppe nascondermi, è che ella stessa avesse fatto
pregare lei, signore, di venire ad un accomodamento, onde il sangue non
fosse sparso per una causa sì futile; e le venne risposto con quel
biglietto ch'ella mi lesse.» Pietro sorrise involontariamente nel
vedere la pazza persuasione e le galanti pretensioni del
vecchietto. «La contessa», seguitò colui, «ed io stesso non avevamo
capito perfettamente quello che volessero dire quelle parole:
<I>Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il conte, suo
sposo, non correrà alcun pericolo</I>: e che la sua nobile condotta
di stamattina ha spiegato intieramente. Nella mia premura di presentarmi
alla Prato con qualche cosa che le fosse gradevole, io son corso a
ringraziar lei di cuore, a stringerle la mano per la contessa e per me,
essendo sicuro di prevenire il desiderio della signora.» «Mi permetta
di farle osservare che questa sicurezza è, per lo meno, molto
arrischiata.» «Per bacco! dopo aver veduto Narcisa agitata, come ieri
sera l'ho veduta; dopo che stamane, prima ch'io partissi con suo marito,
ella mi fece chiamare <I>misteriosamente... segretamente</I>,
capisce?... per scongiurarmi colle più calde preghiere, colle lagrime agli
occhi, che facessi di tutto onde venire ad un accomodamento, non c'è
bisogno di gran sale in zucca per capire che la contessa dev'essere
contentissima dell'esito fortunatissimo di questo affare (poiché, scusi,
ma la sua ferita al braccio non può chiamarsi una disgrazia) e che io,
dopo aver fatto il possibile per venire all'aggiustamento che ella mi
raccomandava, vada ad annunziarle di aver accomodato benone le cose, e
aver perfino ringraziato lei.» Sarei dispiacentissimo però, signore,
ove ella, senza volerlo, le avesse reso un servigio che sarà male accolto
dalla signora.» «Male accolto!?... e perché?» «Giacché il conte n'è
uscito illeso, cosa deve importare di me, di uno sconosciuto, a quella
signora? E come dovrà accettare che lei vada a dirle: <I>Ho stretto
da parte vostra la mano a quell'uomo che ha avuto la scortesia di
rifiutarvi un sommo favore</I> (poiché non è provato ch'io abbia
risparmiato il conte) <I>e che è andato a scaricare la sua pistola
contro il petto di vostro marito?</I>» Il vecchietto rimase un
momento confuso, come colpito da quella riflessione; ma poco dopo riprese
vivamente, quasi trionfante: «No, no! son sicuro del fatto mio. Lei non
conosce la bell'anima di Narcisa; ella sarebbe desolatissima se il minimo
accidente le fosse accaduto... L'ho udita con questi orecchi esclamare,
torcendosi le braccia: <I>Mio Dio! se quel giovane morisse... per
me!</I>». «Ella ha detto questo?!», esclamò Pietro quasi fuori di
sé... «Ma sì! Diavolo... che c'è? Le reca sorpresa che una donna abbia
paura del sangue che potrebbe venire sparso per cagion sua?» «Al
contrario... È che... in tal caso... essendo sicuro... essendo certo di
rendere a lei un servigio... di farle un buon ufficio presso quella
signora... io le darei un attestato di quanto ella ha fatto per
scongiurare il pericolo di questo duello... di come ella si è adoperato
per far piacere alla contessa...» «Mio amico! mio caro amico!», esclamò
colui, abbracciandolo; «come le ne sarei grato!...» «E se lei crede che
due righi potrebbero esserle utili presso la signora di Prato...» «Ella
è la bontà in persona, ed io le sono devotissimo anima e corpo.» Senza
aspettare che il suo interlocutore fornisse il compito dei suoi enfatici
ringraziamenti Pietro si appressò al tavolino da
<I>albums</I>, aprì una cartella che conteneva foglietti da
lettere, e scrisse: «Un uomo che ha molto a farsi perdonare dalla
signora contessa di Prato sarebbe fortunatissimo ove ella volesse
indicargli un'ora della giornata in cui potesse venire ad implorare questo
perdono ai suoi piedi». Piegò il foglio e fece mostra di rimetterlo
così aperto all'amico della Prato. «Non occorre di suggellarlo, se lei
avrà la bontà di ricapitarlo perso- nalmente alla signora
contessa.» «Anzi! anzi!... suggelli, suggelli pure! Voglio fingere di
non sapere di che si tratti... Quest'attestato del quale sembrerò non
essere informato, mi gioverà molto presso la mia cara contessa. Ella sarà
contentissima di me... poiché... capisce.... ella ha molta bontà per me...
non dico per vantarmi...» «Non perda tempo adunque!», replicò Brusio,
spingendolo verso la porta. «Un altro abbraccio, amico carissimo, un
altro abbraccio. Lei troverà sempre in me un uomo tutto suo, un amico vero
e riconoscente sino alla morte. Tratti d'amicizia come i suoi, che non si
fanno aspettare... che vengono da sé... non si dimenticano... Poiché ella
ha avuto la gentilezza d'indovinare... che io per quella cara Narcisa...
capisce?!» «Addio, caro signore.» «Oh, come mi sarà grata la
contessa! come creperanno d'invidia, quegli altri giovanotti,
quell'ufficialetto di cavalleria pel primo!... Addio, caro amico.» Uscì
a ritroso, inchinandosi; e Pietro, lasciando cadere la portiera dietro di
lui, non poté fare a meno di ridere della trista figura che la sciocca
presunzione faceva fare a quel seduttore di 58 anni. A mezzogiorno il
conte rientrò in casa e domandò della moglie. «La signora contessa è
uscita in carrozza», rispose il suo cameriere. «Uscita diggià!»,
esclamò il conte con qualche sorpresa. «Ed ha lasciato pel signore
questo biglietto.» Il conte non dissimulò un movimento di collera, ed
esitando ad aprire la lettera, disse bruscamente al domestico: «Va
bene! lasciatemi». Il biglietto di Narcisa era semplicissimo:
<I>«Lascio questa casa perché sento ch'è impossibile rimanere
uniti più oltre. - Sento troppo altamente i motivi che mi spingono a tal
passo per nascondervelo. - Non mi cercate adunque: sarebbe inutile. - Vi
so troppo ricco e troppo generoso per supporre che possiate far conto
della mia dote: vi prego quindi di passare, su questa, 8 o 9 mila lire
all'anno al mio incaricato d'affari a Torino, signor Treveri. Credo che
basteranno».</I>
Era quanto vi ha di incisivo nell'ardire portato all'audacia, nella
franchezza spinta sino al cinismo, della donna volubile e galante,
appassionata ed impetuosa. Quasi nell'ora istessa un elegante calesse
si fermava dinanzi il portone di una graziosa casa a due piani nella
Strada Nuova. Un palafreniere, che serviva anche da portinaio, venne ad
aprire alla signora abbigliata con distinzione, che era discesa dal
calesse, e le additò una scala a sinistra, della quale gli scalini di
marmo erano fiancheggiati di vasi di fiori. In fondo alla corte, legati
alle sbarre di un cancello che chiudeva un giardino di piacevolissimo
aspetto, scalpitavano tre bellissimi cavalli inglesi. Nell'anticamera,
ad un domestico che incontrò, la dama domandò se il signor Pietro Brusio
era in casa. «Sì, signora; ma non è visibile, poiché è nel suo
gabinetto di lavoro.» «Ditegli che c'è una signora che desidera
parlargli.» «Domando scusa, signora; ma la prego di avere la bontà di
ripassare verso le sei, o di lasciare il suo biglietto; poiché quando è
nel suo gabinetto il signore non vuol essere disturbato
assolutamente.» «Fategli tenere questo biglietto in tal caso»; insisté
la signora con una lieve tinta d'impazienza, prendendo da un elegante
porta-biglietti una carta di visita e piegandola: «ditegli che aspetto.
Non vi sgriderà certamente per questo». Il tuono di sicurezza e di
superiorità con cui parlava la bella signora vinse le esitazioni del
cameriere, che si decise a fare quanto ella diceva. «Si dia l'incomodo
di seguirmi in sala», diss'egli sollevando la portiera di un uscio; «il
signore ci sarà a momenti.» Per giungere al salotto si attraversava una
piccola serra a cristalli, che occupava uno dei lati di una terrazza assai
vasta, della quale s'era fatto un giardino pensile, sporgente su quella
spiaggia incantata della Marinella, che ha il bel golfo di Napoli per
orizzonte, e in fondo Capri e Sorrento. Quella specie di stufa, dove
vegetavano le più belle piante esotiche, circoscriveva come in
un'atmosfera separata dalla città clamorosa, il salotto ed il gabinetto da
studio che vi era contiguo. I rumori esterni sembravano estinguersi sulla
sabbia finissima del viale, come il più lieve alitare di vento moriva
sulle grandi foglie di quelle piante immobili nelle loro masse
svariate. Il salotto era addobbato con lusso; ma quel pensiero tutto
originale che avea disposto lo stanzone dei fiori prima di giungervi, e il
giardino sulla terrazza, sembrava aver presieduto nei minimi dettagli alla
situazione di tutti gli oggetti che lo decoravano. Le porte vetrate, che
si aprivano sulla terrazza, erano nascoste, alla lettera, da
<I>persiane</I> di pianticelle rampicanti; ciò che unito alle
pitture dei vetri, e alle doppie tende di raso e di velo, facevano
penetrare soltanto nella sala quella mezza luce, che, col lasciare
indistinte le forme degli oggetti, vi crea mille nuove immagini, e ne
popola la semioscurità di quei mille sogni incantati, di quelle sfumature
voluttuose che tanto piacciono alle signore galanti; il passo si arrestava
sui tappeti vellutati, come se temesse di destare un'eco che potesse
strappare dalla deliziosa preoccupazione che faceva nascere
quell'atmosfera. Il cameriere scomparve senza far rumore per uno degli
usci dirimpetto, nascosto dalla stessa tenda di raso celeste. La signora
si sprofondò in una delle poltroncine che erano vicine ad un elegante
tavolino da <I>albums</I>, piccolo capolavoro nel suo genere;
subendo anch'essa, senza accorgersene, il fascino che esercitava sui sensi
quel luogo ricco di dorature, di sete, di specchi e di profumi: fascino al
quale forse ella era disposta. Poco dopo la tenda si aperse, e comparve
un uomo, vestito del rigoroso abito nero, come se volesse dare a divedere
di apprezzare tutto il valore della visita che riceveva; ancora pallido,
ma di quel pallore che ci fa brillare gli occhi, quando la gioia troppo
potente della felicità sembra chiamare al cuore tutto il sangue. Una benda
di seta gli teneva al collo il braccio sinistro. Un momento però egli
sembrò ondeggiare indeciso, mentre fissava i suoi occhi scintillanti su
quel corpo da fata (che accennava appena le sue seduzioni sotto le linee
quasi vaporose delle vesti, voluttuosamente disteso sulla poltroncina) e
su quegli occhi che lo fissavano del loro sguardo più bello, mentre il
sorriso più dolce errava sulle labbra di lei. Come se avesse temuto di
rompere l'incanto di quel sogno troppo bello per lui, [egli] esclamò,
quasi impaziente, verso un testimonio che gli stava vicino, ma che però
non si vedeva: «Non ci sono per nessuno. Quando vi voglio suonerò.
Andate». Non si udì sul tappeto, molto spesso, il passo del cameriere
che si allontanava. Pietro si avanzò lentamente verso la dama, come se
avesse voluto assaporarne, con una voluttuosa economia d'analisi, tutte le
emanazioni inebbrianti. Ella, nella sua positura da sirena, lo fissava
sempre senza parlare. Il giovane non pensava neanche a proferire la più
semplice formola di civiltà. Una parola sola irruppe
spontanea: «Lei!... lei, signora!... da me!». «Che c'è di strano?»,
rispose ella con un indefinibile sorriso. «Non ha ella rischiata la vita
per me, perché io venga a rischiare quelli che il mondo chiama riguardi
per lei?...» Gli stese la destra, dopo essersi tolto il guanto; egli
esitò a prendere quella mano, che, forse per fargli provare in tutta
l'intensità il brivido del suo contatto, gli si metteva nuda fra le
sue. «Ho ricevuto il suo biglietto dal signor Briolli. Se lei ha molto
a farsi perdonare, io ho molto a ringraziarla... Ho verso di lei uno di
quei doveri di gratitudine dinanzi a cui le convenienze sociali
scompaiono; e son venuta a ringraziarla, signore, della sua azione sì
nobile, sì generosa sino al sacrificio!...» Invece di rispondere,
Pietro seguitava ad ammirare, come si fa di un oggetto prezioso, quella
manina bianca ed affilata che si teneva fra le sue senza osare di
stringerla, come se temesse di farne appassire la delicata bellezza. «E
questa ferita!... Dio mio!...», continuò la contessa commossa
vivamente. «Nulla... una scalfittura.» Narcisa si avvide forse
allora della tacita ammirazione con cui il giovane si teneva quella mano
sulle palme, e, arrossendo impercettibilmente, fece un movimento per
ritirarla. «Oh! la lasci!...», mormorò egli come un fanciullo che parli
in un sogno delizioso. «È cosi bella!...» La contessa, ancor più rossa
di prima, ma sorridendo cogli occhi e le labbra del suo sorriso
inebbriante, con un movimento rapidissimo e quasi istintivo di grazia
squisita, o di sopraffina civetteria, gli porse l'altra, lasciandole in
quelle di lui e guardandolo fisso negli occhi. Pietro volle baciare quelle
mani da fata; ma gli parve un peccato, come gli era sembrato lo
stringerle, di sfiorare colle sue labbra quella pelle rasata. Dopo un
momento di silenzio la contessa riprese: «Uno dei testimoni di mio
marito, il signor Briolli, mi ha fatto conoscere tutta la generosità della
sua condotta... Se io avessi potuto sospettare che alla mia preghiera ella
doveva rispondere con tal sacrificio, io avrei inorridito di avanzarla...
come ora ho rimorso...». «Non mi parli di ciò!...», interruppe quasi
brusco il giovane, come se avesse temuto di destarsi. «Noi abbiamo
torti reciproci», aggiunse Narcisa col suo sorriso ammaliatore; «siamo
franchi in tal caso dall'una parte e dall'altra per poterceli perdonare
scambievolmente...» «Reciproci torti?», interruppe Pietro come
trasognato. «I miei saranno più gravi», rispose Narcisa; «ma ho la
buona fede di confessarli e la risoluzione di espiarli... E
voi?...» «Io non me ne trovo che uno!... ma sì grande... che io non oso
rammentarlo senza arrossire in faccia a voi...» «Confessatelo allora;
forse vi verrà perdonato.» «Contessa!...» «È molto grave adunque
perché non abbiate il coraggio di questa confessione?» «Le vostre
parole me lo danno; io ho commesso l'indegnità d'insultarvi rimandandovi
il mazzo e l'anello, e poco fa anche il biglietto...» «Avete avuto
torto nell'ultimo caso, non l'avevate nel
primo...» «Perché?» «Perché nel primo caso quello che a voi pare
colpa, mi provava piuttosto...» «Narcisa!...» «Che voi...» «Che
io vi amo come un pazzo!... come un uomo che non è più conscio di quello
che fa, perché voi gli avete tolto la mente e la ragione,
Narcisa!...» Così dicendo Pietro divorava coi baci quelle mani che si
teneva fra le sue. «Ora che la vostra confessione è fatta», diss'ella,
non rispondendo direttamente, «veniamo alla mia.» Pietro si accosciò
sul tappeto ai piedi della contessa, tenendo sempre le sue mani. «Vi
scrissi di aver conosciuto a Catania un giovanetto generoso sino al
sagrifizio, nobile sino all'eroismo... Perdonatemi, non m'interrompete.
Allora non sapevo chi fosse, non conoscevo che un giovane come se ne
veggono tanti, inferiore fors'anche a quei giovani eleganti che mi
facevano la corte. Anch'esso mi faceva la corte alla sua maniera, come la
fanno i provinciali e gli adolescenti... Guardai qualche volta costui che
incontravo sempre sui miei passi in istrada, sulla porta del Teatro,
uscendo e rientrando in casa... Qualche volta, quando paragonavo il suo
stato a quello di coloro che mi amavano come lui ma che potevano dirmelo o
almeno provarmelo, aspirare almeno ad un mio sorriso, ad una mia parola...
mentre costui doveva sacrificarsi giorni e notti intieri per vedermi
scendere da carrozza o per passarmi d'accanto al ritorno da un ballo, ebbi
un momento di curiosità, ed anche di riconoscenza sì lontana da sfumare
nella compassione, per questo giovane che mi amava in tal modo, e mi amava
senza speranza... Poi non ci pensai più... Poco tempo fa lo rividi in
una festa»: riprese la contessa: «era l'uomo in voga; l'alta società avea
per lui le più squisite cortesie, le donne più belle e più nobili gli
sorridevano... Un vero trionfo! Io ammirai quella fronte larga e pallida,
e mi sembrò di scorgervi qualche cosa di nobile che non vi avevo prima
notato; mi parve di leggere un mondo intiero nei suoi occhi, sebbene
alquanto malinconici. Lo sguardo ch'egli mi volse mi fece pensare al
giovanetto sconosciuto... e provai una viva commozione a quel pensiero:
c'era trionfo ed orgoglio soltanto, in quel punto. Oh! io sono schietta,
signore, per farmi credere quello che ho da dire in seguito. Quest'uomo
avea fatto un miracolo pel mio amore un miracolo da genio... Io l'ho
veduto in quell'opera, come egli non ha veduto che me creandola, prendermi
la mano, sorridendo del suo triste sorriso, e farmi passare in rassegna il
suo cuore coi suoi palpiti, le sue speranze e le sue lagrime... e
trasportarmi ai giorni delle vaghe aspirazioni e dei sogni ineffabili. Poi
mi ha fatto piangere del suo pianto disperato a quelli spasimanti di
passione... e si è arrestato anelante, spossato, colle braccia stese, nel
punto in cui sentiva sfuggirsi questo fantasma a cui incatenava la sua
esistenza... Oh, in quel momento, signore... s'io avessi veduto dinanzi a
me quest'uomo, come l'ho veduto nel suo sogno, nel suo dramma... gli avrei
steso le braccia ad incontrare le sue...». «Narcisa!...», mormorò
soffocato Brusio, sollevandosi sino ad inginocchiarsi. «Qualche volta,
quando penso a quest'amore sì ardente e sì immenso, che non avrei saputo
immaginare se non l'avessi ispirato, io che ho sorriso e folleggiato fra
le ancor più folli proteste di mille galanti, io stordita da quest'incenso
d'adulazioni e di corteggio che gli uomini più eleganti, più ricchi e
nobili si affollano a bruciarmi ai piedi... io ho un movimento d'incerto
terrore; ...mi pare che debba esser terribile, divorante, questa passione,
quando è giunta a tal grado; ...mi pare ch'essa debba assorbire la vita in
un bacio di fuoco... ma in un bacio di tale ebbrezza da sembrare troppo
piccolo compenso la vita, e troppo corti i giorni per
avvelenarsene...» «Narcisa!!...», ripeté Pietro colle lagrime agli
occhi, prendendole le mani con violenza, mentre avea ascoltato sin allora
cogli occhi spalancati e fissi, come pazzo di felicità, e coi gomiti
appoggiati sulle ginocchia di lei. La fata si curvò mollemente verso di
lui, e gli posò le braccia sulle spalle... poi lo sollevò lentamente, con
quell'abbandono inimitabile e seducente che le era particolare; e
guardandolo sempre col suo sorriso da sirena gli susurrò, quasi sulle
labbra, colla sua voce più bella e più carezzevole: «Son venuta a
vedere il tuo gabinetto da studio... Pietro...». Quel soffio passò come
un vento ghiacciato sul sudore che inondava la fronte di lui, che,
impotente a più contenersi, la sollevò, prendendola tra le braccia, come
un caro fanciullo, e la divorò di baci, singhiozzando in un sublime
delirio: «Tu sei il mio Dio! ed io non avrò mai forza per amarti come
vorrei!!!...». La portiera ricadde ondeggiante dietro di loro. Pochi
giorni dopo, verso il tramonto, due giovani che s'avvincevano colle
braccia allacciate, come le <I>rampicanti</I> che coprivano i
fusti dei grandi alberi del giardino pensile, appoggiati alla ringhiera di
pietra della terrazza, guardavano il sole che tramontava dietro quel mare
azzurro che si stendeva immenso ai loro piedi ed ove si specchiavano
Ischia e Procida. Narcisa teneva appoggiata la testa sulla spalla di
Pietro, e di quando in quando si aggrappava al collo di lui colle sue
candide braccia per passare le sue labbra sulla fronte e gli occhi di lui
con mille baci muti della sua bocca tremante che ne formavano un
solo. «Che vita!... mio Dio! che vita!!!...», mormorava ella soltanto
qualche volta. «Eppure, mio dolce angioletto, quando io bacio questa
tua fronte, e mi premo fra le labbra questi capelli, e ti chiudo gli occhi
colle mie mani, e mi sento fremere fra le braccia questo tuo corpo da
fata... io non credo, no... malgrado che io chiuda gli occhi, malgrado che
io torturi disperatamente il mio cervello, per crederlo, che ciò che io
provo di sì immenso, di sì convulso, di sì spasimante nella voluttà del
piacere, nel delirio del godimento, mi viene da te; ...che tutto ciò non è
uno splendido sogno della mia fantasia, come ti sognai nel mio dramma... e
ti sognai delirante, stringendomi la testa infuocata fra le mani,
premendomi il cuore che sembrava scoppiarmi, seduto sul marciapiede di
faccia ai tuoi veroni!... No... io non posso credere che quella donna che
incontravo al passeggio, al braccio di un altro uomo, fra l'ammirazione di
quanti la vedevano, facendo palpitare il mio cuore col fruscio del suo
strascico sulle vie;... che quella donna che vidi al Teatro; che mi passò
da presso senza guardarmi; che seguii come un fanciullo, come un cane;
...che non mi stancai a vedere dalla strada, per due mesi intieri, sotto
la sua casa, ascoltando il minimo rumore che mi venisse da lei, che mi
accennasse la sua presenza facendomi trasalire; ...che quella donna che
proferì quelle parole... quella notte... dal verone; ...che mi torturò il
Cuore colle note strillanti del suo valtzer, quando mi parve che il mio
cuore fosse rotto;... che quella donna ch'io non osavo avvicinare per non
rompere il cerchio luminoso che la circondava d'aureola, per non rapirle
un atomo di quella atmosfera profumata della quale ci circondava, che
faceva il suo prestigio; ...che quella donna che adorai infine come un
pazzo, spaventandomi di adorarla in tal modo, è mia!... mi ama!... mi è
fra le braccia!!... che io posso chiamarla ogni giorno, ad ogni ora, ad
ogni minuto; ...che io ad ogni ora, ad ogni minuto posso udire quella voce
che proferì: <I>Quell'uomo è pazzo</I>: che mi dice che
m'ama!... che io posso ad ogni ora, ad ogni minuto vivere la sua vita e
suggergliela coi baci delle labbra... Oh, no! Narcisa... per credere a ciò
bisogna che noi ritorniamo a Catania, che noi abitiamo quella stessa casa
che io guardai con più venerazione della casa di Dio; che io respiri
l'aria istessa di quelle camere; che mi metta a quel verone, con te, al
posto che occupavi seduta sulla poltrona; e che io ti legga, seduto
accanto alle tue ginocchia, come quell'uomo... Bisogna che mi metta con
te, di notte, a quell'ora, a quel verone; e che tu ripeta quelle parole
infami che io annegherei sulle tue labbra coi miei baci; bisogna che le
tue mani ripetano su quel pianoforte le note di quel valtzer che
m'inseguirono spietatamente quando fuggivo delirante come se fuggissi il
cuore che sanguinava dirotto; bisogna che io mi segga su quel marciapiede,
colla fronte fra le mani, come allora; e che io ascolti lo stormire di
quegli alberi, il suono di quell'orologio, il murmure lontano di quel
mare, il fruscio della tua veste;... e che io vegga il lume che rischiara
la tua camera;... e che la tua voce soprattutto, la tua voce inebbriante,
mi ripeta ad ogni ora, ad ogni minuto, che quello non è un sogno, che io
non son pazzo;... e che le tue labbra, posandosi sulla mia fronte, mi
scaccino questo turbine affannoso che mi sconvolge la mente, che mi fa
dubitare della mia felicità....» «Andiamo a Catania!», mormorò Narcisa,
dandogli un lungo bacio e bagnandogli la fronte di due lagrime di
voluttà.
<B>VIII</B>
<I>Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa. Catania, *** Agosto
186*</I>
Amico mio, apro oggi soltanto le lettere che mi son pervenute da due
mesi per la posta, delle quali alcune tue e di mia madre sono vecchie da
più di 70 giorni. Povera madre! che avrà pensato di me?!... Eppure se ella
avesse potuto conoscere la felicità del figlio suo, se sapesse i godimenti
immensi dei quali mi sono inebbriato, ella sarebbe lieta, quella buona
madre, del lungo silenzio del figlio, che le proverebbe ch'egli ha
dimenticato tutto onde vivere soltanto per questa vita di cui un'ora vale
un secolo, per immergersi tutto in questo sogno febbricitante, in cui i
brividi del piacere sono sì potenti da farlo riscuotere gemendo come di
spasimo. Raimondo, se, 15 mesi fa, quando seguitavamo quella
sconosciuta, della quale cominciavo a subire il fascino inenarrabile, tu
mi avessi detto: «costei, per uno di quei miracoli che provano Dio, avrà
una parola, una sola parola per te»... io non avrei osato lusingarmi di
questa speranza... io avrei temuto di carezzarla. Ed ora, nel momento in
cui ti scrivo, questa donna, che di tutto ciò ch'è leggiadro s'è fatto un
corteggio splendido, questa donna che ha il sorriso ammaliatore, gli
sguardi inebbrianti col loro raggio pacato, le promesse più affascinanti
nel suo voluttuoso abbandono, questa donna mi ama!... me l'ha detto colle
sue labbra posate sulle mie!... Questa donna io l'ho posseduta; io la
possiedo!... <I>È mia!</I>... Quel cuore del quale mi
spaventavo a scandagliare i misteri reconditi, come se gl'immensi tesori
d'amore che vi si racchiudono avessero dovuto annegarmi nei loro diletti
sovrumani, quella vita ch'è tutta un fremito di voluttà, io l'ho sentito
palpitare fra le mie braccia... Essa è vissuta sotto il mio tetto; ha
passeggiato al mio braccio; ...e le sue labbra hanno chiuso i miei occhi
la sera, per riaprirmeli l'indomani!... Io ho baciato quei capelli, quella
fronte, quegli occhi, quelle labbra; io mi son cullata quella testolina
sui miei ginocchi, ed ho passato le intiere notti fantasticando cogli
occhi fissi in quegli occhi, a leggervi tale amore che mai uomo in terra
conoscerà. Raimondo, sai tu cos'è questa donna?... È l'amore con tutti
i suoi palpiti più arcani e misteriosi; è la voluttà con tutti i suoi
sussulti più ardenti; è il delirio con tutti i suoi sogni più febbrili. Io
non arriverò mai a farti immaginare qual fremito di piacere si provi
quando quella mano da fata, colle sue unghie rosee, colle sue dita
affilate, colla sua pelle rasata e candida si posa sulla fronte; e quando
quegli occhi fanno passare nei miei baleni di quest'amore che al primo
urto scintillano come il cozzo di due spade, e che inebbriano come un
veleno. Questa donna che vivea pei piaceri, della quale il lusso era il
bisogno come l'aria è il bisogno dell'uomo, questa donna non esce più
quasi mai; rifiuta tutti gl'inviti; si alza all'alba, per venire ad
appoggiare la sua testa sulla mia spalla, mentre io lavoro; per venire a
spargermi il tavolino di fiori ch'ella ha colti per me... per dirmi di
quelle parole che ella sola sa dire. È una vita straordinaria che noi
facciamo: una vita che c'invidierebbero molti e che molti compiangerebbero
come una pazzia. A Napoli noi uscivamo qualche volta, la sera, verso
mezzanotte, in carrozza, e andavamo a Mergellina per la Riviera di Chiaia.
Io non ti potrei esprimere le sempre nuove sensazioni che costei mi faceva
provare, in quell'ora, seduta accanto a me sui cuscini della
carrozza. Noi lasciavamo il calesse per correre, di notte, come
fanciulli, tenendoci per la mano, sedendoci a terra quando eravamo
stanchi. Il sole ci sorprendeva spesso ancora passeggiando, come nelle
prime ore della notte; e allora noi correvamo a casa per levarci poi alle
cinque. Qualche altra volta uscivamo a cavallo. Narcisa cavalca come
un'amazzone, e noi galoppavamo verso Posillipo. Io mi spaventavo nel
vedere con quale audacia piena di grazia quel fragile corpo che sembra
soltanto armonizzato per le più delicate carezze, quella giovane nervosa
che sembra vivere una vita a metà aerea come quella di una farfalla,
sfidava i pericoli della corsa, superando gli slanci impetuosi di
<I>Arbek</I>, il mio focoso cavallo, con tutta la disinvoltura
di un cavallerizzo. Quando ritornavamo, coi cavalli anelanti e coperti
di spuma, Narcisa si lasciava cadere nelle mie braccia, avvinghiandomi le
sue al collo; ed io la trasportavo, come una bambina, sulla sua poltrona
accanto al pianoforte. La sera facevamo della musica insieme. Ella è di
un gusto squisito, quantunque non possegga tutte le facilità di un
pianista. Quand'ella suona io sto seduto al suo fianco, colle braccia
allacciate attorno alla sua vita; ella s'interrompe per guardarmi, per
sorridermi; ...e quando mi ha guardato un pezzo, com'ella sola sa
guardare, mi chiude gli occhi coi baci. Colle mie mani fra le sue ha
voluto ch'io le narrassi tutta la mia vita, colle più minute
particolarità... Ha sorriso del suo caro sorriso a ciascuna rimembranza
delle mie follie di giovinezza, e mi ha detto: «Giammai tu amerai come hai
amato me!...». E come ebbra del suo trionfo mi ha circondato la testa
delle sue braccia. Ora, da quaranta giorni, noi siamo a Catania, dove
ad ogni passo io provo delle emozioni ineffabili. Spesso rimango delle ore
intiere a contemplare l'oggetto insignificante che mi ricordo aver veduto
quando amavo Narcisa di quel terribile amore senza speranza. Io ho
salito quella scala, ho passeggiato per quelle stanze, ho dormito sotto
quel tetto... ho veduto la sua camera... Qual camera! se la vedessi,
Raimondo!... Un uomo che non avesse mai conosciuto Narcisa ne
immaginerebbe il ritratto fisico e morale quando avesse soltanto veduta la
sua camera. Dappertutto velluti e sete; e, a renderne meno pesante la
ricchezza, meno severo e più diafano il colorito, veli dappertutto, e
fiori, e un profumo appena sensibile, ma molle, delizioso; il profumo
della sua pelle delicata... L'altra notte udii rumore nel suo
appartamento; mi levai anch'io e la trovai al verone istesso dove io la
vedevo qualche volta, cogli occhi fissi sulla strada dove altra volta io
passavo parte delle notti. Mi accorsi che aveva pianto. Come mi vide mi
gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi. «Oh! è l'eccesso
della felicità che mi fa male!», mi disse. E l'alba ci trovò ancora a
quel verone, abbracciati. Raimondo!... Ti svelo un gran mistero del mio
cuore, che Narcisa non dovrebbe mai conoscere. In mezzo a questi deliranti
piaceri, in mezzo a questa felicità che il Paradiso non mi potrebbe mai
dare, ho un pensiero che mi è quasi terrore, che mi agghiaccia il bacio
sulle labbra... e ciò quando penso che a forza d'inebbriarmi a questa
coppa fatata, i sensi dell'uomo, troppo deboli per la piena di tanta
felicità, non si istupidiscano nel godimento;... che io non possa più
assorbire in tutti i più squisiti particolari questa rugiada d'amore di
cui ella mi abbevera;... che, infine, (ho terrore di ripeterlo a me
stesso!) a forza d'immedesimarmi nella vita di lei, a forza di assorbirne
tutte le emanazioni quando me la stringo fra le braccia, io non giunga a
rompere quel velo aereo, direi, di cui Narcisa si circonda, e che comanda
quasi la semioscurità, l'isolamento, per farla meglio ammirare...
Raimondo, se ciò avvenisse, sento che mi farei saltare le
cervella. Quando le parlo del suo passato ella mi risponde,
inebbriandomi del suo sguardo: «Ciò che io rimpiango sono i giorni che
vi ho passato senza di te, e che avrebbero accumulato tesori d'amori e di
ricordi trascorsi al tuo fianco». Io ti ringrazio, amico mio, delle
cure affettuose che prodighi alla mia famiglia. Vicini a te, quei miei
cari, io son tranquillo sul loro stato. Dirai a mia madre che non oso
scriverle; e che qualche giorno correrò sino a Siracusa per farmi
perdonare il mio lungo silenzio fra le sue braccia. Addio, addio! Narcisa
mi chiama; domani forse ti scriverò più a lungo.
Il tuo Pietro
<I>Sig. Raimondo Angiolini - Siracusa. Aci-Castello. ***
Novembre 186*</I>
Signore, Pietro mi ha parlato sì spesso di lei, che il suo nome è
per me quello di un amico. È come a fratello che io scrivo dunque, o
signore... come ad un uomo che è l'amico del mio Pietro... E son sola... e
non ho nessuno a cui aprire il mio cuore, per mezzo di cui far pervenire,
in queste memorie, i miei ultimi ricordi a <I>lui</I>! Qual
vita ho fatta!... Dio! Dio mio!... Mi pareva impazzire dalla felicità;
come ora mi pare impazzire dal dolore, quando penso a quelle ore trascorse
come baleni nelle sue braccia, a quei suoi baci che sembravano divorarmi,
a quelle sue ferventi parole che mi atterrivano quasi colla violenza della
sua passione... a quei sei mesi tutti d'amore di cui noi assorbivamo i
giorni con disperato anelito di piacere... Ed ora... È triste quello
che ho a dirle, signore!... Oh, è ben triste!... Io ho soltanto la forza
di scriverne poiché è il solo conforto che mi rimanga, poiché questi versi
saranno letti da <I>lui</I>... che, allora soltanto...
forse... comprenderà di quale amore l'ho amato...; poiché io, infine, vi
provo un penoso godimento, dopo quello che mi resta soltanto ad
aspettarmi... Se dieci mesi addietro, quando ero a Catania, avessi
potuto sognarmi la vita che ho fatto con questo giovane, io avrei riso di
me come una pazza. Ora piango, signore... piango lagrime disperate, che
cassano le disperate parole che scrivo. A Napoli lo vidi circondato da
quell'aureola che dà la rinomanza dell'ingegno; lo vidi festeggiato, messo
in moda. Pensai che quest'uomo, di cui molte duchesse avrebbero fatto il
loro amante, aveva passato quattro mesi sotto i miei veroni; pensai a
quest'uomo cui l'amore, ch'io gli aveva ispirato, aveva solcato le guancie
ed elevato il cuore sino al genio... e l'amai... l'amai come mai avevo
amato... come non m'era parso che si potrebbe amare
giammai. Quest'uomo, questo giovane ch'io non avevo distinto in mezzo
alla folla che lo circondava, recava nel cuore tesori ineffabili di
passione, in cui assorbiva tutto il mio essere. Quest'uomo per sei mesi,
sei intieri mesi, mi formò una vita di baci e di carezze. Noi non
uscivamo quasi mai. La sera ci recavamo sulla terrazza che guarda il mare
e restavamo là spesso sino a giorno; qualche volta soltanto uscivamo in
carrozza o a cavallo, ma sempre assieme. A Catania noi seguitammo
ancora due mesi questa vita incantata che per me sarebbe rimasta un
mistero senza di lui. E poi... Alcuni giorni dopo Pietro cominciò ad
invitarmi ad uscire... ad andare in società... Mio Dio! mi pareva che
avessi dovuto aver rimorso di quel tempo che bisognava rubare al nostro
amore. Allora egli mi disse che per lui, che dovea farsi un avvenire, era
impossibile seguitare a vivere così ritirato dal mondo, e che
quest'avvenire gli imponeva qualche sacrifizio; che, infine, per quella
sera avea un invito al quale non poteva mancare. Lo pregai di andar
solo, soffocando un penoso sentimento che quasi mi faceva piangere
d'angoscia. Nei primi mesi che noi passammo assieme Pietro non avrebbe
pensato a ciò. Quel fervente amore di lui cominciava dunque a dar luogo ai
calmi pensieri dell'avvenire... Non osai gettare uno sguardo su quel
baratro che si spalancava lentamente ad inghiottire la mia
felicità. Quando venne a stringermi la mano, quando udii il rumore
della sua carrozza che si allontanava, non potei frenare le lagrime, e mi
misi al pianoforte per distrarmi. Mi venne sotto le mani <I>Il
Bacio</I> di Arditi, quel valtzer ch'egli mi fa ripetere sì spesso
marcandone il movimento coi suoi baci sulla mia testa. Quelle note mi
parve che piangessero, e chiusi il pianoforte con impazienza. Lo
aspettai al verone sino a mezzanotte: non veniva ancora. Ebbi timore di
lasciargli scorgere il mio affanno, se mi fossi lasciata trovare
aspettandolo, mi ritirai nel mio appartamento. Presi un libro a caso, ma
non potei leggerlo. Verso le tre udii finalmente la carrozza che
rientrava sotto il portone, e i passi di lui sulla scala. Ma egli non
venne a cercarmi. Divorata dall'impazienza, suonai per domandare di
lui. «Il signore è ritornato»; mi rispose la mia cameriera, «ma è
rientrato quasi subito nelle sue stanze.» Non era venuto almeno, come
faceva ogni sera, a darmi il bacio della buona notte. Ebbi un istante
il pensiero d'andare da lui, ma lo soffocai, colle mie lagrime, fra i
guanciali. L'indomani, prima ancora dell'alba, ero levata, poiché non
avevo dormito un secondo; ed andai ad aspettarlo nel salotto, sperando che
anch'egli vi sarebbe venuto. Egli si alzò soltanto verso le undici, e
immediatamente venne a cercare di me. «Come sei bella, mia Narcisa!»,
esclamò egli abbracciandomi con effusione; «mi pare di amarti dippiù ogni
volta che ti rivedo!» Alzai gli occhi, umidi di lagrime, su di lui,
atterrita dall'idea che quelle parole fossero simulate. No! non era
possibile in lui... nel mio Pietro!... il più nobile cuore ch'io abbia
conosciuto: era il suo sguardo ardente di passione, e la sua voce che
recava l'accento del cuore. Singhiozzante gli gettai le braccia al
collo, come per non lasciarmelo sfuggire mai più, e nascosi la testa nel
suo petto. «Che vuol dire questo pianto?», domandò egli asciugandomi
gli occhi coi baci; «son molto colpevole adunque?» «Oh, no! no!...»,
singhiozzai; «è che... quello che provo vedendoti...» Egli mi
abbracciò, muto, senza rispondere, quasi pentito. Per otto o dieci
giorni non mi lasciò più un minuto. Sentivo che questa felicità
sovrumana mi logorava lentamente, e mi dava ogni giorno forze novelle per
sopportarne la piena. Il giorno che ci fu recato un invito per una
serata che dava C***, Pietro mi disse: «Vi anderò soltanto a condizione
che ci venga anche tu». «Perché piuttosto non uscire assieme, a farci
una delle nostre passeggiate sì belle?!... Sai bene che per me i godimenti
che dà la società, il gran mondo, non hanno più attrattive...», gli
risposi. «Bisogna forzarti; non puoi vivere sempre come vivi. Tu sei un
angelo di bellezza, ed io sono orgoglioso di te; voglio godere del tuo
trionfo.» «Giacché lo vuoi...», gli dissi reprimendo un
sospiro. «Una sera», seguitò egli tenendosi le mie mani fra le sue,
«una di quelle sere in cui ti cercavo come smaniante, avevo perduto la
speranza d'incontrarti; quando vidi passare, al braccio del conte, una
donna vestita di bianco, con un semplice <I>bóurnous</I>
bianco sulle spalle, di cui il cappuccio era tirato sulla testa: avea il
corpo svelto ed elegante, l'andatura molle ed incantevole, il sorriso
affascinante, alcuni ricci neri scappanti dall'orlo del cappuccio bianco
sulla fronte di un candore più puro e direi più rasato. Eri tu!... che
parlavi a quell'uomo, che sorridevi a quell'uomo... che non potevi sapere
quel che provava quell'incognito che ti passò d'accanto senza che te ne
avvedessi. Sentii stringermi il cuore da una mano di ferro... Ti seguii
trepidante, divorando degli occhi il tuo passo, i tuoi movimenti, il tuo
minimo gesto; reprimendo i battiti del mio cuore per udire l'insensibile
fruscio della tua veste... Ti seguii senza speranza che tu ti rivolgessi a
vedermi... Andavi da S***. Ti aspettai in istrada sino alle tre, ora in
cui la tua carrozza venne a prenderti, vedendo passare i fortunati che
andavano a quella festa, che dovevano vederti ed esserti vicini; guardando
la luce abbagliante che scaturiva dai veroni aperti, le allegre coppie che
si aggiravano per le scale; ascoltando il suono di quella musica festante.
Due o tre volte mi sembrò di vedere la tua figura, l'ombra tua, che girava
fra le vorticose coppie di un valtzer... e piansi lagrime ardenti,
disperate;... e passeggiai delirante come un pazzo, sotto quella casa...
Ora voglio che tu ti vesta di quegli abiti, Narcisa; che quel cappuccio
bianco copra i tuoi capelli. Io non posso esprimerti quegli atomi, quelle
percezioni di sensazioni ineffabili che provo in queste reminiscenze;
cercando d'illudermi spesso sino alla realtà del dolore che provai, per
sentire più viva l'ebbrezza della felicità che tu mi dai ora!» E mi
abbracciava, e mi baciava frenetico, ardente. In mezzo a quelle parole
che mi facevano piangere di gioia una frase mi era rimasta fitta
dolorosamente come una spina nel cuore: egli avea detto: <I>Non puoi
vivere sempre come vivi!...</I> Quella vita che avea formato il
mio paradiso, adunque, quella vita che noi non avevamo vissuto che per
amarci, che per comunicarcela l'un l'altro coi baci, non poteva sempre
durare... non era stata che la <I>luna di
miele</I>!... Quando pensai al come vivere un sol giorno senza
tal vita, fremetti di terrore, e corsi a vestirmi per nasconderlo a
lui. Uscimmo a piedi lungo la cinta esterna della città, per godere di
un magnifico lume di luna. Pietro si mostrò sì allegro, sì contento della
nostra felicità, che per qualche tempo riuscì a scacciare anche i miei
tristi presentimenti. Non seppi nascondergli la penosa impressione che mi
avevano lasciato le sue parole: <I>Non puoi vivere sempre come
vivi.</I> «Sì,», mi rispose egli, «i piaceri, le feste, ti sono
necessarii, poiché ti fanno brillare come un diamante messo in luce...
sono necessarii al mio istesso amore per provare quello che provavo
d'indefinibile nel fascino che ti faceva abbagliante fra tutte le pompe
del tuo lusso.» «Queste parole mi fanno male, Pietro!», supplicai
stringendomi contro il petto il suo braccio. «Perché?», domandò egli
sorpreso. «Perché mi provano che tu non potrai amarmi sempre come mi
hai amata, come ormai è necessario che tu mi ami perché io viva!» «Sei
pazza!», esclamò egli, baciandomi sulla bocca. Rimasi fredda, muta a
quel bacio; fissando i miei occhi nella luna per dissimulare ch'erano
umidi di pianto. Le lagrime che solcarono le mie guancie mi
tradirono. «Ma che hai dunque?», esclamò Pietro fermandosi, vivamente
commosso, e abbracciandomi: «che ti ho fatto, Dio mio?!...». «Oh,
perdonami... perdonami!», singhiozzai, premendomi le sue mani sulle
labbra; «son io che son folle!... perdonami, Pietro!... tu puoi farmi
felice con una parola... Mi ami ancora?... mi ami sempre... come mi
amavi?...» Pietro soffocò quelle parole sulle mie labbra coi baci,
suggendo avidamente le mie lagrime. «Oh! che ti ho fatto io per
meritarmi questo?!», mi diss'egli colla voce tremante, dominando a stento
la sua emozione. «Non ti adoro come sei degna di essere adorata?!...
Amarti ancora!... ma ogni giorno che passa è un affetto nuovo che si
aggiunge all'immenso affetto di cui ti amo!...» «Grazie! grazie, amico
mio! Tu non sai qual bene mi facciano queste parole... come io ne avevo
bisogno!... E... e... se qualche giorno.... se mai...», ed io stentavo a
proferire fra i singhiozzi che mi soffocavano, «tu non mi amassi più, tu
non mi amassi come prima, come io voglio essere amata da te... tu me lo
dirai... dammi parola che me lo dirai!... meglio questo che l'agonia
dell'incertezza. Tu non sai mentire, Pietro!... tu me lo
dirai!...» «Narcisa!...» «Oh! fammela questa promessa, Pietro!... tu
puoi farmi felice con questa parola...» «Ma sei pazza... calmati, amor
mio...» «Oh no! te lo chiedo ginocchioni... promettimi... promettimi
che tu mi dirai... che me lo dirai quando non mi amerai più!...» E le mie
ginocchia, senza avvedermene, si piegarono. «Mio Dio! Narcisa... Io non
so quello che tu abbia stasera; ma se ciò può farti piacere, quantunque io
senta tutta l'inutilità di tale promessa... se ciò può servire a
calmarti... ebbene!...io te la do.» «Oh! grazie, grazie!», esclamai
baciandolo in fronte, con un doloroso trasporto; «grazie!... Io sarò più
tranquilla!... potrò almeno godere senza sospetto questi giorni di
felicità che puoi darmi...» «Narcisa!... per pietà!...» «Oh, no...
Pietro! non vedi che son felice, ora?!...» Egli rimase triste e
pensieroso lungo tutta la strada. Io provavo un inenarrabile godimento
nell'appoggiarmi al suo braccio, nel sentire palpitare contro il mio polso
quel cuore che ancora palpitava per me. Tre o quattro volte alzai gli
occhi su quel volto maschio ed energico che adoravo, che divoravo dello
sguardo, come se fossi avara dal bene che possedevo ancora di
saziarmene. «Confessiamo», disse Pietro nel salire le scale della casa
ove andavamo, sorridendo ancora con una lieve tinta di mestizia, come per
scacciare la penosa preoccupazione che ci aveva invaso ambedue,
«confessiamo che siamo pure i gran fanciulli, e che i nostri discorsi sono
stati ben singolari per due innamorati che vanno ad una festa da
ballo.» Respirai più liberamente quando la carrozza ci trasportava
rapidamente verso la nostra abitazione: mi parea d'essermi levato un gran
peso dal cuore col togliermi quella maschera di convenienza che la società
esige, e che, quella sera, in mezzo a quella splendida folla, mi era
sembrata odiosa. L'indomani Pietro si rimise a studiare di lena, come
non l'avevo mai veduto lavorare. Io passavo i giorni nel suo gabinetto di
studio, disegnando o sfogliando i fiori dei quali era sempre piena la
giardiniera che contornava il suo tavolino, e dei quali spargevo le foglie
sulla carta in cui egli scriveva; o, quand'egli lo voleva, andavo al
pianoforte e gli suonavo il pezzo che [mi] domandava. Egli usciva
sempre la sera per darsi un poco di distrazione, che le occupazioni
assidue del giorno gli rendevano necessaria. Qualche volta l'accompagnavo.
Una sera volli rimanere in casa per vedere ciò che avrebbe fatto: uscì
solo. Quattro mesi prima sarebbe stato più avaro del tempo che avrebbe
potuto passarmi vicino. Di tratto in tratto egli si mostrava
preoccupato, quasi triste... sembrava staccarsi con isforzo alle sue
penose meditazioni per prodigarmi ancora quelle sue ferventi carezze, che
mi fanno obliare in un bacio tutti i terrori dell'avvenire. Non potevo
esser gelosa... Alla festa, ove l'accompagnai, avevo veduto le più
eleganti e belle dame sorridergli con quella grazia che dà diritti a
sperare, prodigargli le più obbliganti attenzioni, e l'avevo veduto
rimaner freddo e cortese innanzi a quelle attrattive, cercando avidamente
il mio sguardo e il mio sorriso. Egli è troppo generoso e nobile per
potermi parlare come mi parla e guardarmi come egli lo fa se il rimorso di
un altro affetto lo facesse arrossire. No! il mio Pietro è troppo elevato
per scendere sino alla dissimulazione... egli avrebbe piuttosto la forza
brutale di abbandonarmi. Eppure questa certezza, che per molte sarebbe
una consolazione, per me è il più crudele disinganno, perché mi toglie
persino la speranza dell'avvenire... Quello che scrivo mi scotta le mani,
come mi brucia il cuore... Avrei sempre la speranza di riavere il cuore di
Pietro che si allontanasse da me per un'altra donna, poiché egli dovrebbe,
tosto o tardi, accorgersi che giammai, giammai donna potrà amarlo come
l'amo io, giammai simile amore potrà suggerire alla donna tutti gli
incanti più raffinati per fargli bella la vita, per fargli sentire tutte
le infinite percezioni di questo amore colle pulsazioni violente delle sue
arterie... ma Pietro stanco del mio affetto, di me... Pietro disilluso del
prestigio che mi faceva bella ai suoi occhi... io non l'avrò più!...
mai... mai più!... Dio! Dio mio!... la morte... piuttosto la
morte!... Alcune notti egli è rientrato assai tardi... Ho udito che
raccomandava di non far rumore per non isvegliarmi... come se avessi
potuto dormire, io!... mentre soffocavo i singhiozzi nascosta dietro la
portiera dell'uscio. Oh, egli ha potuto pensarlo ch'io dormissi...
prima che egli fosse ritornato!... È desolante, è spaventevole tutta
questa insensibile gradazione che ogni giorno sempre più assopisce nel suo
cuore tutte quelle sensazioni minime, delicate, squisite, che la passione
suscita e sublima, e che muoiono con essa... È dunque morto il suo
cuore per me... Dio mio?!... No! egli mi ha parlato ancora di quelle
parole, tenendo la mia mano fra le sue, fissandomi sempre del suo sguardo,
che avea tutta l'espressione d'allora... Ma ciò, non è durato sempre!...
sempre!... a dissetarmi di questo bisogno ardente che ne ho!... Quando
gli parlo della sua tristezza, della sua preoccupazione, della sua
freddezza sin'anche, egli si mostra qualche volta come impaziente, e
dissimula appena una lieve tinta del dispetto che prova di non saper
meglio nascondere le sue impressioni, lo leggo chiaramente nel suo cuore:
egli ha ancora la generosità d'imporsi per me un sentimento che non prova,
di nascondermi quelle illusioni perdute che egli si rimprovera come una
colpa sua, colpa che però non ha, di cui il pentimento gli dà la forza di
stordirsi nelle mie carezze sino alla febbrile e quasi ebbra eccitazione
che può scambiarsi coll'esaltazione della passione. Un giorno era
uscito prima ch'io fossi levata, e avea mandato a dirmi che, invitato da
alcuni amici, avrebbe desinato fuori. La sera non era ancora venuto a
vedermi; verso le 9 feci attaccare, impaziente d'attendere più oltre, e
andai a cercarlo dove sapevo trovarsi ogni sera. Feci fermare il legno
dinanzi il Caffè di Sicilia e mandai il piccolo <I>jockey</I>
a cercarlo; egli si alzò subito da un crocchio d'amici, fra i quali era
seduto, e venne a mettersi in carrozza con me. «Ti chiedo mille scuse,
mia cara, della noiosa giornata che ti ho fatto passare», mi diss'egli;
però distinsi nel suo accento una sfumatura d'impazienza. Io gli strinsi
la mano, poiché ero assai commossa, e non risposi. La carrozza
attraversò tutto il corso Vittorio Emanuele e prese la strada d'Ognina.
Fuori l'abitato volli scendere e prendere il braccio di lui. Il calesse ci
seguì ad una cinquantina di passi. Entrambi sentivamo di avere un
penoso discorso da intavolare, che non avevamo il coraggio d'incominciare,
e che perciò ci faceva rimanere in silenzio. Provavo il bisogno però di
parlargli, di aprirgli il mio cuore; per averne la forza pensai alle sere
istesse passate al fianco di lui... sere di cui le rimembranze erano
ancora palpitanti di piacere, e a misura che il mio pensiero le vedeva più
vive, che il mio cuore batteva più forte, che i miei occhi si velavano di
lagrime, io mi stringevo al suo braccio come fuori di me, come se avessi
voluto con quella stretta attaccarmi a quel passato che idolatravo; infine
non potei più frenare i singhiozzi. Pietro si fermò in mezzo alla
strada, commosso profondamente, ma non sorpreso da quella scena che forse
si aspettava. «Che hai dunque, Narcisa», esclamò egli, prendendomi le
mani. «Oh, Pietro!», esclamai infine, «tu non sei lo stesso di
prima!... No! tu non mi ami come prima!...» «Narcisa, tu sei folle coi
tuoi dubbî penosi... Se non ti amassi come prima, potrei fare la vita che
faccio?...» Queste parole, che cercavano di esprimere un pensiero
consolante, erano dure per me; esse parlavano di quella vita che avea
fatto la nostra felicità come di un sagrifizio. «È vero dunque»,
proseguii, «questa vita ti è penosa?!... tu sei stanco di
farla?!...» «Ascoltami, Narcisa!», interruppe egli, stringendomi le
mani, quasi avesse voluto infondermi forza per ascoltare quello che aveva
a dirmi, e raddolcire quanto vi poteva essere di amaro; «non si può sempre
vivere di questa vita che noi abbiamo fatto, che è la mia più dolce
memoria, senza avere delle ricchezze, che io non posseggo, e neanche tu, e
le possedessi, io non potrei accettarle da te; bisogna che io mi faccia
una posizione, che risponda alle aspettative che si sono potute basare sul
mio primo lavoro, che è bello del tuo riflesso soltanto. Per ciò fare
bisogna piegarsi un poco a tutte quelle convenienze che la società esige
rigorosamente. Io ho dimenticato tutto per te, sei intieri mesi: gli
amici, il mio avvenire, gl'impegni assunti; anche una madre che adoravo,
la più buona, la più santa fra le madri, che avea pur diritto all'amore
del figlio suo, e che sei intieri mesi non ha avuto una parola da lui, non
l'ha abbracciato una volta... Oh, credimi, Narcisa... è colla più viva
commozione, colla più profonda riconoscenza anche, che io rammento questi
sei mesi d'amore... Ma perché quest'amore istesso duri con tutti i suoi
incanti bisogna che esso sia assaporato lentamente: in fondo all'ebbrezza
che stordisce si trova presto la disillusione che uccide l'amore... ed io
voglio amarti sempre, mia Narcisa!» Soffocai i miei gemiti col
fazzoletto, e rimasi muta, pietrificata dinanzi a lui che mi stringeva
ancora le mani, e mi fissava quasi avesse voluto leggere nei miei
occhi. Dio mio! quello che soffersi in quel punto, credo che non potrò
soffrirlo mai più... neanche al momento... Quand'ebbi la forza di
parlare gli dissi tristamente, divorando tutta l'estensione del mio dolore
per nasconderglielo: «Se mi amassi ancora, come dici, non avresti mai
proferito ciò...». «Narcisa!», replicò egli, tradendo una viva
impazienza, «non son uso a mentire... mi pare...» «Oh, no! tu non
mentisci... o piuttosto tu vuoi ingannare te stesso, perché hai pietà di
me... Grazie, Pietro!» «Io avrei dovuto parlarti da qualche tempo su
questo proposito», mi diss'egli; «ho temuto sempre di farti dispiacere, ed
ho indugiato. Tentai di lavorare per adempiere in parte agli obblighi
impostimi, ma ti confesso che nulla mi è riuscito... Mia madre mi ha
scritto molte volte le più calde preghiere perché io vada ad
abbracciarla...» Egli avea esitato a proferire l'ultima frase, e l'avea
poscia pronunziata colla precipitazione di colui che prende una
risoluzione decisiva. Mi aggrappai al suo braccio, poiché sentivo le
gambe piegarmisi sotto. «È giusto», mormorai quindi a metà soffocata;
«tua madre, ha ragione!...» Ebbi il coraggio supremo di non piangere.
Egli rimase muto, facendo sforzi visibili per dominare la sua
commozione. «Mi accorderai almeno quindici giorni prima di partire?»,
gli diss'io, gettandogli le braccia al collo, piangendo in
silenzio. «Oh, amor mio!», esclamò Pietro quasi con le lagrime agli
occhi, «non credevo di essermi meritate tali parole!...» «Ebbene!...
fra quindici giorni tu partirai per vedere tua madre!...» Volle
abbracciarmi, come per ringraziarmi del sagrifizio che gli facevo, ma mi
allontanai di un passo, supplicandolo colle mani giunte di non
farlo. Temevo di perdere la forza della mia risoluzione in
quell'abbraccio, al quale mi sentivo spinta violentemente da tutte le
passioni, suscitate sino al parossismo, che tumultuavano in me. Egli
rimase sorpreso e colpito da quell'apparente freddezza, e m'accorsi ch'era
anche indispettito. «Grazie!», mi rispose fremente. E rimase muto...
E non una parola di più... come se avesse temuto ch'io mi pentissi di ciò
che gli avevo accordato. Ripresi il suo braccio per continuare a
passeggiare, mentre non avevo la forza di trascinarmi. Lo guardavo: era
freddo, pensieroso, quasi cupo. «Oh, Pietro!...», gridai quindi
singhiozzante, non sapendo più frenarmi, avvinghiandogli le braccia al
collo; «mi ami?... mi ami come prima?!... Oh, Pietro!... una volta mi
promettesti, mi giurasti... che m'avresti confessato quando tu non mi
avresti amato più... come prima... Pietro!... confessalo che non mi ami
più!...» «Narcisa! te ne supplico... queste parole mi fanno male!»,
m'interruppe egli impallidendo. «Oh, per pietà!... per pietà, Pietro!
Me l'hai promesso... me l'hai giurato!... Sii uomo!... dillo, dillo che
non mi ami più!...» Invece di volere questa conferma al mio doloroso
sospetto, attendevo, con ansia smaniosa, una parola in contrario, che
avesse potuto farmi gettare nelle sue braccia, delirante di passione. Egli
esitò... egli non l'ebbe;... e rimase muto, immobile... come combattuto da
un'interna tempesta... «Non ha dunque cuore quest'uomo!», gridai come
una pazza, dopo avere invano atteso, in una terribile angoscia, col petto
anelante, le mani giunte, le lagrime agli occhi, quella risposta.
<I>Non ha cuore per comprendere quello che si passa nel mio, per
farmi felice anche con una menzogna!</I> avevo detto in quelle
parole. Quelle parole però mi perdettero. Pietro non capì il vero
senso appassionato, addolorato, ansioso, che dava loro il mio cuore in
quello stato, proferendole; egli capì soltanto tutto quello che vi è di
duro, di sprezzante, d'insultante anche - sì, d'insultante - in queste
parole prese alla lettera, che parevano dire: <I>Siete un
vile!</I> mentre avevano detto: <I>Non avete pietà di
me?</I> Egli si levò pallido, coll'occhio, un momento innanzi
umido di lagrime, asciutto e quasi fosco, coi lineamenti duri e severi;
egli... quest'uomo! ebbe la forza di dirmi colla sua voce più calda ed
incisiva: «È forse meglio che ci separiamo, Narcisa». Ebbi paura di
lui. Non potrei mai riprodurre tutto quello che vi era di lacerante in
quelle fredde parole che soffocavano in lui il risentimento, che fa
supporre pur sempre l'amore, per esprimere la calma ed inflessibile
decisione della mente. Mi sentivo morire, e caddi annichilata sul
muricciolo accanto alla strada; Pietro mi diede il braccio, mi sollevò, e
mi strascinò quasi sino alla carrozza. Là, inginocchiata sul tappeto,
col volto nascosto fra i cuscini, piansi lagrime ardenti,
disperate. Ora che ci penso a mente più serena, io non risento tutto il
pentimento di quelle parole, delle quali gli chiesi perdono a mani giunte,
colle espressioni più umili, e che mi parvero aver deciso la mia condanna;
se Pietro mi avesse amato ancora, egli non avrebbe dato la significazione
letterale a quelle parole;... se il suo cuore non fosse stato morto per
me, egli non avrebbe potuto prendere quella risoluzione. Era finita
dunque per me!... <I>per sempre!</I>... ed io, folle!...
folle!... gli chiedevo ancora quella franca confessione che mi ero fatta
promettere in un delirio d'amore, come se le parole avessero potuto
illudermi, quando tutto parlava in lui chiaramente. Passai una notte
d'inferno, lacerando coi denti il merletto dei guanciali inzuppati di
lagrime. Quando il chiarore incerto che penetrava dalle tende del
verone cominciò ad oscurare il globo d'alabastro della lampada da notte,
mi alzai, ancora vestita degli abiti che indossavo la sera scorsa...
Esitai un istante prima di tirare il cordone del campanello: volevo
illudermi ancora su tutta l'estensione della mia sventura. «È alzato il
signore?», domandai alla cameriera che veniva a prendere i miei
ordini. «Anzi Giuseppe, il suo cameriere, crede che non sia nemmeno
andato a letto; poiché l'ha udito passeggiare tutta la notte.» Fui
commossa profondamente; dunque anch'egli avea provato tutta la lotta di
quella disperata passione! Mi acconciai allo specchio, con triste
civetteria; non volevo accrescere il suo dolore colle tracce del mio;
volevo attaccarmi a lui con tutte le risorse di quell'eleganza che egli
avea tanto ammirato in me; e passai nelle sue stanze. Lo trovai che
scriveva, seduto al tavolino nella sua stanza da studio, con un lume
ancora acceso dinanzi, sebbene morente. Oh, signor Raimondo, mi perdoni
questi dettagli, sui quali insisto con il doloroso piacere che si prova a
ritornare sui particolari di care e malinconiche rimembranze. I fiori
che ornavano ogni mattina la giardiniera, situata a semicerchio attorno al
suo tavolino, quei fiori fra i quali egli s'immergeva, direi, quando si
metteva a scrivere, e che avvolgevano i suoi sensi in un vapore di colori
e di profumi, e suscitavano mille indefinite percezioni nella sua mente;
quei fiori dei quali egli avea detto di aver bisogno come dell'aria per
lavorare e per pensare a me, erano appassiti; le tende delle finestre
chiuse, sicché eravi quasi buio nella stanza; attraverso l'uscio aperto
della sua camera da dormire vidi il letto scomposto, colle lenzuola
lacerate e cadenti a terra, ed un cuscino sul tappeto, accanto ad una
poltrona rovesciata. Pietro mi voltava le spalle, colla testa
appoggiata fra le mani; avea dinanzi un monte di quaderni e di fogli di
carta, dei quali alcuni lacerati; sul foglio che gli stava sotto la mano
era scritta l'intestazione di una lettera e tre o quattro versi
cancellati. Egli non mi udì avvicinare, e si riscosse bruscamente quando
mi vide vicino a lui. Poscia si alzò e venne a stringermi la mano,
sorridendo tristamente. «Volevo venire a farmi perdonare le mie
cattiverie di ieri sera... però non potevo supporti alzata a
quest'ora.» «Non ho dormito, Pietro...», gli risposi colle lagrime agli
occhi. Egli volse i suoi in giro per l'appartamento, quasi avesse
voluto nasconderne il disordine; li abbassò, e rimase muto. Non avea
voluto confessarmi che ancor esso avea sofferto; sentii stringermi il
cuore dolorosamente. Venni ad appoggiarmi alla sua spalla, come nei bei
giorni in cui sentivo un brivido percorrerlo allo sfiorargli il volto coi
miei capelli, e lo guardai in silenzio, spalancando gli occhi per
dissimularne le lagrime. Vidi lo sforzo ch'egli faceva per contenersi,
baciandomi sulle labbra; ma quel bacio commosso non aveva il febbrile
trasporto di una volta, che gli avrebbe fatto stringere il mio corpo fra
le sue braccia fino a soffocarmi... Fu solo... quasi triste... «Tu
scrivi?», gli diss'io con un coraggio di cui non mi sarei creduta mai
capace. Come colto in fallo egli abbassò gli occhi sulle carte che gli
stavano ammonticchiate dinanzi alla rinfusa, e rispose con un cenno del
capo, quasi avesse dubitato di avere la mia forza. «Scrivi a tua madre,
Pietro?... Le hai detto che fra quindici giorni sarai da
lei?...» Questa volta egli non rispose e si recò la mia mano alle
labbra. Mi portai l'altra al cuore, per comprimere i battiti, dei quali
il rumore mi spaventava. Oh, signor Raimondo... un uomo di ferro
avrebbe avuto pietà di quest'agonia straziante, che mi affascinava però
colla forza stessa del dolore, che mi strascinava a misurare tutta
l'estensione della mia disgrazia... Pietro!... <I>egli!</I>...
non ebbe pietà di quest'agonia, che pure avrebbe dovuto indovinare dalla
calma disperata del mio accento, dal tremito convulso delle mie braccia,
che si appoggiavano alla sua spalla, dalla terribile tensione del dolore
che inaridiva le lagrime sulla mia orbita... Egli non ebbe una parola...
una sola!... o piuttosto non ne ebbe la forza... Egli rimase colle labbra
fredde e tremanti sulla mia mano, che recava quella percezione al cuore
come una stilettata, cercandovi forse la forza di rispondermi. Un
impeto cieco, disperato mi spingeva. «Son venuta a chiederti una grazia
Pietro», gli dissi; «questi ultimi quindici giorni che hai avuto la bontà
di concedermi... io... io vorrei passarli in Aci-Castello... su quella
bella spiaggia che visitammo sì spesso nelle nostre passeggiate
notturne... Siamo ai 28 di Ottobre, il 13 di Novembre
partirai.» Speravo ch'egli, soffocandomi dei suoi baci, avesse
annullata la sua risoluzione della sera... Non fu nulla di ciò... «Oggi
stesso manderò Giuseppe ad affittarvi un casino»: mi rispose stringendomi
le mani e figgendomi gli occhi in volto, come cercandovi la spiegazione di
quel desiderio; «e domani partiremo. Vuoi che usciamo assieme
oggi?» Quella domanda fu il mio colpo di grazia: quando egli mi amava
come un pazzo mi avrebbe pregata di non uscire; in appresso non mi avrebbe
fatto quella domanda poiché non si sarebbe potuto supporre che l'uno di
noi potesse uscir solo... negli ultimi giorni mi amava ancora abbastanza
per non propormi una passeggiata come un compenso, come per ringraziarmi
del sacrifizio che gli facevo, ciò che equivaleva a dichiararmela una
compiacenza, come avea fatto in quel momento. Mi voltai a cogliere un
fiore da un vaso di porcellana per recare il fazzoletto alla bocca... Mi
sentivo soffocare... Ebbi appena la forza di mormorargli: «No... no...
grazie... Non uscirò tutta la giornata...». Io stessa non udii il suono
di quelle parole... Forse neanche egli le avrà udite... Uscii barcollando,
operando uno sforzo supremo per dominare il mio dolore immenso,
aggrappandomi alle tende che incontravo per non cadere... Nel mio salotto
caddi su di una <I>duchesse</I>, annichilata. Pietro passò
al mio fianco tutto il giorno. Mi faceva una pena orribile a vedere gli
sforzi che faceva per contenere la sua commozione, per combattere la lotta
che ferveva in lui, per mantenersi saldo nella risoluzione che parea
essersi fissata, e che quei momenti avevano fatto ondeggiare in lui...
Egli fu amoroso con me, come si può esserlo sino ai limiti della
commozione, senza il trasporto però della passione, di quell'amore caldo,
cieco, irresistibile, quale egli me l'avea fatto provare, quale ormai
m'era necessario per vivere, quale avrebbemi fatto dimenticare, almeno per
un'ora, in un bacio, tutta l'estensione dell'immensa sventura che mi
percuoteva. Egli non ebbe una parola, non una sola parola che alludesse
alla nostra separazione; ma neanche un'altra che la facesse mettere in
dubbio. Un momento mi parve cattivo e spietato quell'uomo che non mi
amava più. Poi gli baciai le mani, delirante, piangendo a calde
lagrime; gli avvinghiai le braccia al collo e lo soffocai quasi fra le mie
lagrime e i miei baci, come se avessi voluto farmi perdonare la triste
impressione di quel momento. Giammai! giammai io ho amato Pietro di
quest'amore immenso, frenetico, divorante di cui l'ho amato in quel
punto... L'indomani partimmo per Aci-Castello. No! se anche
scrivessi questi versi col sangue che tale tortura ha stillato dal mio
cuore, io non potrei arrivare a descrivere tutto lo strazio ineffabile di
quest'agonia immensa che è durata 15 giorni; in cui ho dovuto divorare le
mie lagrime, soffocare gli urli disperati del mio cuore, perché
m'impedivano di vedere, di sentire come ogni ora di più il cuore di lui
s'allontanasse dal mio; come quelle sensazioni impercettibili, che
formavano l'amore sovrumano di cui quest'uomo mi adorava, andassero
morendo in lui... Io non potrò esprimere quello che ho provato di orribile
in tutta l'intensità del dolore, quando, con la terribile lucidità che mi
dà la mia angoscia, ho letto chiaramente in quel cuore... troppo
chiaramente, per mia sventura!... la sorpresa, la tristezza di lui, direi
anche il rimorso delle perdute illusioni del suo amore di un tempo che
cerca invano... Io l'ho veduto, quell'uomo, quel cuore, chiudere gli
occhi, immergersi nel vortice delle più tempestose carezze, soffocarmi coi
più febbrili trasporti... frenetico... furibondo quasi, cercando quelle
illusioni che avea adorato in me... e nulla!!... nulla!!... e staccarsene
pallido, annichilato... quasi piangendo come un fanciullo, guardandosi
attorno come smemorato, come cercando ancora quelle sensazioni che non sa
più trovare in me... e che io!!!... disgraziata!!... io non posso più
dargli!!... Oh, signore! nessuno!... no! nessuno potrà mai arrivare a
comprendere la sublime agonia di quell'istante! Dio!... Dio mio!... se
impazzissi! No! Dio non è giusto! No! Dio non ha pietà di questo dolore
sovrumano! Pietro è triste, malinconico ogni giorno di più; la pietà
istessa che risente di me, di quest'amore di cui l'amo, ch'egli comprende,
e del quale non può contraccambiarmi, malgrado tutti i suoi sforzi
generosi, questa pietà lo distacca da me, lo fa fuggire, come se temesse
di trovare un rimorso nei miei occhi, che, Dio sa con qual coraggio, gli
nascondono quello che si passa in me. Egli è sdegnato contro se stesso e
dolente della simulazione che deve imporsi per compassione di me, delle
menzogne che deve giurarmi col volto cosperso del rossore della vergogna.
La notte lo sento passeggiare spesso sino all'alba, ora in cui parte per
la caccia, e non ritorna che a sera, stanco, spossato, come se avesse
voluto nella stanchezza dei sensi addormentare il rimorso del suo amore
perduto, e trovarvi una pace che la tempesta delle sue passioni non gli
accorda giammai. Eppure, dopo queste corse che hanno gonfiato i suoi
piedi, che hanno logorato le sue forze sino alla prostrazione, egli non
trova sonno nel letto... egli si stanca ancora a passeggiare per la sua
camera... Qualche volta ho trovato l'indomani il suo fazzoletto e i
suoi guanciali umidi: al sapore acre ho conosciuto che erano
lagrime... Lui! questo carattere orgoglioso e forte, quest'uomo di
ferro... ha pianto!... ha pianto di dolore, di rimorso, di rabbia, per
quest'amore che gli sfugge, che vorrebbe imporsi. No!... tale martirio
non può durare per entrambi... Io sarò forte!... sì, quest'amore istesso
me ne darà la forza. Morire, mio Dio! morire nelle sue braccia
almeno... addormentata dalle sue carezze!... Abbiamo passato 13 giorni
su questa spiaggia che mi sembra deliziosa, malgrado le ore crudeli che vi
ho provate. Si dice che il dolore rende fosche le tinte più brillanti del
luogo ove si prova... Anch'io ho sentito ciò altravolta; ma qui, in questi
ultimi giorni, questi luoghi io li ho amati nei loro minimi particolari;
forse perché mi è caro anche il dolore di quest'agonia che posso provare
vicino a lui. Nel momento in cui scrivo per parlare di lui, per
illudermi con lui... sola, di notte, nella mia camera da letto... vedo,
attraverso le tende della mia finestra aperta, sbattute dal vento
tempestoso di questi ultimi giorni d'autunno che spoglia gli alberi delle
foglie, la massa antica, imponente, severamente e grandemente poetica del
vecchio e rovinoso castello che pende da una balza sul mare; coi suoi muri
massicci e screpolati, sui quali stridono i gufi in mezzo alle ginestre
che vi germogliano, che disegnano la loro massa bruna su questo cielo
trasparente ove risplende la più bella luna del mondo; con questo mare
immenso, lucido, che da questa lontananza sembra calmo e lievemente
increspato, e che muggisce colla sua voce potente fra i precipizii
dell'abisso che circonda le fondamenta del castello. L'altro giorno
volli vedere questo castello a metà distrutto, su cui sembra talvolta
vedere ancora passeggiare le scolte luccicanti di ferro fra i merli dei
torrioni; che mi fa vivere in mezzo agli uomini d'una volta che l'hanno
abitato, coi vivi ricordi che tramanda e che sembrano infondersi
incancellabilmente alla sua vista. Pietro volle dissuadermene, dicendo che
la strada per giungervi era molto pericolosa per una donna. «Non sarai
tu con me?», gli dissi, come se mi fosse stato impossibile un accidente
vicino a lui, o come se quest'infortunio avessi dovuto amarlo dividendolo
con lui. Egli... costui, cui l'amore avea dato squisite percezioni, cui
avea fatto oprare un miracolo di genio e di sentimento nel suo dramma,
capì appena tutto il senso di quelle parole. Mi diede il braccio, come
per nascondermi il suo imbarazzo, e mi accompagnò alla salita che precede
l'ingresso della rocca. I muri della torre principale che guardano il
paesetto sembrano di un'altezza smisurata, guardati dal basso, in quel
punto, elevati come sono su di un immenso scoglio che dalla parte del
mezzogiorno sospende le sue torri sul mare. Due tavoloni di querce sono
gettati su di un arco in rovina per traversare l'abisso orribile che si
stende al di sotto, in fondo al quale mormora il mare in un sordo rumore,
e che fa venire le vertigini al solo guardarlo. Pietro passò innanzi e
mi porse la mano raccomandandomi di non guardare il precipizio per non
avere la vertigine; all'incontro io provavo un'affascinante sensazione nel
mirare quella gola oscura, a quasi duecento piedi sotto di noi, ove, fra
le acute punte degli scogli, biancheggiava la spuma minuta delle onde
rotte e imprigionate nella caverna, su cui l'assito che ci sosteneva si
piegava sotto il peso dei nostri corpi scricchiolando. «Se cadessimo
qui, abbracciati!», esclamai io quasi involontariamente, stringendo la
mano di Pietro che mi guidava. Mi pareva più dolce quella morte, e
preferibile alle torture che provavo, e che supponevo anche in
lui. «Quale pazzia!», mormorò egli stringendo il mio braccio, come per
prevenire l'effetto di un capogiro, e accelerando il passo, che avea reso
ardito e sicuro, quasi per garentire la mia vita ch'eragli
sospesa. Egli non ha detto: <I>Che cara pazzia!</I>... Ha
detto semplicemente: <I>Quale pazzia!</I>... Ho veduto
dalla sommità di quelle torri questo mare azzurro che si confonde con il
ceruleo dell'orizzonte, che si stende nella sua grande immobilità in
lontananza e freme e spumeggia ai miei piedi; ho veduto quelle barche che
sembravano giocattoli da quell'altezza, quel litorale sparso di ville e di
paesetti, e Catania... Catania ove Pietro mi aveva tanto amato.... Vi
fissai un lungo sguardo, non avvertendo le lagrime che bagnavano le mie
guance. «Che guardi?», mi domandò egli, come se mi avesse domandato:
Perché piangi? «Catania!», risposi colla voce ancora tremante. Egli
sentì forse tutto quanto vi era di passione e di rimembranze in quella
parola; e lo provò anch'egli fors'anche in quel momento, poiché soggiunse,
come cedendo ad una generosa risoluzione: «Vuoi che ritorniamo a
Catania?». Non risposi e restai cogli occhi umidi e fissi sul golfo in
fondo al quale biancheggiavano le cupole che indicavano la città,
appoggiandomi al braccio di lui. Sentivo quanto vi era di nobile
sacrifizio in quella proposta; ciò ch'escludeva l'amore, ch'era quello che
mi bisognava. «Dov'è Siracusa?», domandai poscia, come non
accorgendomene, cedendo ad un intimo impulso. Pietro mi additò un punto
tra mezzogiorno e ponente, dietro il Capo Passero che si vedeva
distintamente, ove dovea essere il suo paese natale. «Perché non mi
conduci a Siracusa piuttosto?», gli dissi gettandogli le braccia al collo,
singhiozzando e fissando nei suoi i miei occhi brillanti di lagrime. Egli
abbassò gli occhi, baciandomi le mani, e rispose, dopo avere esitato un
istante: «Se lo vuoi...». «No! io non lo voglio... Ciò che io voglio
è il tuo amore! il tuo amore sfrenato, ardente, quale lo sentivi per me,
quale cerchi ancora come smanioso e non sai più trovare, quale io spero
qualche volta illudendomi, e tento tutte le occasioni per travedere in
te... e non m'accorgo, pazza, disgraziata ch'io sono, che tu non lo
trovi... che tu hai la generosità, la nobiltà di fingerlo meco; ciò di cui
senti rimorso;... e che tutto... tutto!... perfino le tue carezze, perfino
i tuoi sacrifizii mi dimostrano che tu non senti più per
me...» «Partiamo!», soggiunsi poco dopo strascinandolo pel braccio,
soffocando l'emozione che sentivo prorompere nell'eccitazione della corsa,
poiché mi sentivo morire. L'ultimo raggio di sole rischiarava ancora i
merli della più alta torre, e nell'abisso che dovevamo traversare era buio
profondo; e gli echi ne erano mugghianti; e gli sprazzi di spuma
biancheggiavano come giganteschi fantasmi. Un momento mi sembrò che
l'immenso fascino di quello spaventevole abisso attraesse l'abisso
doloroso del mio cuore; che quei bianchi fantasmi mi stendessero le
braccia come a prepararmi un letto eterno che dovesse accogliermi assieme
all'uomo che adoravo tanto più freneticamente quanto più lo vedevo
allontanarsi da me... Un momento il mio piede si stese sul precipizio e la
mia mano strinse più forte la sua per allacciarlo in un modo che nulla
sarebbe valso a rapirmelo mai più... «No! no!», gridò il mio cuore
gemente, «no!... ch'egli viva! ch'egli sia felice!... io non potrò mai
essergli grata abbastanza dei giorni che mi ha dato, dei sacrifizii che ha
avuto la bontà d'imporsi per me!... Ch'egli sia felice... anche con
un'altra!...» <I>Un'altra!</I>... Ecco quell'idea
terribile, sanguinosa, che mi ha attraversato il cuore come un ferro
infuocato, e alla quale non avrei forse saputo resistere se ci avessi
prima pensato... Mi avvidi, quasi con gioia, come se fossi stata
salvata da un immenso pericolo, che camminavamo sul selciato della
strada. Una o due volte, in quella notte agitata e febbrile passata al
davanzale della mia finestra, ho avuto dei momenti di speranza,
d'illusione... speranza tale che mi faceva mettere dei gridi di gioia, che
mi faceva comprimere le tempie fra le mani, quasi le arterie che battevano
di felicità minacciassero di sconvolgermi la ragione... Egli mi avea
proposto di accompagnarmi a Catania!... egli aveva avuto forse un istante
d'amore per me!... dell'amore di una volta!... Oh! Dio! Dio!... morire
almeno in tal momento!... Ieri volli uscire con lui; volli fare una
passeggiata in barca. Egli prese i remi, ed entrambi, soli, ci cullammo
nella piccola barchetta da pescatori su quelle onde azzurre come il
cielo. Quand'egli è solo, pensieroso, vicino a me... provo un momento
di dubbio, d'incertezza... Mi pare di sperare, mi pare di averlo mio!
tutto mio!... e che nulla abbia potenza di strapparlo all'amplesso
frenetico delle mie braccia. Appena fummo al largo egli lasciò i remi e
venne a prendere la mia mano. Lo guardai come non l'avevo mai guardato:
sentivo che non potevo amarlo più di quanto io l'amavo in quel momento; mi
pareva impossibile ch'egli dovesse lasciarmi il dopodomani. Egli
baciava le mie mani, e sostava per guardarle in silenzio, come se avesse
temuto di alzare gli occhi nei miei, e per tornare a baciarle... Le sentii
umide delle sue lagrime. «Pietro!», esclamai palpitante di una sublime
emozione, mentre tutti i pori del mio cuore si dilatavano ad assorbire le
inebbrianti emanazioni di una lusinghiera speranza: «ieri ti pregai di
condurmi a Siracusa... con te...». Egli non poté più frenare il pianto,
e scosse la testa tristamente. «Impossibile!», mormorò con un soffio
appena intelligibile. «Impossibile?...», ripetei radunando tutte le
forze di cui mi sentivo capace; «e perché, Pietro?!...» «Oh! grazia!
grazia, Narcisa!», singhiozzò egli stringendomi fra le sue braccia,
nascondendo la sua testa nel mio petto; «grazia!... io sono molto
vile!!...» Era orribile a vedersi l'angoscia disperata di quel volto
energico, l'annichilamento completo di quel carattere di bronzo. «Sì,
io sono vile! io son colpevole! io sono infame!...», seguitò con voce
delirante: «oh! grazia, Narcisa!...». L'amavo tanto che non sentii
tutto lo spasimo sublime che quelle parole mi facevano provare: ebbi
soltanto pietà di lui. Lo abbracciai, piangendo anch'io, tremando
convulsivamente del suo tremito, mischiando le mie labbra alle
sue. «Dillo! Pietro... dillo!», gridai con disperato sforzo di volontà,
«tu non mi ami più!... tu non mi ami più come prima!». Egli rimase
abbattuto, in silenzio, sulla panchetta della barca. Quel silenzio durò
cinque minuti. Quando risollevò il volto fui atterrita dallo
spaventevole pallore che copriva i suoi lineamenti solcati
profondamente. «Ascoltami, Narcisa!», cominciò egli con voce solenne,
quasi calma: «io ho un sacro dovere di gratitudine verso di te... dovere
che mi fanno caro le reminiscenze che non potrò dimenticare giammai, e che
formano ora il mio inferno... Eppure, te lo giuro sul mio onore, io non mi
trovo colpevole... no!... che soltanto queste reminiscenze mi restino ora
vicino a te... Tu hai il diritto di disporre di me, in tutto... Io
sacrificherò al dovere quello che avrei sacrificato all'amore, e farò
quanto è possibile all'uomo per renderti la tua felicità. Ho tanto provato
di sì immenso nella voluttà del godimento, nel delirio dell'esser felice,
che forse all'uomo non è concesso di godere... e Dio mi punisce, col
soffiare su tutte quelle sensazioni che formavano il mio amore... che
cerco invano da due mesi... e spegnerle per me. Nel tremito ardente delle
tue labbra, sul tepore della tua pelle rosata, nelle nervose e convulse
pressioni delle tue braccia, nel delirio fervente delle tue carezze, ho
cercato invano un atomo, un atomo solo, di quello che provavo d'arcano,
d'indefinibile, di più che terreno, quando, seduto sul lastrico della
strada, ti vedevo al verone, ciò che formava il delirio dei miei sogni;
che nei primi trasporti del possederti, quando mi pareva di divenire folle
per la felicità dell'amor tuo, io provai sino a quel parossismo del
godimento che ci annienta, direi, nel godimento istesso, e che ci lascia
sbalorditi della sua estensione. Io ho cercato invano questo profumo,
questo vapore che ti circondava d'incenso come gli angeli, e in cui non
osavo immergermi per timore di perdervi la ragione o di perdervi
l'illusione... È duro, è crudele quello che dico... ma tu hai mente per
apprezzarlo e cuore per perdonarmelo... come mi hai perdonato tutto quello
che ti ho fatto soffrire da due mesi, che mi sono rimproverato, e di cui
il rimorso mi lacera... Quello che io piango, Narcisa, è l'amore che ho
provato e che non posso più trovare... che cerco assetato per
inebbriarmene, poiché la sete che ne ho è ardente, divoratrice, e che mi
fugge sempre dinanzi come un fuoco fatuo... Io avrei paura, rimanendoti
più a lungo vicino, che la stanchezza dell'animo non vincesse anche il
desiderio ineffabile che ho di questo amore... e che tutto questo tesoro
di diletti che trovasi in te, di cui m'abbeverai forse sino all'ebbrietà,
non vada perduto dell'intutto per me! Oh! io ho paura di ciò, Narcisa!...
poiché la speranza di riamarti un giorno come ti ho amato m'impedisce che
mi bruci le cervella, non avendo più nulla a godere sulla terra. Bisogna
ch'io mi allontani da te per qualche tempo, ch'io torni a dubitare della
felicità che ho goduto... ch'io dubiti della speranza fin anche di questa
felicità, per esser pazzo di te come lo ero quando passavo le notti
innanzi la tua casa senza sperare un'occhiata da te... bisogna che io ti
vegga ancora lontana da me, in mezzo alle pompe del tuo lusso, all'incanto
delle tue seduzioni, per cercarti ansioso, cieco, folle, come allora; e
stendere le braccia, delirante, invocando un altro sorso di questa coppa
fatata... a cui fui tanto stolto da bere troppo...». Egli non poté più
proseguire, soffocato dalla violenza della sua commozione, tenendosi il
petto colle mani increspate da una violenza contrazione, inginocchiato ai
miei piedi, coll'occhio luccicante di una fosca luce sul pallore quasi
tetro del suo volto, coi capelli irti sulla fronte madida di freddo
sudore. Quest'addio che quel cuore mi dava era grande, era sublime,
come l'amore di cui m'aveva amato. Lo sollevai fra le mie braccia; lo
baciai in fronte, sentendomi ancor io fredda di sudore ghiacciato,
provando una forte risoluzione che quelle parole infondevanmi, la quale
correva al cuore, quasi con gli smarrimenti di una vertigine, insieme al
sangue che da tutte le vene vi affluiva. «Addio dunque!», gli dissi con
una calma nella voce della quale io stessa ero atterrita: «Addio,
Pietro!...». Egli cercò le mie labbra colle sue, fredde, tremanti
d'angoscia e di voluttà. «Addio!...», gli mormorarono ancora le mie
labbra palpitanti nelle sue - E svenni fra le sue braccia.
<I>11 Novembre</I>
Posdomani egli deve partire. Ho numerato minuto per minuto queste
ultime ore che io ho passato vicino a lui... cercando illudermi spesso per
sentirne poi più amaramente tutta la disperazione del disinganno. No!
lo sento... il suo cuore non può più rinascere per me! Egli tenta
lusingarsi nelle sue speranze... o piuttosto ha pietà di quello che
soffro... Quand'egli partirà!... Dio! Dio!... Quando non udrò più la
sua voce, il rumore dei suoi passi...; quando non lo vedrò più e non
l'attenderò più la sera, affacciata alla finestra!... Oh! no!... no!...
è meglio <I>prima... prima ch'ei parta</I>... Riprenderò
questa lettera all'ultimo istante, per farla poi mettere alla Posta a
catania... Domani egli aspetta il suo amico, forse lei stesso, che deve
venire a prenderlo... in tal caso sarebbe forse meglio... L'ora non può
essere molto lontana: egli parte dopodomani... Ho peccato! e Dio mi
punisce col mio peccato!
<I>12 Novembre</I>
L'inverno è sopravvenuto troppo improvvisamente per queste contrade...
Dio mio! Ho avuto paura di questo mare burrascoso, di questi nuvoloni che
fanno nero e triste il cielo, di questo vento che strappa le ultime foglie
dagli alberi... Sì, ho paura di questa natura, pochi giorni fa ancora
tanto ridente, e che sembra fuggirmi con la vita... Ho pianto molto...
sì a lungo che ora sono stanca di piangere. Gli occhi mi bruciano; mi
sembra che il petto si rompa... Dio! Dio mio! Pietro mi sfugge, teme
d'incontrarsi con me... Che gli ho fatto?... Dio mio! che gli ho
fatto?!...
<I>12 Novembre - ore 10 di sera</I>
Dio! Dio! Pietà! pietà! Son pazza, Dio mio! Mi pare di perdere la
ragione!... mi pare di morire! Ho urlato come una tigre; ho lacerato
coi denti le lenzuola, le vesti, il fazzoletto; mi son rotte le membra
urtando contro i mobili come ebbra... Oh, no! no! Dio non è giusto! Dio
è crudele!... Quale tortura! quale tortura orrenda!... Dio! Dio
mio!... L'ho udito! sì, la sua voce!... la sua voce istessa... che
ordinava i cavalli per domani... Oh, quest'uomo!...
quest'uomo!... Ma io l'amo!... ma io l'adoro... com'egli si
spaventerebbe a provarlo, se lo potesse, quest'uomo che mi sfugge!... che
ha il cuore morto per me!... Che fare?... che fare, Dio mio?!... Se
fossi pazza?!... se impazzissi?!... Dio!!!... No! Dio non può punirmi
del mio delitto... No! Dio non può punirmi dell'opera sua... perché...
perché io son debole... perché io son vile dinanzi all'estensione di
questo dolore sovrumano che mi si apre dinanzi... perché io, da Lui che mi
percuote, voglio il sonno... l'oblìo almeno!... Dio! Dio!... pietà!
pietà!... grazia!!!...
<B>IX</B>
Un'ora del mattino suonava lentamente all'orologio del salotto nel
grazioso casino che abitavano i due giovani. Narcisa, pallida del suo
delicato pallore di cera, coll'occhio brillante di un inusitato splendore
che avea dei lampi di felicità, vestita di bianco, il suo colore favorito,
sebbene la stagione fosse alquanto inoltrata, coi capelli raccolti
mollemente dentro una reticella di seta ed arricciantisi sulla fronte
quasi sino alle sopra[c]ciglia, con quella moda ardita che ricordava le
più belle teste delle statue greche, stava seduta abbandonatamente sopra
un canapè, accanto a Pietro, nella sua attitudine solita, allacciandogli
il collo con le sue belle braccia, figgendo avidamente gli occhi negli
occhi di lui, ascoltando le sue parole; e sembrava deliziarsi nella
trasparente e profumata atmosfera che le mille sensazioni di quel momento
le creavano. Giammai la donna amante avea sussultato di tale amore fra
le braccia dell'uomo amato; giammai la sirena si era abbandonata più
molle, più languente; giammai la maliarda avea avuto sguardo più
inebbriante da fare oscillare convulsivamente le più intime fibre del
cuore di lui. Sembrava che qualche cosa di più che mortale eccitasse in
lei tutte le più squisite risorse, le ispirazioni più ardenti della donna
affascinante, della donna ebbra anch'essa di questa voluttà che ispirava e
che cercava, per formarne un fascino irresistibile, divorante. L'occhio
di Pietro era raggiante; la sua parola interrotta a scosse come per
delirio; le sue membra tremanti di sovrumano diletto. Egli suggeva
avidamente coi baci per la fronte, pei capelli, per le labbra, per gli
occhi, pel collo quelle emanazioni acri e violente di una voluttà
insaziabile, che eccitava il godimento sino al delirio... «Oh! Narcisa!
Narcisa!», esclamava egli come un pazzo, «Narcisa di Napoli... di
Catania!... t'ho trovata alfine! sì, t'ho trovata!!...» Tutt'a un
tratto quel corpo affascinante di mille seduzioni ebbe un fremito che non
seppe reprimere, e quasi una dolorosa contrazione. Pietro l'abbracciò
più strettamente, come ebbro... poiché lo scambiò per un fremito di
piacere. «Che io ti vegga, Narcisa!», esclamò egli colle mani giunte,
inginocchiandosi sul tappeto, come se avesse voluto adorarla: «oh! ch'io
possa vederti!.. Perché nel tempo istesso che io provo questo godimento
supremo, che mi comunico il tuo corpo da fata fra le mie braccia, non
posso analizzarti col mio sguardo, ed assorbire quell'altra ebbrezza
sublime di divorare le tue bellezze?...». Egli si tacque, sorpreso,
allarmato dal pallore che copriva i delicati lineamenti di lei, che
tradivano qualche lievissima contrazione spasmodica: e che cominciavano a
bagnarsi di fredde stille di sudore a fior di pelle alla radice dei
capelli. Narcisa, come per nascondergli quel triste spettacolo
inebbriandolo fra le sue carezze, lo attirò fra le sue braccia, baciandolo
del suo bacio languido e divorante nella sua molle seduzione; e posò il
suo viso sul volto di lui, mischiando i ricci dei suoi capelli ai
suoi... «Che hai, Narcisa?», le gridò Pietro spaventato dal freddo
sudore di cui gli inumidiva il volto il contatto di lei. «Oh, nulla!...
È la felicità!... è la gioia suprema che provo... che sembra farmi
svenire... Oh! come son felice!... Dio mio! come son felice!...» Mentre
quella testolina ricciuta si posava sulla sua, Pietro la sentì farsi più
pesante sulla sua spalla. «Narcisa!...» «Oh, qual felicità,
Pietro!... Mi pare di aver sonno... di dover sognare questi squisiti
diletti... Avevo tanto sofferto!... Adagiami sul canapè... e suonami
qualche cosa sul pianoforte... Provo delle sfumature sì care... dei sogni
incerti sì belli!... Oh, Pietro, se li provassi anche tu! Mi pare di dover
godere di più con quei suoni tratti da te...» La sua pupilla era
prodigiosamente dilatata; ma lo fissava ancora coi raggi più vivi del suo
sguardo. Pietro s'inginocchiò ai suoi piedi; ella ebbe il coraggio di
cambiare in un sorriso la contrazione di spasimo delle sue
labbra. «Suonami il valtzer... <I>Il Bacio</I>... fammi
contenta...» Pietro esitava. «Ma che hai? Dio mio! sei pallida da
far paura...» «È nulla, ti dico... è l'eccesso della gioia, della
felicità... Son tanto felice, mio Pietro!... Fammi questo piacere, suona
quel valtzer... che mi domandavi sempre...» E giunse le mani con atto
infantile di preghiera. Pietro cominciò ad eseguire quella musica che
faceva la più strana impressione in mezzo al silenzio della notte (nella
mestizia che, suo malgrado, cominciava ad offuscarlo), ascoltata da quella
donna coricata sul divano, che giungeva le mani; della quale i tratti,
sussultanti di quando in quando, sembravano assorbire le vibrazioni come
delle care reminiscenze; della quale gli occhi si dilatavano colla pupilla
di una spaventevole fissità; della quale infine le labbra si aprivano
anelanti come a bever l'onda di quell'armonia, in mezzo alle contrazioni
spasmodiche che non poteva dissimulare; nel silenzio quasi lugubre di quel
salotto, che cominciava ad esser rotto dall'anelito affannoso e soffocato
della respirazione di lei. Ella si era alzata lentamente, come attratta
da quel suono; cogli occhi come affascinati da immagini che ella sola
poteva vedere... E si era trascinata barcollante, stendendo le mani
tentoni, come se non vedesse più, verso il punto dove risuonavano quelle
note festanti. Ella vi giunse, anelante di fatica e di piacere, e si
aggrappò alla spalla di Pietro per non cadere, gridando con accento
indescrivibile: «Oh! Pietro! Pietro!... dove sei?!...». E cadde
inginocchiata. Le sue pupille azzurre, chiare, quasi fosforescenti, si
fissavano in volto a lui, senza sguardo, come cercandolo; e allorquando
sembrò ch'ella non potesse rompere quel velo che le annebbiava la vista,
che le impediva di pascersi nelle sembianze di lui, i suoi lineamenti, che
cominciavano a contrarsi, espressero l'angoscia... un terrore nuovo,
incomprensibile. «Oh, Dio! Dio mio!», singhiozzò agitando le labbra
convulsivamente, come se stentasse a trarre quei suoni dalla sua gola
arida e ad articolarli colle sue labbra tremanti: «Oh! Dio!... sì presto!
sì presto!...». E quando incontrò gli abiti del giovane, le sue mani
increspate cercarono brancolando le mani di lui, che strinsero avidamente,
con tenace ostinazione, quasi temessero di lasciarsele sfuggire. La
pelle del suo viso si era fatta arida, e le vene cominciavano ad
iniettarsi di sangue. Pietro, stordito, spaventato, afferrò il cordone del
campanello. «È giunto il signor Angiolini»: disse un domestico sulla
soglia. «Presto! presto! che corra... soccorso! Ella muore!», gridò
Pietro. Sollevò quel bel corpo, fattosi di un'inerte pesantezza, fra le
sue braccia, stringendovelo con una furibonda tenerezza, e lo coricò sul
divano. In tutto quel tempo le mani convulse di lei cercarono ancora le
sue; e quando le trovarono fecero atto di recarsele alle labbra,
fissandolo sempre di quella pupilla cerulea, dilatata, senza
sguardo. Si udirono dei passi precipitati, e comparve Raimondo, che
veniva a prendere Brusio per condurlo da sua madre, come Narcisa ne avea
avuto sentore. Con un solo sguardo egli vide di che si trattava, e senza
perder tempo in domande inutili, corse da lei, distesa sul divano, e le
prese il polso. Le pulsazioni erano deboli, lente, mancanti; osservò la
pelle arida, picch[i]ettata in alcuni punti delle braccia di bollicine
incolori; il volto acceso e che cominciava a farsi livido; gli occhi fissi
che operavano uno sforzo prodigioso per non cedere alla pesantezza delle
palpebre, onde fissarsi ancora su di Pietro, quantunque non lo vedessero
più. Toccò vivamente la regione epigastrica che tradì uno spasimo
acuto. «Hai in casa dell'emetico?», domandò vivamente Raimondo al suo
amico, rizzandosi con la pronta decisione che dà l'intuizione al medico di
genio, e che lo fa sollevare e dominare in tali momenti. «Oh no!... Dio
mio!...» «Un momento! avrete almeno questo»; e spezzò il cordone del
campanello, strappandolo con violenza. «Recate un bicchier d'acqua e
del sapone, e preparate due tazze di caffè molto carico e senza zucchero;
subito!», ordinò al cameriere che comparve. «Bisogna che tu passi
nell'altra stanza»; soggiunse quindi a Brusio che sembrava di sasso.
Narcisa, che udì forte e comprese quelle parole, strinse più vivamente le
mani del giovane, quasi volesse attaccarsi a lui. «No! no!», singhiozzò
Pietro cadendo inginocchiato dinanzi al canapè; «no! io non la lascerò un
minuto... Io sarò forte, Raimondo!» Il medico si strinse con impazienza
nelle spalle, e tentò di far bere a Narcisa il bicchier d'acqua che gli
avevano recato ove avea sciolto del sapone. Ella ne inghiottì
avidamente due o tre sorsi, afferrando il bicchiere come se avesse voluto
aggrapparsi alla vita che sentiva sfuggirle; provò qualche movimento di
vomito, che rimase senza effetto; e ricadde pesantemente sul canapè
mormorando: «Oh! la vista!... Dio mio! la vista!... vederlo
almeno!...». E due lagrime luccicarono sulla sua orbita. I suoi
lineamenti erano orribili di questa lotta penosa che cercava vincere e
dissimulare con isforzi sovrumani. Raimondo, che avea preso la testa di
lei fra le sue braccia, un minuto dopo la lasciò ricadere sul cuscino,
resa di una cadaverica pesantezza; e rimase muto, disanimato. Poco dopo
mormorò, come parlando a se stesso: «È l'oppio in forti dosi... Ora il
delirio... dopo il coma...». «Che sete! Dio mio, che sete!», mormorava
Narcisa colla voce secca, stentando a disnodare la lingua, legata da una
spaventevole aridità; «acqua! per pietà, Pietro!... acqua!...» Raimondo
le fece inghiottire quasi tre tazze di caffè amaro. «Che fare? Dio!...
che fare?», gridava Pietro implorando, con l'accento del cuore, da
Raimondo quell'aiuto che questi non poteva dargli mentre avea chinato la
testa sul petto, come se avesse voluto dire: troppo tardi! La
fisionomia di Narcisa si animava come se contemplasse deliziose visioni
che il suo occhio sbarrato e fisso poteva vedere soltanto. Ella mormorava
frasi interrotte, appena sensibili, in cui spesso le sue labbra si
agitavano come per sorridere. Una o due volte sembrò riscuotersi
bruscamente, con un senso penoso... e allora i suoi tratti esprimevano un
immenso affanno... in cui ella mormorava: «Oh, Pietro!... il
valtzer!... il valtzer!...». Pietro, che aveva soltanto la forza di
bagnare di pianto le sue mani che si teneva alle labbra, gridò
singhiozzando: «Ma salvala, Raimondo!... fratello mio!... Non vedi che
muore!... Bisogna ch'ella non muoia!... Non voglio che ella
muoia!...». Tutt'a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo
ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole
sino al canapè dov'era sdraiata l'agonizzante; sollevò questa fra le sue
braccia, perché le braccia di lei potessero ancora circondare il collo di
Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava
istupidito: «Non c'è più che un miracolo che possa prevenire il coma,
che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio per dare il tempo di
operare all'infuso di caffè... Suonale quello che vuole... Ci son dei casi
in cui la scienza bisogna che ricorra all'arte o al caso». Pietro
cominciò a suonare quel valtzer allegro e brillante, di cui le note
acquistavano la più triste inflessione sotto le sue dita increspate e
tremanti, e che strillavano sinistramente in mezzo al funereo silenzio di
quella stanza. Due o tre volte le labbra di Narcisa sorrisero; i suoi
lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per esprimere il piacere
più intenso che quel suono certamente le procurava o che determinava i
sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente, sebbene
con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta le sue
labbra si agitarono come per baciare; e il suo capo si avanzava tentoni
come se avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla
appannata, vitrea, fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui
balenava tutto l'ineffabile amore che l'agonia non poteva assopire in quel
cuore. «Oh! Pietro! Pietro!... ti vedo!...», gridò esultante; con un
accento indescrivibile che avea più dell'urlo dello spasimo che del
trasporto della gioia; «m'ami?!... m'ami tu?!!!...» E si rovesciò
assieme a lui sul canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso,
la difficoltà di proferire, il torpore della mente, l'inerzia delle forze,
l'agonia insomma. «Pietro, m'ami ancora?!» «Sì! sì! t'adoro!...»,
singhiozzò egli tentando inumidire l'aridità di quella pelle coll'umido
delle sue labbra, di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza
di quelle palpebre coll'impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita
che sentiva rigogliosa, giovane, potente in lui, nel soffio che alitava
fra le labbra di lei violacee, semiaperte e convulse. «E non me lo dici
perché hai pietà di me?... e non me lo dici perché io muoio?!...», seguitò
ella aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell'agonia, con quel
moto incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto
di lui per baciarlo. «Oh, no!... non ti ho mai amato come t'amo!...
Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!...» «Grazie!...
grazie!...», mormorò la moribonda con un anelito interrotto che la
stentata respirazione soffocava nella sua gola; «grazie!... oh! la
vita!... dottore, fatemi vivere... egli mi ama!!... io non voglio
morire!!!», finì con accento straziante. E non poté più proferire,
quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e
interrotti scappassero dalla sua gola arida. Ella rimase come
profondamente assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti
convulsivi: rivelando mille impressioni, ora deliziose ora tristi, nella
mutabile espressione dei suoi lineamenti, in cui l'occhio soltanto, colla
sua larga e lucida fissità faceva prevedere la morte. Era orribile a
vedersi la rapida decomposizione di quella fisonomia. Finalmente
sopraggiunse il sonno. Pietro rimaneva, com'ella l'aveva attirato
rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinghiato a quel corpo per tre
quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli
estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per
lui; egli era come affascinato da quell'orribile spettacolo che impietrava
le lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di
lei. «Ma parti, disgraziato!», gli gridò Raimondo tentando di
strapparlo a quell'amplesso di morte; «non vedi che ciò ti
uccide...!» Pietro non rispose, e abbracciò più strettamente quel corpo
inerte, in cui gli parve sentire un ultimo sussulto al suo abbraccio,
mentre le mani gli parve lo stringessero più tenacemente, come per
ringraziarlo e non lasciarlo. Quell'agonia fu lunga, penosa, orrenda. A
pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del
cuore, poté discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al
sonno della morte. Pietro rimase istupidito, come un pazzo; per un mese
intiero. Il secondo rivide sua madre; poi gli amici. Un anno dopo
ricomparve in società... Chi sa quante volte al giorno pensa a
quest'ora a Narcisa, la donna ch'è morta d'amore per lui?!... Le
splendide promesse del suo ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato
sino al genio nella sua anima fervente, erano cadute con quest'amore
istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che trascina la vita nel
suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi
parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo
patrimonio. Misteri del cuore!
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