Trenta quaranta,
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina...
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Madama Colombina
s'affaccia alla finestra
con tre colombe in testa:
passan tre fanti...
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome,
bimbe di mia sorella!
...su tre cavalli bianchi:
bianca la sella
bianca la donzella
bianco il palafreno...
Ne fare il giro a tondo
estraggono le sorti.
(I bei capelli corti
come caschetto biondo
rifulgono nel sole.)
Estraggono a chi tocca
la sorte, in filastrocca
segnado le parole.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita.
Sento fra le mie dita
la forma del mio cranio...
Ma dunque esisto! O Strano!
vive tra il Tutto e il Niente
questa cosa vivente
detta guidogozzano!
Resupino sull'erba
(ho detto che non voglio
raccorti, o quatrifoglio)
non penso a che mi serba
la Vita. Oh la carezza
dell'erba! Non agogno
cha la virtù del sogno:
l'inconsapevolezza.
Bimbe di mia sorella,
e voi, senza sapere
cantate al mio piacere
la sua favola bella.
Sognare! Oh quella dolce
Madama Colombina
protesa alla finestra
con tre colombe in testa!
Sognare. Oh quei tre fanti
su tre cavalli bianchi:
bianca la sella,
bianca la donzella!
Chi fu l'anima sazia
che tolse da un affresco
o da un missale il fresco
sogno di tanta grazia?
A quanti bimbi morti
passò di bocca in bocca
la bella filastrocca
signora delle sorti?
Da trecent'anni, forse,
da quattrocento e più
si canta questo canto
al gioco del cucù.
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
L'aruspice mi segue
con l'occhio d'una donna...
Ancora si prosegue
il canto che m'assonna.
Colomba colombita
Madama non resiste,
discende giù seguita
da venti cameriste,
fior d'aglio e fior d'aliso,
chi tocca e chi non tocca...
La bella filastrocca
si spezza d'improvviso.
«Una farfalla!» «Dài!
Dài!» - Scendon pel sentiere
le tre bimbe leggere
come paggetti gai.
Una Vanessa Io
nera come il carbone
aleggia in larghe rote
sul prato solatio,
ed ebra par che vada.
Poi - ecco - si risolve
e ratta sulla polvere
si posa della strada.
Sandra, Simona, Pina
silenziose a lato
mettonsile in agguato
lungh'essa la cortina.
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome
bimbe di mia sorella!
Or la Vanessa aperta
indugia e abbassa l'ali
volgendo le sue frali
piccole antenne all'erta.
Ma prima la Simona
avanza, ed il cappello
toglie ed il braccio snello
protende e la persona.
Poi con pupille intente
il colpo che non falla
cala sulla farfalla
rapidissimamente.
«Presa!» Ecco lo squillo
della vittoria. «Aiuto!
È tutta di velluto:
Oh datemi uno spillo!»
«Che non ti sfugga, zitta!»
S'adempie la condanna
terribile; s'affanna
la vittima trafitta.
Bellissima. D'inchiostro
l'ali, senza rintocchi,
avvivate dagli occhi
d'un favoloso mostro.
«Non vuol morire!» «Lesta!
ché soffre ed ho rimorso!
Trapassale la testa!
Ripungila sul dorso!»
Non vuol morire! Oh strazio
d'insetto! Oh mole immensa
di dolore che addensa
il Tempo nello Spazio!
A che destino ignoto
si soffre? Va dispersa
la lacrima che versa
l'Umanità nel vuoto?
Colombina colombita
Madama non resiste:
discende giù seguita
da venti cameriste...
Sognare! Il sogno allenta
la mente che prosegue:
s'adagia nelle tregue
l'anima sonnolenta,
siccome quell'antico
brahamino del Pattarsy
che per racconsolarsi
si fissa l'umbilico.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita;
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Verrà da sé la cosa
vera chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l'erta faticosa?
Trenta quaranta
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
canta la gallina...
La Vita? Un gioco affatto
degno di vituperio,
se si mantenga intatto
un qualche desiderio.
Un desiderio? sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Nascere vide tutto ciò che nasce
in una casa, in cinquant'anni. Sposi
novelli, bimbi... I bimbi già corrosi
oggi dagli anni, vide nella fasce.
Passare vide tutto ciò che passa
in una casa, in cinquant'anni. I morti
tutti, egli solo, con le braccia forti
compose lacrimando nella cassa.
Tramonta il giorno, fra le stelle chiare,
placido come l'agonia del giusto.
L'ottuagenario candido e robusto
viene alla soglia, con il suo mangiare.
Sorride un poco, siede sulla rotta
panca di quercia; serra per sostegno
fra i ginocchi la ciotola di legno;
mangia in pace così, mentre che annotta.
Con la barba prolissa come un santo
arissecchito, calvo, con gli orecchi
la fronte coronati di cernecchi
il buon servo somiglia il Tempo... Tanto,
tanto simile al Nume pellegrino,
ch'io lo vedo recante nella destra
non la ciotola colma di minestra,
ma la falce corrusca e il polverino.
Biancheggia tra le glicini leggiadre
l'umile casa ove ritorno solo.
Il buon custode parla: «O figliuolo,
come somigli al padre di tuo padre!
Ma non amava le città lontane
egli che amò la terra e i buoni studi
della terra e la casa che tu schiudi
alla vita per poche settimane...».
Dolce restare! E forza è che prosegua
pel mondo nella sua torbida cura
quei che ritorna a questa casa pura
soltanto per concedersi una tregua;
per lungi, lungi riposare gli occhi
(di che riposi parlano le stelle!)
da tutte quelle sciocche donne belle,
da tutti quelli cari amici sciocchi...
Oh! il piccolo giardino ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto...
Ascolto il buon silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.
Si rispecchia nel gran Libro sublime
la mente faticata dalle pagine,
il cuore devastato dall'indagine
sente la voce delle cose prime.
Tramonta il giorno. Un vespero d'oblio
riconsola quest'anima bambina;
giunge un riso, laggiù dalla cucina
e il ritmo eguale dell'acciottolio.
In che cortile si lavora il grano?
Sul rombo cupo della trebbiatrice
s'innalza un canto giovine che dice:
anche il buon pane - senza sogni - è vano!
Poi tace il grano e la canzone. I greggi
dormono al chiuso. Nella sera pura
indugia il sole: «Or fammi un po' lettura:
te beato che sai leggere! Leggi!».
Me beato! Ah! Vorrei ben non sapere
leggere, o Vecchio, le parole d'altri!
Berrei, inconscio di sapori scaltri,
un puro vino dentro il mio bicchiere.
E la gioia del canto a me randagio
scintillerebbe come ti scintilla
nella profondità della pupilla
il buon sorriso immune dal contagio.
Gli leggo le notizie del giornale:
i casi della guerra non mai sazia
e l'orrore dei popoli che strazia
la gran necessità di farsi male.
Ripensa i giorni dell'armata Sarda,
la guerra di Crimea, egli che seppe
la tristezza ai confini delle steppe
e l'assedio nemico che s'attarda.
Poi cade il giorno col silenzio. Poi
rompe il silenzio immobile di tutto
il tonfo malinconico d'un frutto
che giunge rotolando sino a noi.
E m'inchino e raccolgo e addento il pomo...
Serenità!... L'orrore della guerra
scende in me: cittadino della Terra,
in me: concittadino d'ogni uomo.
Ora il vecchio mi parla d'altre rive
d'altri tempi, di sogni... E più m'alletta
di tutte, la parola non costretta
di quegli che non sa leggere e scrivere.
Sereno è quando parla e non disprezza
il presente pel meglio d'altri tempi:
«O figliuolo il meglio d'altri tempi
non era che la nostra giovinezza!».
Anche dice talvolta, se mi mostro
taciturno: «Tu hai l'anima ingombra.
Tutto è fittizio in noi: e Luce ed Ombra:
giova molto foggiarci a modo nostro!
E se l'ombra s'indugia e tu rimuovine
la tristezza. Il dolore non esiste
per chi s'innalza verso l'ora triste
con la forza d'un cuore sempre giovine.
Fissa il dolore e armati di lungi,
ché la malinconia, la gran nemica,
si piega inerme, come fa l'ortica
che più forte l'acciuffi e men ti pungi».
E viene allo scrittoio, se m'indugio:
«Ah! Già i capelli ti si fan più radi,
sei pallido... Da tempo è che non badi
per queste carte al remo e all'archibugio.
Chi troppo studia e poi matto diventa!
Giova il saper al corpo che ti langue?
Vale ben meglio un'oncia di buon sangue
che tutta la saggezza sonnolenta».
Così ragiona quegli che non crede
la troppo umana favola d'un Dio,
che rinnegò la chiesa dell'oblio
per la necessità d'un'altra fede.
Dice: «Ritorna il fiore e la bisavola.
Tutto ritorna vita e vita in polve:
ritorneremo, poiché tutto evolve
nella vicenda d'un'eterna favola».
Ma come, o Vecchio, un giorno fu distrutto
il sogno della tua mente fanciulla?
E chi ti apprese la parola nulla,
e chi ti apprese la parola tutto?
Certo, fissando un cielo puro, un fiume
antico, meditando nello specchio
dell'acque e delle nubi erranti, il Vecchio
lesse i misteri, come in un volume.
Come dal tutto si rinnovi in cellula
tutto; e la vita spenta dei cadaveri
resusciti le selve ed i papaveri
e l'ingegno dell'uomo e la libellula.
Come una legge senza fine domini
le cose nate per se stesse, eterne...
Tanto discerne quei che non discerne
i segni convenuti dagli uomini.
Ma come cadde la tua fede illesa:
fede ristoratrice d'ogni piaga
per l'anima fanciulla che s'appaga
nei simulacri della Santa Chiesa?
Come vedi le cose? Senza fedi,
stanco, sul limitare della morte,
sai vivere sereno, o vecchio forte,
sorridere pacato... Come vedi?
Guardi le stelle attingere i fastigi
dell'abetaia, contro il cielo, e l'orsa
volger le sette gemme alla sua corsa:
senti il ritmo macàbro delle strigi
e il frullo della nottola ed il frullo
della falena... Pel sereno illune
spazi tranquillo, vecchio saggio immune.
La tua pupilla è quella d'un fanciullo.
Qualche cosa tu vedi che non vedo
in quell'immensità, con gli occhi puri:
«Buona è la morte» dici e t'avventuri
serenamente al prossimo congedo.
Ancora sento al tuo cospetto il simbolo
d'una saggezza mistica e solenne;
quello mi tiene ancora che mi tenne
strano mistero, di quand'ero bimbo.
Allora che su questa soglia stessa
mi narravi di guerre e d'altri popoli,
dicevi del Mar Nero e Sebastopoli,
dei Turchi, di Lamarmora, d'Odessa.
E nel mio sogno s'accendean le vampe
sopra le mura. Entrava la milizia
nella città: una città fittizia
quali si vedono nelle vecchie stampe,
le vecchie stampe incorniciate in nero:
...i panorami di Gerusalemme,
il Gran Sultano, carico di gemme...:
artificiose, belle più del vero;
le vecchie stampe, care ai nostri nonni
...il minareto e tre colonne infrante,
il mare, la galea, il mercatante...
città vedute nei miei primi sonni.
Ed ora, o vecchio, e sazi la tua fame
sulla panca di quercia, ove m'indugio;
altro sentiero tenta al suo rifugio
il bimbo illuso dalle stampe in rame.
Tra le bande verdi gialle d'innumeri ginestre
la bella strada alpestre scendeva nella valle.
Andavo con l'Amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica;
quando nel lento oblio, rapidamente in vista
apparve una ciclista a sommo del pendio.
Ci venne incontro; scese. «Signora! Sono Grazia!»
sorrise nella grazia dell'abito scozzese.
«Graziella, la bambina?» - «Mi riconosce ancora?»
«Ma certo!» E la Signora baciò la Signorina.
La piccola Graziella! Diciott'anni? Di già?
La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!
«La piccola Graziella, così cattiva e ingorda!...»
«Signora, si ricorda quelli anni?» - «E così bella
vai senza cavalieri in bicicletta?» - «Vede...»
«Ci segui un tratto a piede?» - «Signora, volentieri...»
«Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato, un amico
caro di mio marito... Dagli la bicicletta.»
Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell'altra.
Adolescente l'una nelle gonnelle corte,
eppur già donna: forte bella vivace bruna
e balda nel solino dritto, nella cravatta,
la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.
Ed io godevo senza parlare, con l'aroma
degli abeti, l'aroma di quell'adolescenza.
- O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,
forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia.
O bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere umano,
ma avere te per mano, o dolce sorridente! -
Così dicevo senza parola. E l'Altra intanto
vedevo: triste accanto a quell'adolescenza!
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d'un fiore che disfiora e non avrà domani.
Al freddo che s'annunzia piegan le rose intatte,
ma la donna combatte nell'ultima rinunzia.
O pallide leggiadre mani per voi trascorse-
ro gli anni! Gli anni, forse, gli anni di mia Madre!
Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente
come terribilmente m'apparve lo sfacelo!
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l'opera del bistro
intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri,
l'inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,
gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d'un bel biondo sereno.
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
- O mio cuore che valse la luce mattutina
raggiante sulla china tutte le strade false?
Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti
verso miraggi schietti, in orti meno tristi.
Tu senti che non giova all'uomo soffermarsi,
gittare i sogni sparsi per una vita nuova.
Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
e non avrai per mano la dolce sorridente,
ma l'altro beveraggio avrai fino alla morte:
il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. -
Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
Erano folti intorno gli abeti nell'assalto
dei greppi fino all'alto nevaio disadorno.
I greggi, sparsi a picco, in gran tinniti e mugli
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;
e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.
- Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore -
che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi:
di quali aromi opimo odore non si sa:
di resina? di timo? e di serenità?... -
Sostammo accanto a un prato e la Signora china
baciò la Signorina, ridendo nel commiato:
«Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
si prende un po' di the, si maledice un po'...»
«Verrò, Signora, grazie!» Dalle mie mani in fretta
prese la bicicletta. E non mi disse grazie.
Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d'un piede scalzo,
d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d'alato volgente con le ruote.
Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d'alabastro, scendeva nella valle.
Volò, come sospesa la bicicletta snella:
«O piccola Graziella, attenta alla discesa!».
«Signora! arrivederla!» Gridò di lungi, ai venti:
di lungi ebbero i denti un balenio di perla.
Graziella è lungi. Vola vola la bicicletta:
«Amica! E non m'ha detta una parola sola!».
«Te ne duole?» - «Chi sa!» - «Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore...» - «O la Felicità!»
E seguitai l'amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica.
«Or vado, Marta, suona la mezzanotte...» O casa
di pace, o dolce casa di quell'amica buona...
L'alta lucerna ingombra segnava in luce i rari
pizzi dei suoi velari, ergendosi nell'ombra
come un piccolo sole... Durava nella stanza
l'eco d'una speranza data senza parole.
Nella zona di luce v'erano fiori, carte,
volumi, sogni d'arte... Contro una stampa truce
del Durero, una grigia volpe danese il terso
muso tendeva verso l'alto, con cupidigia.
C'era un profumo mite che mi tornava bimbo:
...un gracile corimbo di primule fiorite.
E c'era una blandizie mondana acuta fine:
...di essenze parigine, di sigarette egizie...
C'era un profumo forte che inebbriava i sensi:
...i bei capelli densi come matasse attorte...
Sotto il prodigio nero di quella chioma unica,
vestita di una tunica molle, di foggia «impero».
Marta teneva gli occhi assorti ed un pugnale
fra mano, e non so quale volume sui ginocchi.
Tagliava, china in non so che taciturna indagine,
lentamente le pagine del gran volume intonso.
«La mezzanotte, Marta...» Non mi rispose, udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.
La taciturna amica con quel volume austero
m'apparve nel mistero d'una sibilla antica.
«Se le dicessi? Sa ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità!»
E a quella donna, avezza a me come a un fratello
buono, mi parve bello dire la mia tristezza.
Ah! Se potessi amare! - Vi giuro, non ho amato
ancora: il mio passato è di menzogne amare.
- Mi piacquero leggiadre bocche, ma non ho pianto
mai, mai per altro pianto che il pianto di mia Madre.
Come una sorte trista è sul mio cuore, immagine
(se vi piace l'immagine un poco secentista)
d'un misterioso scrigno d'ogni tesoro grave,
me ne gittò la chiave l'artefice maligno,
l'artefice maligno, in chi sa quali abissi...
Marta, se rinvenissi la chiave dello scrigno!
Se al cuore che ricusa d'aprirsi, una divota
rechi la chiave ignota dentro la palma chiusa,
per lei che nel deserto farà sbocciare fiori,
saran tutti i tesori d'un cuore appena aperto.
Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?
Molte mani soavi apersi a poco a poco
come si fa nel gioco, ma non trovai le chiavi.
O dita appena tocche, forse amerò domani!
e abbandonai le mani e ribaciai le bocche...
Ma pesa la menzogna terribilmente! O maschera
fittizia che mi esaspera nell'anima che sogna!
Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?
Tutte, persin le brutte, mi danno un senso lento
di tenerezza... «Sento» - risi - «di amarle tutte!
Non sorridete, Marta?» Non sorrideva. Udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.
E ripensavo: - Se ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità -.
«Nel cuore senza fuoco già l'anima è più stanca,
più d'un capello imbianca, qui, sulla tempia, un poco.
Ogni sera più lunge qualche bel sogno è fatto:
aspetta il cuore intatto l'amore che non giunge
O beva chi non beve, doni chi si rifiuta
prima che sia compiuta la mia favola breve!
Fanciullo, e verrai tu, compagno alato della
seconda cosa bella - il non essere più -
verrai con bende e dardi, anche, Fanciullo, a me?
O amare prima che si faccia troppo tardi!
L'amore giungerà, Marta?» (Nel libro intonso,
pensavo, ecco il responso lesse di Verità)
«l'Amore come un sole» (durava nella stanza
l'eco d'una speranza data senza parole)
«irraggerà l'assedio dell'anima autunnale,
se pure questo male non è senza rimedio...»
Ella dal Libro, in quiete, tolse l'arme, mi porse
l'arme. Rispose: «Forse! - Perché non v'uccidete?».
«...alla sua Speranza la sua Carlotta...» 28 giugno 1850 (dall'album: dedica d'una fotografia)Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, di Napoleone,
il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti con mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,
Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po' scialbi,
le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,
le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature,
i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone
e immilla nel quarto le buone cose di pessimo gusto,
il cùcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco
chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!
I fratellini alla sala quest'oggi non possono accedere
che cauti (hanno tolte le fodere ai mobili: è giorno di gala)
ma quelli v'irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.
Ha diciassette anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:
da poco hanno avuto il permesso d'aggiungere un cerchio alla gonna;
il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine:
più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.
Entrambe hanno uno scialle ad arancie, a fiori, a uccelli, a ghirlande:
divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guance.
Son giunte da Mantova senza stanchezza al Lago Maggiore
sebbene quattordici ore viaggiassero in diligenza.
Han fatto l'esame più egregio di tutta la classe. Che affanno
passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.
O Belgirate tranquilla! La sala dà sul giardino:
fra i tronchi diritti scintilla lo specchio del Lago turchino.
Silenzio, bambini! Le amiche - bambini, fate pian piano! -
le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche:
motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leuto e di Alessandro Scarlatti;
innamorati dispersi, gementi il «core» e «l'augello»,
languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi:
...caro mio ben credimi almen, senza di te languisce il cor! il tuo fedel sospira ognor cessa crudel tanto rigor!Carlotta canta, Speranza suona. Dolce e fiorita
O musica, lieve sussurro! E già nell'animo ascoso
d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati... O margherite in collegio
sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati!
Giungeva lo Zio, signore virtuoso di molto riguardo,
ligio al Passato al Lombardo-Veneto e all'Imperatore.
Giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene,
ligia al Passato sebbene amante del Re di Sardegna.
«Baciate la mano alli Zii!» - dicevano il Babbo e la Mamma,
e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii.
«E questa è l'amica in vacanza: madamigella Carlotta
Capenna: l'alunna più dotta, l'amica più cara a Speranza.»
«Ma bene... ma bene... ma bene...» - diceva gesuitico e tardo
lo Zio di molto riguardo - «Ma bene... ma bene... ma bene...
Capenna? Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...
Sicuro! Alla Corte di Vienna! Sicuro... sicuro... sicuro...»
«Gradiscono un po' di marsala?» «Signora Sorella: magari.»
E sulle poltrone di gala sedevano in bei conversari.
«...ma la Brambilla non seppe... - È pingue già per lErnani;
la Scala non ha più soprani... - Che vena quel Verdi... Giuseppe!...
«...nel marzo avremo un lavoro - alla Fenice, m'han detto -
nuovissimo: il Rigoletto; si parla d'un capolavoro. -
«...azzurri si portano o grigi? - E questi orecchini! Che bei
rubini! E questi cammei?... La gran novità di Parigi...
«...Radetzki? Ma che! L'armistizio... la pace, la pace che regna...
Quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio! -
«È certo uno spirito insonne... - ...è forte e vigile e scaltro.
«È bello? - Non bello: tutt'altro... - Gli piacciono molto le donne...
«Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po' sibillino)
«Carlotta! Scendete in giardino: andate a giuocare al volano!»
Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto
inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.
Oimè! Ché giocando, un volano, troppo respinto all'assalto,
non più ridiscese dall'alto dei rami d'un ippocastano!
S'inchinano sui balaustri le amiche e guardano il Lago,
sognando l'amore presago nei loro bei sogni trilustri.
«...se tu vedessi che bei denti! - Quant'anni? - Vent'otto.
- Poeta? Frequenta il salotto della Contessa Maffei!»
Non vuole morire, non langue il giorno. S'accende più ancora
di porpora: come un'aurora stigmatizzata si sangue;
si spenge infine, ma lento. I monti s'abbrunano in coro:
il Sole si sveste dell'oro, la Luna si veste d'argento.
Romantica Luna fra un nimbo leggero, che baci le chiome
dei pioppi arcata siccome un sopracciglio di bimbo,
il sogno di tutto un passato nella tua curva s'accampa:
non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?
Vedesti le case deserte di Parisina la bella
non forse? Non forse sei quella amata dal giovane Werther?
«...Mah!... Sogni di là da venire. - Il Lago s'è fatto più denso
di stelle - ...che pensi?... - Non penso... - Ti piacerebbe morire?
«Sì! - Pare che il cielo riveli più stelle nell'acqua e più lustri.
Inchìnati sui balaustri: sognano così fra due cieli...
«Son come sospesa: mi libro nell'alto!... - Conosce Mazzini...
- E l'ami? - Che versi divini!... Fu lui a donarmi quel libro,
ricordi? che narra siccome amando senza fortuna
un tale si uccida per una: per una che aveva il mio nome.»
Carlotta! Nome non fine, ma dolce! Che come l'essenze
risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline...
O amica di Nonna conosco le aiuole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.
Ti fisso nell'albo con tanta tristezza, ov'è di tuo pugno
la data: vent'otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.
Stai come rapita in un cantico; lo sguardo al cielo profondo,
e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamento romantico.
Quel giorno - malinconia! - vestivi un abito rosa
per farti - novissima cosa! - ritrarre in fotografia...
Ma te non rivedo nel fiore, o amica di Nonna! Ove sei
o sola che - forse - potrei amare, amare d'amore?
I.
Sui gradini consunti, come un povero
mendicante mi seggo, umilicorde:
o Casa, perché sbarri con le corde
di glicine la porta del ricovero?
La clausura dei tralci mi rimorde
l'anima come un gesto di rimprovero:
da quanto tempo non dischiudo il rovero
di quei battenti sulle stanze sorde!
Sorde e gelide e buie... Un odor triste
è nell'umile casa centenaria
di cotogna, di muffa, di campestre...
Dalle panciute grate secentiste
il cemento si sgretola se all'aria
rinnovatrice schiudo le finestre.
II.
Il profumo di glicine dissìpi
l'odor di muffa e di cotogna. Sotto
la viva luce palpiti il salotto!
E il mio sogno riveda i suoi princìpi
nei frutti d'alabastro sugli stipi -
martirio un tempo del fanciullo ghiotto -
nei fiori finti, nello specchio rotto,
nelle sembianze dei dagherottipi.
O casa fra l'agreste e il gentilizio,
coronata di glicini leggiadre,
o in mezzo ai campi dolce romitaggio!
Fu bene in te, che, immune d'artifizio,
serenamente il padre di mio padre
visse la vita d'un antico saggio!
III.
O Nonno! E tu non mi perdoneresti
ozi vani di sillabe sublimi,
tu che amasti la scienza dei concimi
dell'api delle viti degli innesti!
Eppur la fonte troverò di questi
sogni nei tuoi ammonimenti primi,
quando, contento dei raccolti opimi,
ti compiacevi dei tuoi libri onesti:
il tuo Manzoni... Prati... Metastasio...
Le sere lunghe! E quelle tue malferme
dita sui libri che leggevi! E il tedio,
il sonno... il Lago... Errina... ed il Parrasio...
E in me cadeva forse il primo germe
di questo male che non ha rimedio.
IV.
Nonno, l'argento della tua canizie
rifulge nella luce dei sentieri:
passi tra i fichi, tra i susini e i peri
con nelle mani un cesto di primizie:
«Le piogge di Settembre già propizie
gonfian sul ramo fichi bianchi e neri,
susine claudie... A chi lavori e speri
Gesù concede tutte le delizie!».
Dopo vent'anni, oggi, nel salotto
rivivo col profumo di mentastro
e di cotogna tutto ciò che fu.
Mi specchio ancora nello specchio rotto,
rivedo i finti frutti d'alabastro...
Ma tu sei morto e non c'è più Gesù.
V.
O tu che invoco, se non fosse l'io
una sola virtù dell'Apparenza,
ritorneresti dopo tanta assenza
tra i frutti del frutteto solatio.
Verresti dal frutteto dell'oblio,
d'oltre i confini della conoscenza,
a me che vivo senza fedi, senza
l'immaginosa favola d'un Dio...
Ma non ritorni! Sei come chi sia
non stato mai, o tu che vai disperso
nel tutto della gran Madre Natura.
Ohimè! Sul pianto pianto nella via
l'implacabilità dell'Universo
ride d'un riso che mi fa paura.
VI.
«Beati mortui qui in domino moriuntur» (Cartiglio dell'orologio solare)Avventurato se colui che visse
avventurato se colui morisse
in voi! E in Te, Gesù, nella menzogna
dolce, rendesse l'anima che sogna
alle tue buone mani crocefisse!
Questo è nei voti del perduto alunno,
o Gesù Cristo! Un letto centenario
m'accolga sotto il monito dell'Ore.
Ritorna la viola a tardo autunno:
non morirò premendomi il rosario
contro la bocca, in grazia del Signore?
Penso e ripenso: - Che mai pensa l'oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.
Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d'essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l'armi corruscanti della cuoca.
- O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s'è pensato.
Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Ché l'esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d'esser cucinato.
Ma questo filo... tutto questo filo!...
In pensieri non dolci e non amari
il Vecchio stava chino sulli alari
con le molle, così, come uno stilo.
«Scrivi? Bruci? Miei versi? I sillabari?
Il nome dell'Amata e dell'Asilo!»
(nel Vecchio riconobbi il mio profilo)
«Lettere? Buste? Annunzi funerari?
Un nome, un nome! Quello della Mamma!»
E caddi singhiozzando sulli alari.
Il Vecchio tacque. M'additò la fiamma.
«Da trent'anni?! Perdute le più tenere
mani! Ma resta il sogno! I sogni cari...»
Il Vecchio tacque. M'additò la cenere.
Son nato ieri che mi sbigottisce
il carabo fuggente, e mi trastullo
della cetonia risopita sullo
stame, dell'erba, delle pietre lisce?
E quel velario azzurro tutto a strisce,
si chiama «cielo»? E «monti» questo brullo?
Oggi il mio cuore è quello d'un fanciullo,
se pur la tempia già s'impoverisce.
Non la voce così dell'Infinito,
né mai così la verità del Tutto
sentii levando verso i cieli puri
la maschera del volto sbigottito:
«Nulla s'acquista e nulla va distrutto:
o eternità dei secoli futuri!».
Il gigantesco rovere abbattuto
l'intero inverno giacque sulla zolla,
mostrando, in cerchi, nelle sue midolla
i centonovant'anni che ha vissuto.
Ma poi che Primavera ogni corolla
dischiuse con le mani di velluto,
dai monchi nodi qua e là rampolla
e sogna ancora d'essere fronzuto.
Rampolla e sogna - immemore di scuri -
l'eterna volta cerula e serena
e gli ospiti canori e i frutti e l'ire
aquilonari e i secoli futuri...
Non so perché mi faccia tanta pena
quel moribondo che non vuol morire!
Primavera non è che s'avventuri
un'altra volta e cinga di tripudi
un'altra volta i rami seminudi,
tutti raggiando questi cieli puri?
Madre Terra, sei tu che trasfiguri
la vigilia dei giorni foschi e crudi?
O Madre Terra buona, tu che illudi
fino all'ultimo giorno i morituri!
Essi non piangono la sentenza amara.
Domani si morrà. Che importa? Oggi
sorride il colco tra le stoppie invalide...
Tutto muore con gioia (Impara! Impara!)
E forse ancora s'apre contro i poggi
l'ultimo fiore e l'ultima crisalide.
Il bimbo guarda fra le dieci dita
la bella mela che vi tiene stretta;
e indugia - tanto è lucida e perfetta -
a dar coi denti quella gran ferita.
Ma dato il morso primo ecco s'affretta:
e quel che morde par cosa scipita
per l'occhio intento al morso che l'aspetta...
E già la mela è per metà finita.
Il bimbo morde ancora - e ad ogni morso
sempre è lo sguardo che precede il dente -
fin che s'arresta al torso che già tocca.
«Non sentii quasi il gusto e giungo al torso!»
Pensa il bambino... Le pupille intente
ogni piacere tolsero alla bocca.
Certo un mistero altissimo e più forte
dei nostri umani sogni gemebondi
governa il ritmo d'infiniti mondi
gli enimmi della Vita e della Morte.
Ma ohimè, fratelli, giova che s'affondi
lo sguardo nella notte della sorte?
Volere un Dio? Irrompere alle porte
siccome prigionieri furibondi?
Amare giova! Sulle nostre teste
par che la falce sibilando avverta
d'una legge di pace e di perdono:
«Non fate agli altri ciò che non vorreste
fosse a voi fatto!». Nella notte incerta
ben questo è certo: che l'amarsi è buono!
Chi pur ieri cantava, tutto spocchia,
e saltellava, caro a Tita, è morto.
Tita singhiozza forte in mezzo all'orto
e gli risponde il grillo e la ranocchia.
La nonna s'alza e lascia la conocchia
per consolare il nipotino smorto:
invano! Tita, che non sa conforto,
guarda la salma sulle sue ginocchia.
Poi, con le mani, nella zolla rossa
scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo
d'asfodeli di menta e lupinella.
Ben io vorrei sentire sulla fossa
della mia pace il pianto di quel bimbo.
Piccolo morto, la tua morte è bella!
Le tre sorelle dalla tela rozza
levano gli occhi sbigottite, poi
che una voce pervade i corridoi
come d'uno che irride o che singhiozza.
«Il vento in casa!» Il vento cresce, cozza,
sibila, mugge come cento buoi.
Ogni sorella pensa ai casi suoi,
l'altra chiamando con la voce mozza.
In breve dai soppalchi al limitare
discacciano il nemico, nell'assedio
invocando a gran voce tutti i santi.
Ognuna torna poi ad agucchiare,
ed accompagna il ritmo del suo tedio
all'orchestra dei tremoli svettanti.
A Mario B., lottatoreBestialità divina, amico Mario,
Bene sai l'arte della forza. In vario
modo lo spossi e incalzi e pieghi e abbatti;
ti sussulta nei muscoli contratti
non so che desiderio sanguinario.
Gràvagli sopra, crudelmente bello,
con le scapole fa ch'egli riverso
tocchi la rena e «vinto» gli si gridi!
Ridevole miseria d'un cervello
quando il proteso già pollice verso
«Uccidi - griderei - Uccidi! Uccidi!»
Alla signora C. R. dalla bella voceNon so che triste affanno mi consumi:
Ah! Se voi foste qui, tra questi fiori,
amica! O bella voce tra i profumi!
Se recaste con voi tutti i volumi
di tutti i nostri dolci ingannatori!
Mi direste il Congedo, oppur la Morte
del cervo, oppure la Sementa... E queste
bellezze, più che l'aria e più che il sole,
mi farebbero ancora sano e forte!
E guarirei: Voi mi risanereste
con la grande virtù delle parole!
Se guardo questo pettine sottile
di tartaruga e d'oro, che affigura -
opera egregia di cesellatura -
un germoglio di vischio in novo stile,
risogno un sogno atroce. Dal monile
divampa quella gran capellatura
vostra, fiammante nella massa oscura.
E pur non vedo il volto giovenile.
Solo vedo che il pettino produce
sempre capelli biondo-bruni e scorgo
un cielo fatto delle loro trame:
un cielo senza vento e senza luce!
E poi un mare... e poi cado in un gorgo
tutto di bande di color di rame.
Piccole dita che baciai, che tenni
fra le mie, pensando ai derelitti
consolati di affanni e di delitti
dal gioco delle mani dodicenni:
o le tue mani, bimbo, se tu accenni
sui tasti muti, a pena! Ecco, e tragitti
un popolo di sazi e di sconfitti
alle rive del sogno alte e solenni.
E tu non sai! Il suono t'è un trastullo:
tu suoni e ridi sotto il cielo grigio
nostro piccolo gran consolatore!
E l'usignolo, come te, fanciullo,
canta ai poeti intenti al suo prodigio;
e non conosce le virtù canore.
O che l'Eroe che non sa riposi
discenda nella Terra, o che si libri
per le virtù di cifre e d'equilibri
oltre gli spazi inesplorati ed osi
tentar le stelle, o il Nautilo rivibri
e s'inabissi in mari spaventosi:
Maestro, quanti sogni avventurosi
sognammo sulle trame dei tuoi libri!
La Terra il Mare il Cielo l'Universo
per te, con te, poeta dei prodigi,
varcammo in sogno oltre la scienza.
Pace al tuo grande spirito disperso,
tu che illudesti molti giorni grigi
della nostra pensosa adolescenza.
Ciaramella che a' verd'anni
fu l'amica del Gran Re
(era prode e più non c'è,
era bella e ha settant'anni),
Ciaramella la comare
con il fuso e la conocchia,
se ne viene tutta spocchia
sulla soglia per filare.
«Che furori, cari miei!
Delle belle la più bella
(ora, già, non son più quella:
parlo del cinquanta... sei...).
E gioielli e sete fine
(ora già non son più quella)
e la chioma ricciutella
fino a mezza crinoline;
occhi neri ed i più bei
denti, sana, bionda, snella
(ora già non son più quella;
parlo del cinquantasei!).»
Nella tabe che la rôde
fila: tira prilla accocca
con il filo della rocca
i ricordi del Re Prode.
«Egli, fiero alla battaglia
nell'ardore delle squadre,
qui passava come un padre
vero padre dell'Italia...
Ma cessarono i favori
con il Tempo e con la Morte:
ora filo a mala sorte
per le tele dei signori...»
Un soffiar di tramontana
scende giù dalla foresta:
fa tremare ciò che resta
della regia cortigiana.
Tira, prilla, accocca, immota,
ma s'inchina a volta a volta
col pennecchio, intenta, e ascolta
i ricordi che la ruota
le sussurra nell'orecchio...
E la canape l'innonda,
disfacendosi, il pennecchio,
d'una gran cesarie bionda.
«Ciaramella come sei
bionda! Torni in gioventù!»
- e la canape la illude -
«siamo del cinquantasei...
Ciaramella sta sicura
che Gli piaci, Ciaramella!»
Ella sogna... Crede quella
la sua gran capellatura.
«Ecco i miei capelli d'oro!
Vo' spartirmeli in due bande:
su recate le ghirlande,
perché ormai lascio il lavoro.
Chi mi disse della fine?
Il Passato... l'Avvenire...
Oh! Li scialli Casimire,
oh le gonne a crinoline!...
Dite al Re che delle belle
la più bella...» E resta immota,
resta prona sulla ruota.
Già s'accendono le stelle.
nella notte fresca e oscura:
la vecchietta sonnolenta
dolcemente s'addormenta
nella gran capellatura.
Ecco, e all'alba, in su la rocca
prona è ancor la Ciaramella.
«Ciaramè, non sei più quella?»
E un'amica va e la tocca.
Ma si ferma in sulla porta
e poi grida all'impazzata:
«Ciaramella morta! Morta!
Satanasso l'ha portata!».
Ritorna col redo,
mi guarda sott'occhi;
un bacio le chiedo:
mi fissa nelli occhi
con occhi sicuri -
e vuole
che giuri.
- O molle trifoglio,
o mani di gelo!
Che bene ti voglio!
Ti giuro sul cielo! -
Solleva una mano,
mi dice:
«è lontano!».
- Che sete di baci!
Morire mi pare.
Ah! Come mi piaci!
Ti giuro sul mare! -
Riflette un secondo,
mi dice:
«è profondo!».
Biancheggia sospesa
in fondo al tratturo
la Chiesa. - Ti giuro
fin sopra la Chiesa! -
Sorride bambina,
mi dice:
«è calcina!».
- Il fieno ci copra.
Ah! T'amo di fiamma!
Ti giuro fin sopra
la testa di mamma: -
Mi guarda supino,
mi dice:
«assassino!».
M'irride, ma poi
si piega «...m'inganni?»
- Ti giuro, se vuoi,
pei belli vent'anni! -
Solleva lo sguardo,
mi dice:
«bugiardo!».
Tempo che i sogni umani
volgi sulla tua strada:
la chioma che dirada,
le case dei Titani,
o tu che tutte fai
vane le nostre tempre:
e vano dire sempre
e vano dire mai,
se dunque eternamente
tu fai lo stesso gioco
tu sei una ben poco
persona intelligente!
Cangiare i monti in piani
cangiare i piani in monti,
deviare dalle fonti
antiche i fiumi immani,
cangiar la terra in mare
e il mare in continente:
gran cosa non mi pare
per te, onnipossente!
Giocare con le cellule
al gioco dei cadaveri:
i rospi e le libellule
le rose ed i papaveri
rifare a tuo capriccio:
poi cucinare a strati
i tuoi pasticci andati
e il nuovo tuo pasticcio:
ma, scusa, ci vuol poca
intelligenza! Basta -
di' non ti pare? - basta
il genio d'una cuoca.
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Inganno la tristezza
con qualche bella favola.
Il saggio ride. Apprezza
le gioie della tavola
e i libri dei poeti.
La favola divina
m'è come ai nervi inqueti
un getto di morfina,
ma il canto più divino
sarebbe un sogno vano
senza un torace sano
e un ottimo intestino.
Amo le donne un poco -
o bei labbri vermigli! -
Tempo, ma so il tuo gioco:
non ti farò dei figli.
Ah! Se noi tutti fossimo
(Tempo, ma c'è chi crede
di darti ancora prede!)
d'intesa, o amato prossimo,
a non far bimbi (i dardi
d'amor... fasciare e i tirsi
di gioia; - premunirsi
coi debiti riguardi),
certo - se un dio ci dòmini -
n'avrebbe un po' dispetto;
gli uomini l'han detto:
ma «chi» sono gli uomini?
Chi sono? È tanto strano
fra tante cose strambe
un coso con due gambe
detto guidogozzano!
Bada che non ti parlo
per acrimonia mia:
da tempo ho ucciso il tarlo
della malinconia.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita:
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Rido nell'abbandono:
o Cielo o Terra o Mare,
comincio a dubitare
se sono o se non sono!
Ma ben verrà la cosa
«vera» chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l'erta faticosa?
Né voglio più, né posso.
Più scaltro degli scaltri
dal margine d'un fosso
guardo passare gli altri.
E mi fan pena tutti,
contenti e non contenti,
tutti pur che viventi,
in carnevali e in lutti.
Tempo, non entusiasma
saper che tutto ha il dopo:
o buffo senza scopo
malnato protoplasma!
E non l'Uomo Sapiente,
solo, ma se parlassero
la pietra, l'erba, il passero,
sarebbero pel Niente.
Tempo, se dalla guerra
restassi e dall'evolvere
in Acqua, Fuoco, Polvere
questa misera Terra?
E invece, o Vecchio pazzo,
dà fine ai giochi strani!
Sul ciel senza domani
farem l'ultimo razzo.
Sprofonderebbe in cenere
il povero glomerulo
dove tronfieggia il querulo
sciame dell'Uman Genere.
Cesserebbe la trista
vicenda della vita e in sogno.
Certo. Ma che bisogno
c'è mai che il mondo esista?
I.
O il tetro Palazzo Madama...
la sera... la folla che imbruna...
Rivedo la povera cosa,
la povera cosa che m'ama:
la tanto simile ad una
piccola attrice famosa.
Ricordo. Sul labbro contratto
la voce a pena s'udì:
«O Guido! Che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?»
II.
Sperando che fosse deserto
varcammo l'androne, ma sotto
le arcate sostavano coppie
d'amanti... Fuggimmo all'aperto:
le cadde il bel manicotto
adorno di mammole doppie.
O noto profumo disfatto
di mammole e di petit-gris...
«Ma Guido che cosa t'ho fatto
di male per farmi così?».
III.
Il tempo che vince non vinca
la voce con che mi rimordi,
o bionda povera cosa!
Nell'occhio azzurro pervinca,
nel piccolo corpo ricordi
la piccola attrice famosa...
Alzò la veletta. S'udì
(o misera tanto nell'atto!)
ancora: «Che male t'ho fatto,
o Guido, per farmi così?».
IV.
Varcammo di tra le rotaie
la Piazza Castello, nel viso
sferzati dal gelo più vivo.
Passavano giovani gaie...
Avevo un cattivo sorriso:
eppure non sono cattivo,
non sono cattivo, se qui
mi piange nel cuore disfatto
la voce: «Che male t'ho fatto,
o Guido per farmi così?».
«...l'una a soffrire e l'altro a far soffrire.»I.
- «O Poeta, la tua mamma
che ti diede vita e latte,
che le guance s'è disfatte
nel cantarti ninna-nanna,
lei che non si disfamò,
perché tu ti disfamassi,
lei che non si dissetò,
perché tu ti dissetassi,
la tua madre ha fame, tanta
fame! E cade per fatica,
s'accontenta d'una mica;
tu soccorri quella santa!
Ella ha sete! Non t'incresca
di portarle tu da bere:
s'accontenta d'un bicchiere,
d'un bicchiere d'acqua fresca.»
- «Perché sali alle mie celle?
Che mi ciarli, che mi ciarli?
Non concedo mi si parli
quando parlo con le Stelle.
Mamma ha fame? E vada al tozzo
e potrà ben disfamarsi.
Mamma ha sete? E vada al pozzo
e potrà ben dissetarsi.
O s'affacci al limitare,
si rivolga alla comare:
ma lasciatemi sognare,
ma lasciatemi sognare!»
II.
- «O Poeta, la tua mamma
che ti diede vita e latte,
che le guance s'è disfatte
nel cantarti ninna-nanna,
la tua mamma che quand'eri
ammalato t'assisteva,
non mangiava, non beveva
nei tristissimi pensieri,
lei che t'era sempre intorno
per rifarti sano e forte
per contenderti alla Morte,
e piangeva, notte e giorno
invocava Gesù Cristo
e la Vergine Maria:
o Poeta! ed oggi ho visto
la tua madre in agonia!
Oh! l'atroce dipartita!
Chinerai la testa bionda
sulla fronte incanutita
della santa moribonda?»
- «Taciturna è la fortuna.
Che mi ciarli, che mi ciarli?
Non concedo mi si parli
quando parlo con la Luna!
Forse che dallo speziale
non c'è benda e medicina?
Forse che nel casolare
non c'è Ghita la vicina?
La vicina a confortare,
medicina a risanare:
ma lasciatemi sognare,
ma lasciatemi sognare!»
III.
- «O Poeta, la tua mamma
che ti diede vita e latte,
che le guance s'è disfatte
nel cantarti ninna-nanna,
- odi, anco se t'annoia! -
lei che t'ebbe come un sole,
che t'apprese le parole
che ora sono la tua gioia,
la tua mamma in sulla porta
fu trovata sola e morta!
Sola e morta chi sa come
singhiozzando nel tuo nome...
Vieni a piangere la cara,
prima che altri le ritocchi
giù le palpebre sugli occhi
e la metta nella bara.
Son le donne già raccolte
là, nell'opera funesta:
ma tu chiamala tre volte
s'ella vuol che tu la vesta.»
- «Che mi dici, che mi dici,
che mi parli tu di lutto?
Non intendo ciò che dici
quando parlo con il Tutto.
Forse che lamentatrici
non ci sono a lamentare?
Forse che becchini e preti
non ci sono a sotterrare?
E la fate lamentare
e la fate sotterrare:
ma lascatemi sognare,
ma lasciatemi sognare!
Ma lasciatemi sognare!»