Tu parlavi, Mamma: la melodia della voce suscitava alla mia mente la visione del tuo sogno perduto. Or ecco: ho imprigionato il sogno con una sottile malia di sillabe e di versi e te lo rendo perché tu riviva le gioie della giovinezza.Non turbate il silenzio. Tutto tace
O pace, pace! Poiché nulla spera
ormai la donna declinante. Invano
fiorisce di viole il colle e il piano:
non ritorna per lei la primavera.
Oh antiche primavere! Oh i suoi vent'anni
oimè per sempre dileguati. Quanto,
oh quanto ella ha sofferto e come ha pianto!
Atroci sono stati i suoi affanni.
Nulla più spera ormai: però la bella
timida primavera che sorride
dilegua la mestizia che la uccide,
e un sogno antico in lei si rinnovella.
Non pure ieri il piede ella volgea
allo stagno che l'isola circonda?
Ella recava un libro ove la bionda
reina per il paggio si struggea:
(avea il volume incisioni rare
dove il bel paggio con la mano manca
alla donna offeria la rosa bianca
e s'inchinava in atto d'adorare).
O sogni d'altri tempi, o tanto buoni
sogni d'ingenuità e di candore,
non sapevate il vuoto e il vostro errore
o innocenti d'allor decameroni!
Ella col libro qui venia leggendo
e a quando a quando in terra s'inchinava
la mammola, l'anemone, e la flava
primula prestamente raccogliendo.
Oh tutto Ella ricorda: le turchine
rose trapunte della bianca veste,
la veste bianca in seta, e la celeste
fascia che le gonfiava il crinoline.
Poi apriva il cancello, e il ponte stesso
dove or riposa la persona stanca
allora trascorreva agile e franca
né s'indugiava come indugia adesso.
Poi entrava nell'isola, e furtiva
in fra il tronco del tremulo e del faggio
guatava se al boschivo romitaggio
l'amico del suo sogno conveniva.
Oh tutto Ella ricorda! Ecco apparire
l'Amato: giunge al margine del vallo
dell'acque, e raffrenato il suo cavallo
il cancello la supplica d'aprire.
«Non dunque accetta è l'umile dimanda
del vostro paggio, o bella castellana?
Combattuto ha per voi; fatto gualdana
egli ha per voi, magnifica Jolanda.»
Egli disse per gioco. D'un soave
sorriso ella rispose: assai le piacque
il madrigale, ed al di là dell'acque,
sorridendo d'amor, getta la chiave.
Oh tutto Ella rammemora. Non fu
ieri? No, non fu ieri. Il lungo affanno
ella dunque già scorda? O atroce inganno
quel dolce aprile non verrà mai più...
Non turbate il silenzio. Tutto tace
verso la donna rivestita a lutto,
la campagna, lo stagno, il cielo, tutto
illude la dolente... O pace, pace!
Sopra lo sfondo scialbo e scolorito
surge il profilo della donna intenta,
esile il collo; la pupilla spenta
pare che attinga il vuoto e l'infinito.
Avvolta d'ermesino e di sciamito
quasi una pompa religiosa ostenta;
niuna mollezza femminile allenta
l'esilità del busto irrigidito.
Tien fra le dita de la manca un giglio
d'antico stile, la sua destra posa
sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.
Niuna dolcezza è ne l'aspetto fiero;
emana da la bocca lussuriosa
l'essenza del Silenzio e del Mistero.
A Voi, casta P.Dal pavimento di musaico, snelli
Quivi posava un vaso - trionfale
sculptura greca - e ai dì lontani e belli
di Venere accorrean schiave a drappelli
per colmarlo di mirra e d'aromale.
E le turbe obliavano l'orrore
aspirando l'aulir dell'incensiere
lenitore d'affanni e di dolore.
Simile a l'urna Voi amo vedere,
dolce Signora, che col vostro amore,
m'offerite la coppa del Piacere.
...Princesse, pardonnez, en lisant cet ouvrage Si vous y retrouvez, crayonnés par ma main, Les traits charmant de votre image: J'ai voulu de mes vers assurer le destin... (Le chevalie de Florian à la Sérénissime Princesse de Lamballe)Poi che il romano Uccello lo stendardo
Surgesti minaccioso e nelle guerre
che devastaron la campagna opima
gran nerbo di guerrieri entro rinserre.
Allora Duca non v'era non Reïna,
ma molti feditori e balestrieri
per il peggio dell'oste e la ruina.
Rozzo sorgevi allora, ma tra i neri
fianchi adunavi impavida coorte
d'uomini armati di coraggio e fieri.
Da i tuoi muri turriti da la forte
ossatura dei fianchi da i bastioni
le bertesche gittavano la morte
su i signori feudali, su i baroni
vogliosi di posar la man predace
su nuove terre e aver nuovi blasoni.
L'Evo Medio passò, ma non si tace
per anco il ferro: i Conti San Martino
nell'antico manier non hanno pace.
Il Torresan, secondo Attila, insino
questi colli per ordine di Francia
porta guerra con suo stuolo ferino.
Ma il Bassignana sua coorte slancia
e, mentre fra le braccia di Leonarda
meretrice quei dorme, ecco l'abbrancia.
Nel diruto castello fino a tarda
etade vive Donna Caterina
sposa esemplare in epoca beffarda.
E contro il Cardinale che Cristina
di Francia come sua suddita guarda
Don Filippo difende la Regina.
Per alcun tempo qui, quando la tarda
baronia declinò, ristette l'urna
che d'Arduino il cenere riguarda.
Ma invidïosa poi ladra notturna
viene coi bravi antica Marchesana,
l'urna si toglie e fugge taciturna.
O quante larve vivono d'arcana
vita in miei sogni! Parlano gli abeti
del grande parco, s'anima la piana
dei prati illustri. Appare fra i laureti
bella ospite del Re Carlo Felice
Maria Luisa da i grandi occhi inquieti
ed ecco il Re che un'era nuova indice,
ecco Maria Cristina sua consorte,
ecco risorta l'epoca felice.
Così mentre m'aggiro e su le morte
foglie premo col piede lungo il viale
mille imagini son da me risorte.
E tutto tace. Non il sepolcrale
silenzio rompe il suono delli squilli
non latrato di veltri. L'autunnale
luce è silente. Non canto di grilli
estivo e roco. Solo indefinito
fievole viene un suono di zampilli.
È il ferro di cavallo. Quivi ardito
sul delfino cavalca ancor Nettuno
di verdi-gialli licheni vestito.
Le sirene lapidee dal bruno
manto di musco accennano al ferrigno
Signor del luogo. E non risponde alcuno.
Però su l'acque in tempo eguale il Cigno
muove le palme con ritmo silente
e volge attorno l'occhio fiero e arcigno.
Sogna ancor forse Leda nelle intente
pupille nere lungo la divina
sponda d'Eurota? Ahimè, la Dea è assente.
Ma fra i mirti, fra i lauri la Regina
del luogo appare cavalcante e bionda
come bianca matrona bizantina.
Avanza il baio fino su la sponda
del bacino. Si specchia trepidante
la signora nell'acqua. E il sol la inonda.
E l'erme antiche memori di tante
Iddie pagane del bel mito assente
la rediviva Diana cavalcante
guatano immote, misteriosamente.
Laudato sii, mi Domine, cum tucte le criature (FRATE SERAFICO: Cantico del sole) O figlio, canta anche il tuo alloro! Laus vitae - GABRIELE D'ANNUNZIO)Laudata sii dal figlio
Ho un biasimo solo dal quale
saprai la mia gioia di vita.
Perché non mi hai fatto immortale?
Ecce Ancilla Domini. Fiat mihi secundum verbum tuum. (Salmo dell'Immacolata Concezione)Il volto un poco inchina
Il piucheumano mesto
volto sacerdotale
l'assembra una vestale
senza parola e gesto.
Da lunga data tiene
i frutti contro il seno,
né i polsi vengon meno
nella fatica lene.
Ardon di pari ardore
i frutti della Terra
ch'Ella commisti serra
con quelli dell'Amore.
E nel suo cuore ascoso
un brivido la scuote:
pensa dolcezze ignote
in braccio dello Sposo.
Quando l'Annunciatore
verrà nel suo cospetto
recando il bacio e il detto
del dolce suo Signore,
allor su l'origliere
per Lui tutti disserra
e i frutti della Terra
e i frutti del Piacere.
Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un'ora, già langue l'aromale
fior che m'offerse la mia dolce Amica?
Ché la verbena vi languisce, quale
la Donna amante il biondo Garcilaso
già martoriata dal segreto male.
Io so quel male: il calice del vaso
la bella mano - o gran disavventura! -
col ventaglio d'avorio urtò per caso.
E pur bastò. La lieve incrinatura
è insanabile ormai; il morituro
fiore s'inchina, stanco, nell'arsura,
ché la ferita del cristallo duro
tacitamente compie tutto il giro
per cammino invisibile e sicuro.
Vanisce l'acqua e muore il fiore. Io miro
il calice mortifero che serba
quasi non traccia di ferita in giro,
e una assai trista simiglianza e acerba
sento fra il vetro e il calice d'un cuore
sfiorato a pena da una man superba.
La ferita da sé, senza romore,
il calice circonda nel rotondo
e il fior d'amore a poco a poco muore.
Il cuor che sano e forte pare al mondo
sèrpere senta la segreta pena
in cerchio inesorabile e profondo.
E pur la mano l'ha sfiorata a pena...
Perché nel vetro di Boemia antica,
dopo un'ora, già langue la verbena
che vi compose la mia dolce Amica?
I.
Giugno. Per le finestre il sole inonda
la bella stanza d'una luce aurina:
freme la messe ai solchi della china,
la messe ormai matureggiante e bionda.
La bruna sposa sede alla vicina
cuna ancor vuota: pare ch'Ella asconda
un gran segreto quando l'occhio inchina
al seno stanco che l'amor feconda.
È la cuna ancor vuota, ma Ella sente
che l'ora dell'avvento è assai vicina
che ben presto il Messia sarà presente.
E a quel pensiero il bruno capo inchina
al lavoro sottil, le mani adopra
su le fasce su i lini su la trina.
II.
Ottobre. Per i vetri Autunno inonda
la bella stanza delle luci estreme:
vanno i bifolchi cospargendo il seme
su per la china con canzon gioconda.
La sposa agonizzante in su la sponda
del letto sta riversa e più non geme
e accanto a lei nato e morto insieme
è il bambino difforme. Una profonda
quiete è d'intorno: sopra il lin vermiglio
tutto di sangue che un baglior rischiara
la sposa muore, bianca come un giglio.
La Morte, intanto, il feretro prepara:
e l'alba di diman la madre e il figlio
saran racchiusi nella stessa bara.
Serrati i pugni bianchi come cera
giace supino in terra arrovesciato
e la faccia pel rivo insanguinato
è quasi nera.
Con orrido rilievo l'apertura
della ferita tutto il sangue aduna
su la nuca, sul collo, su la bruna
capellatura.
Giace supino. E non sembra dolere
la bella bocca. Quasi ch'Egli avvinga
ancor la Donna e la sua bocca attinga
tutto il piacere.
Due lumi sopra un cofano. Quei lumi
rischiarano il silenzio sepolcrale:
allineati stan nello scaffale
mille volumi
che alluminava un mastro fiorentino
d'orifiamme e d'armille in cento nodi.
Aperti sul divano soni i «Modi»
dell'Aretino
e sul divano è un guanto che rimosse
qui, nell'entrar, la Donna del Convito
ed un mazzo sfasciato ed avvizzito
di rose rosse.
Guata con gli occhi di mestizia pieni
in capo al letto sull'arazzo infisso
dolentemente immoto il crocifisso
di Guido Reni.
Notte e silenzio intorno. Tutto tace.
Come in un sogno d'armonia perplessa
al Poeta ventenne è già concessa
l'ultima pace.
Il passato obliar, veder sagace in un dolce avvenir, forse non vero ma che rinnova quanto è più fallace... BONTEMPELLI: Egloghe («Le Compagne»)I.
Poeta, or che più lieto arride Maggio
ritornerai al verde nido ombroso
«con Quella che d'Amor ti tiene ostaggio».
E lieto più che mai ti sia il riposo
però che al tuo fratello hai dato il bene
del libro salutifero e gioioso.
Il senso della Vita alle mie vene
ritorna ed alla mente il dolce lume
e fuggonsi i fantasmi di mie pene
se vado rileggendo il tuo volume.
II.
Ma tu non sa ch'io sia: io son la trista
ombra di un uomo che divenne fievole
pel veleno dell'«altro evangelista».
Mia puerizia, illusa dal ridevole
artificio dei suoni e dagli affanni
di un sogno esasperante e miserevole,
apprestò la cicuta ai miei vent'anni:
amai stolidamente, come il Fabro,
le musiche composite e gl'inganni
di donne belle solo di cinabro.
III.
Or troppo il sole aperto mi commuove
tanto fui uso alla penombra esigua
che avvolgon le cortine delle alcove.
Tu mi richiami alla campagna irrugua?
Troppo m'illuse il sogno di Sperelli,
troppo mi piacque nostra vita ambigua.
O benedetti siate voi, ribelli,
che verso la salute e verso il vero
ritemprate le sorti dei fratelli.
Per me nulla tentar. Più nulla spero.
IV.
Me non solleverai. Forse già sono
troppo malato e forse più non vale
temprarmi alle terzine del tuo dono.
Però senti e rispondimi: già un tale
morbo tenne te pur? Tu pur malato
fosti e guaristi del mio stesso male?
Sorella Terra dunque t'ha sanato?
Io pure ne andrò a lei, ma le mie smorte
membra distenderò, come il Beato,
per aspettare la sorella Morte.
Nel fino cerchio di chelonia e d'oro -
ove un ignoto artefice costrinse
il bel sembiante, poi che lo dipinse
sopra l'avorio, con sottil lavoro -
per qual virtù la dama antica avvinse
il pallido nipote? In qual tesoro
di sogni fu che il giovinetto attinse
la mestizia più dolce dell'alloro?
L'Ava mi guata. - Nella manca ha un giglio
di stile antico; la sua destra posa
sopra il velluto d'un cuscin vermiglio.
Nïuna dolcezza è nell'aspetto fiero:
emana dalla bocca disdegnosa
l'orgoglio, la tristezza ed il mistero.
Stagioni che le copie
dei fiori e delle ariste
arrecano commiste
entro le cornucopie,
Diane reggenti l'arco
e le braccia protese
e le pupille intese
verso le prede al varco,
Leda che si rimira
nell'acque con il reo
candido cigno, Orfeo
che accorda la sua lira,
Giunone, Ganimede,
Mercurio, Deucalione
e tutta la legione
di un'altra morta fede:
erme tutelatrici
di un bello antico mito,
del mio tedio infinito
sole consolatrici,
creature sublimi
di marmo, care antiche
compagne e sole amiche
dei miei dolci anni primi;
ecco: ritorno a Voi
dopo una lunga assenza
senza più vita, senza
illusïoni, poi
che tutto m'ha tentato,
tutto: anche l'immortale
Gloria, e il Bene ed il Male,
e tutto m'ha tediato.
La bisavola mia
voi già consolavate
ed ora consolate
pur la malinconia
del pallido nipote.
Parlategli dell'Ava
quando pellegrinava
nell'epoche remote
recando i suoi affanni
per questi stessi viali
all'ombre sepolcrali,
or è più di cent'anni.
È certo che la stessa
mia pena la teneva
però che un senso aveva
fine di poetessa.
Soltanto a dolorare
veniva a questa volta
oppure qualche volta
piacevale rimare
cantando il suo dolore
tra Voi, erme, lungh'essi
i bussi ed i cipressi,
e il suo lontano amore?
Era la sua figura
meravigliosa e fina,
la bocca piccolina
qual nella miniatura?
Divisi i bei capelli
in due bande ondulate
siccome le beate
di Sandro Botticelli?
Aveva un peplo bianco
di seta adamascata
e che la grazia usata
apriva un po' di fianco?
(In vano l'apertura
fermavan tre borchiati
finissimi granati,
ché la camminatura
lenta scopriva all'occhio
il polpaccio scultorio
e la gamba d'avorio
fino quasi al ginocchio.)
Portava un cinto a belle
Meduse in ciel sereno
che costringeva il seno
fin sopra delle ascelle?
Ed ostentava i bei
piedini incipriati
da i diti costellati
di gemme e di cammei?
I fauni si piegavano a guatarne
cupidi la bellezza; al suo passare
volgevansi le iddie, a riguardare
la sorella magnifica di carne.
Ma non sempre fu sola. Un dì riscosso
sembrò il ricordo delle antiche larve:
la Poetessa in quel mattino apparve
tutta vestita di broccato rosso.
Anche recava, contro il suo costume,
due rose rosse nelle nere chiome:
lucevan le pupille azzurre come
rinnovellate da inconsueto lume.
Scende nel parco e pone sovra un coro
due libri: Don Giovanni e Parisina.
Poi trascolora: un'ombra s'avvicina
fra i boschetti del mirto e dell'alloro.
Chi viene? Ecco nel folto delle verdi piante
un giovane bellissimo avanzare
(Anima, non tremare, non tremare.)
ed il suo passo è un poco claudicante.
Chi viene dunque ai sogni ed all'oblio?
(Anima, non tremare, non tremare.)
Ha l'iridi color di verde mare;
nelle sembianze è simile ad un dio.
È Lui, è Lui che vien per la maestra
strada dei lauri. Or ecco, è già da presso
(ed era questo il luogo? questo stesso?)
Vedo già l'Ava porgergli la destra
e il Poeta ribelle dei Britanni
la bianca mano inchinasi a baciare
(Anima, non tremare, non tremare)
fra questi bussi... Or è quasi cent'anni.
Anche né malinconico né lieto
(forse la consuetudine assecondo
cara d'un tempo al bel fanciullo biondo)
oggi varco la soglia del frutteto.
Ah! Vedo, vedo! Come lo ravviso!
È bene questo il luogo; in questa calma
conchiusa, certo l'intangibil salma
giacque per sempre dell'amor ucciso,
del vero antico Amore ch'io cercai
malinconicamente per l'inquieta
mia giovinezza, la raggiante mèta
sì perseguìta e non raggiunta mai.
Or mi soffermo con pupille intente:
le cose mi ritornano lontano
nel Tempo - irrevocabile richiamo! -
mi rivedo fanciullo, adolescente.
O belle, belle come i belli nomi,
Simona e Gasparina, le gemelle!
Pur vi rivedo in vesta d'angelelle
dolce-ridenti in mezzo a questi pomi.
Ed anche qui le statue e le siepi
ed il busso ribelle alle cesoie.
(Natali dell'infanzia, o buone gioie,
quando n'ornavo i colli dei presepi!)
Ma sull'erme, sui cori, sopra il busso
simmetrico, sui lauri, sugli spessi
carpini, sulle rose, sui cipressi,
sulle vestigia dell'antico lusso
da cento anni un folto si compose
di pomi e peri; il regno statuario
ricoperse; nel florido sudario
sfiorirono le siepi delle rose;
nell'ombre il musco ricoperse i cori
curvi di marmo intatto (l'Antenata
non vede lo sfacelo, contristata?)
e nell'ombre languirono gli allori.
Son l'ombre di una gran pace tranquille:
il sole, trasparendo dall'intrico,
segna la ghiaia del giardino antico
di monete, di lunule, d'armille.
M'avanzo pel sentiero ormai distrutto
dalla gramigna e dal navone folto;
ascolto il gran silenzio, intento, ascolto
il tonfo malinconico d'un frutto.
Ma quanti frutti! Cadono in gran copia
in terra, sui busseti, sui rosai:
sire Autunno, quest'anno come mai,
munifico vuotò la cornucopia.
O gioco strano! Pur nella faretra
di Diana cadde una perfetta pera,
così perfetta che non sembra vera
ma sculturata nell'istessa pietra.
Il frutto altorecato assai mi tenta:
balzo sul plinto, il dono della Terra
tolgo alli acuti simboli di Guerra,
avvincendomi all'erma sonnolenta.
S'adonta ella, forse, ch'io la tocchi,
l'erma dal guardo gelido e sinistro?
(il tempo edace lineò di bistro
le palpebre lapidee delli occhi).
Ma un sorriso ermetico, ha la faccia
attirante, soffuso di promesse,
- O miti elleni! - s'ella mi stringesse
d'improvviso, così, tra le sue braccia! -
E tolgo e mordo il frutto avventurato
e mi pare di suggere dal frutto
un'infinita pace, un bene, tutto
tutto l'oblio del tedio e del passato.
Ma guardo in torno. Vedo teoria
d'erme ridenti in loro bianche clamidi,
ridendi tra le squallide piramidi
del busso. - Torna la malinconia:
Ridevano così quando mio padre
esalò la grande anima e pur tali
(udranno allor le mie grida mortali?)
sorrideranno e morirà mia madre.
Ridevano così che nella culla
dormivo inconsapevole d'affanno:
implacabili ancor sorrideranno
quando di me non resterà più nulla.
per l'amico Silla Martini de Valle ApertaI.
Il corruscante cielo d'Oriente
a gran distesa lodano gli uccelli,
Aurora arrossa i bianchi capitelli
sul tempietto di Leda, intensamente.
Tolgon commiato tra le faci spente
gli ospiti stanchi. Un servo aduna i belli
fiori che inghirlandano i capelli
e li gitta allo stagno, indifferente.
Le rose aulenti nella notte insonne,
le rose agonizzanti, morte ai baci
nelle capellature delle donne,
scendon piano con l'alighe tenaci,
in su la melma livida e profonda,
con le viscide larve dei batraci.
II.
Pace alle rose in fondo dello stagno,
in loro fredda orrenda sepoltura;
pur anche la sua gran capellatura
dischioma l'olmo il pioppo ed il castagno.
Il cigno guata, mutolo e grifagno,
lo stagno ricolmarsi di frondura.
Silla, sognamo. Tutto ci assicura
l'ultima pace e l'ultimo guadagno.
Guarda, fratello: innumeri le foglie
attorte e rosse e gialle, senza strazio,
distaccansi dal ramo, lentamente;
la Madre antica in sé tutte le accoglie.
Sognamo, Silla, memori d'Orazio,
quel sogno confortante che non mente.
III.
Perché morire? La città risplende
in Novembre di faci lusinghiere;
e molli chiome avrem per origliere,
bendati gli occhi dalle dolci bende.
Dopo la tregua è dolce risapere
coppe obliate e trepide vicende -
bendati gli occhi dalle dolci bende -
novellamente intessere al Piacere.
Ma pur cantando il canti di Mimnerno
sento che morta è l'Ellade serena
in questo giorno triste ed autunnale.
L'anima trema sull'enigma eterno;
fratello, soffro la tua stessa pena:
attendo un'Alba e non so dirti quale.
Che giovò dunque il gesto di chi disse:
«Il gran Pan non è morto! Ecco la via
dell'allegrezze nove. Ovunque sia
dato l'annunzio del novello Ulisse!
Il flavo Galileo che ci afflisse
di tenebrore e di malinconia
e quella scialba vergine Maria
e quella croce diamo alle favisse!»?
Nulla giovò. L'impavide biasteme
non rianimeran lo spento sguardo
dei numi elleni sugli antichi marmi.
«Lor giuventude vive sol nei carmi.»
Secondo la parola del Vegliardo
il fato ineluttabile li preme.
Nell'impero dell'acque e delle nubi
dove regnava il pecoraio e il gregge,
o Numero, già fatta è la tua legge
dalla potenza delli ordegni indubi.
Conduce un filo il moto che tu rubi
all'acqua e vola cento miglia e regge
gli opifici rombanti di pulegge
e di magli terribili e di tubi.
Ben riconosco il Verso tuo fratello
onnipossente Numero! Tu fai
a noi men disagevole il sentiero.
E il tuo parente più leggiadro e snello
ci fiorisce le soste di rosai
e di menzogne dolci più del Vero.
Dalle finestre medioevali e oscure
non più le dame guardano i cavalli
e i cavalier passar per queste valli,
corruscanti di lucide armature.
Dalle finestre medioevali e oscure
non più ridon le dame ai bei vassalli,
ma i garofani bianchi, rossi, gialli
protendono le gran capigliature...
Pace e Silenzio! Fiori alle finestre
che invitano a piacevoli pensieri!
Ed ecco in alto, nel dirupo alpestre
fra le balze dei ripidi sentieri
Voi, o Maria, Voi che date al vento
il dolce riso e i bei capelli neri!
per una «demi-vierge»I.
Non ti conobbi mai. Ti riconosco.
Perché già vissi; e quando fui ministro
d'un rito osceno, agitator di sistro
t'ho posseduta al limite d'un bosco.
Bene ravviso il sopracciglio fosco
le bande fulve... Chi segnò di bistro
l'occhio caprino gelido sinistro?
Or ti rivedo in un giardino tosco,
vergine impura, dopo mille e mille
anni d'esilio. Tu, fatta Britanna,
scendi in Italia a ricercarvi il sogno.
Sono tre mila anni che t'agogno!
Ma com'è lungi il sogno che m'affanna!
Dove sono la tunica e le armille?
II.
Dove sono la tunica e le armille
d'elettro che portavi a Siracusa?
E le fontane e i templi d'Aretusa
e l'erme e gli oleandri delle ville?
Del tempo ti restò nelle pupille
soltanto la lussuria che t'accusa,
vergine impura dalla fronte chiusa
tra le due bande lucide e tranquille.
E questa sera tu lasci le danze
(per quel ricordo al limite d'un bosco?)
tutta fremendo, come un'arpa viva.
Giungono i suoni dalle aperte stanze
fin nel giardino... O bocca! Riconosco
bene il profumo della tua genciva!
I.
Noi ci vedemmo sotto cieli tetri,
vite di Cipro, al tempo che tu arricci
pochi rimasti pampini ed arsicci
sui tralci immiseriti come spetri.
Ci rivediamo che ricopri i vetri
di verde folto, allacci di viticci
e attingi coi tuoi grappoli biondicci
la loggia, in alto, più di venti metri.
Chi vede le tue prime foglie vizze,
o loggia solatia, in Vigna Colta,
come un'amica dolce ti ricorda.
Tu fosti che indulgesti alle sue bizze,
quando Centa vietava la raccolta
alla piccola mano troppo ingorda.
II.
M'è caro, loggia, poi che le tue pigne
la nuova luna di settembre invaia,
piluccare i bei chicchi a centinaia
fra le grandi compagini rossigne.
Più mi compiaccio in te che nelle vigne,
ma, poiché getto i fiocini ne l'aia,
Centa s'avvede, Centa la massaia
mi ricerca con l'iridi benigne.
«Bevesti il latte che non è mezz'ora!
Uva e latte dispandon per le membra
tossico fino! Quella gola stolta!...»
Sgridami, Centa! Sali come allora
a condurmi pel braccio via! mi sembra
che tu debba allevarmi un'altra volta...
Tu dici bene: è tempo che consacri
ai fratelli la mente che si estolle
anche il poeta, citaredo folle
rapido negli antichi simulacri!
Non più le tempie coronate d'acri
serti di rose alla Bellezza molle;
venga all'aperto! Canti tra le folle,
stenda la mano ai suoi fratelli sacri!
E tu non mi perdoni se m'indugio,
poiché di rose non si fanno spade
per la lotta dei tuoi sogni vermigli.
Ma un fiore gitterò dal mio rifugio
sempre a chi soffre e sogna e piange e cade.
Eccoti un fiore, o tu che mi somigli!
Perché non tenteremo la fortuna
d'un bel sonetto biascicante in ore
e dove il core rimi con amore
e dove luna rimi con laguna?
Pensiero! - E non bellezza inopportuna.
Sincerità! - Il tema delle «otto ore».
Amore! - Un tal che si trapassa il core
per una sarta, al chiaro della luna.
«Ma che arte, che lima!... Chi s'adopra,
scrivendo, a farsi intendere con poca
fatica, sarà valido e sincero...»
Così farò. Così, lasciata l'opra
del paiolo e del mestolo, la cuoca
dirà con te: «Ma qui c'è del pensiero!».
Non mai - dico non mai - così m'infiamma
il senso d'una vita bella e forte
come quando apparite nelle corte
gonnelle d'alpinista, esile damma!
Non m'irridete! Ché nessuna fiamma
come costoro che vi fan coorte
m'invita a seguitar la vostra sorte,
o Margherita, giovinetta Mamma!
O Margherita, mamma diciottenne,
chinatevi sul bimbo vostro e ad ogni
bacio s'unisca l'oro delle teste.
Guardandovi così fu che mi venne
come un rimorso di cattivi sogni
e un desiderio di parole oneste.
Uscite, o capre, or che la luna attinga
la prateria! Il pecoraio dorme.
Giunge sul vento, nella pace enorme
il suono della mitica siringa.
Dolce richiamo! Il dèmone vi cinga
danzando erette. Andate orme su l'orme
dell'amatore musico biforme,
inebbriate dalla sua lusinga.
Danzate, o capre! Steso sulla madia,
chiusi gli orecchi nel berretto frigio
il pecoraio dorme alle Capanne.
O risognate i monti dell'Arcadia,
dimenticate l'onta ed il servigio
sulla dolcezza delle sette canne!
Lodati, o Padri, che per le Madonne
amate nel platonico supplizio,
edificaste il nobile edifizio
eretto su quattordici colonne!
Nulla è più dolce al vivere fittizio
di te, compenso della notte insonne,
non la capellatura delle donne,
non metri novi in gallico artifizio.
Nessuna forma dà questa che dai
al sognatore ebbrezza non dicibile
quand'egli con sagacia ti prepari!
O forma esatta più che ogni altra mai,
prodigio di parole indistruttibile,
come i vecchi gioielli ereditati!
Quegli che sazio della vita grigia
navigò verso l'isole custodi
una levarsi intese fra melodi
voce più dolce della canna frigia:
«Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
al dolce mondo! Pel tuo bene m'odi!
Ché l'acqua stessa dei canori approdi
quella è che nutre la palude stigia».
«Con un fiore il passato si cancella!»
«Cancellerai la faccia della Madre
e della Sposa?» - «Tu sola mi piaci!»
«L'amarsi è bello!» - «Ma tu sei più bella!»
«Fra queste braccia soffrirai!» - «Leggiadre!»
«Verrà la Morte.» - «Pur che tu mi baci!»
a Golia per la molto fogazzariana Circe famelica che tu sai...Un tulle, verdognolo d'alga,
«Positivista irredento
un'ora fraterna e un the raro
a casa vo' darle e il commento
dell'opere di Fogazzaro».
Sì! Vengo! Ideale, convertirci
gli ardori dell'anime calme;
uniscile come le palme
toccantesi solo coi vertici.
Le forme bellissime sue
non curo, o Signora! Il Maestro
(non so se pudìco o maldestro)
ci vieta servircene a due.
Daniele non bacia la bocca,
ma fugge per Fede e Speranza,
vaporeggiando a distanza
l'amor della Donna non tocca.
Ah! Lungi l'orrore dei sensi!
E noi penseremo, o Signora,
l'azzurreggiante d'incensi
Cappella Sistina canora.
Papaveri! E l'ora più blanda
faremo, Signora, con quella
del Sonno tremenda sorella:
(prodigio di versi!...) Miranda.
Dispongo le carni compunte,
Marchesa, mia pura sorella,
la palma pensando, che snella
non lega le basi alle punte.
Le basi... le punte incorrotte...
il the... Fogazzaro... Marchesa!
Ma questo sparato mi pesa!
Non ho la camicia da notte...
L'Iddio che a tutto provvede
poteva farmi poeta
di fede; l'anima queta
avrebbe cantata la fede.
Mi è strano l'odore d'incenso:
ma pur ti perdono l'aiuto
che non mi desti, se penso
che avresti anche potuto,
invece di farmi gozzano
un po' scimunito, ma greggio,
farmi gabrieldannunziano:
sarebbe stato ben peggio!
Buon Dio, e puro conserva
questo mio stile che pare
lo stile d'uno scolare
corretto un po' da una serva.
Non ho nient'altro di bello
al mondo, fra crucci e malanni!
M'è come un minore fratello,
un altro gozzano: a tre anni.
Gli devo le ore di gaudi
più dolci! Lo tengo vicino;
non cedo per tutte Le Laudi
quest'altro gozzano bambino!
Gli prendo le piccole dita,
gli faccio vedere pel mondo
la cosa che dicono Mondo,
la cosa che dicono Vita...
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Ofo ha il naso a patatina
Nani fatto a pisellino
Si risveglian la mattina
stretti insiem vicino vicino
Ofo dice scimiottino
Nani dice scimiottina
E posando la testina
fa la nanna in l'angolino.
Buon Dio nel quale non credo, buon Dio che non esisti,
(non sono gli oggetti mai visti più cari di quelli che vedo?)
Io t'amo! Ché non c'è bisogno di creder in te per amarti
(e forse che credo nell'arti? E forse che credo nel sogno?)
Io t'amo, Purissima Fonte che non esisti, e t'anelo!
(Esiste l'azzurro del cielo? Esiste il profilo del monte?)
M'accolga l'antica Abazia; è ricca di luci e di suoni.
Mi piacciono i frati; son buoni pel cuore in malinconia.
Son buoni. «Non credi? Che importa? Riposati un poco sui banchi.
Su, entra, su, varca la porta. Si accettano tutti gli stanchi.»
Vi seggo - la mente suasa - ma come potrebbe sedervi
un tale invitato dai servi e non dal padrone di casa.
- «Riposati, o anima sazia! Riposati, piega i ginocchi!
Chissà che il Signore ti tocchi, chissà che ti faccia la grazia.»
- «Mi piace il Signore, mi garba il volto che gli avete fatto.
Oh, il Nonno! Lo stesso ritratto! Portava pur egli la barba!»
«O Preti, ma è assurdo che dòmini sul tutto inumano ed amorfo
quell'essere antropomorfo che hanno creato gli uomini!»
- «E non ragionare! L'indagine è quella che offùscati il lume.
Inchìnati sopra il volume, ma senza voltarne le pagine,
o anima senza conforti, e pensa che solo una fede
rivede la vita, rivede il volto dei poveri morti.»
- «O Prete, l'amore è un istinto umano. Si spegne alle porte
del Tutto. L'amore e la morte son vani al tomista convinto.»
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...
E penso pur quale Signora m'avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt'altra Signora non già s'affacciasse alle soglie.
II.
Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa...
Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un'antichissima villa remota del Canavese...
Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell'acqua, e vive con una semplicità di fantesca,
ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:
un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone...
un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,
il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...
III.
Quest'oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d'un giorno d'estate, nel mille e... novecento... quaranta.
(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)
Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l'antico frutteto darebbe i medesimi frutti).
Sopita quell'ansia dei venti anni, sopito l'orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).
Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).
Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città...
la figlia: «...l'evento s'avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza...»
il figlio: «...la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».
Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d'eleganza forbita.
IV.
Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.
Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei - sui settanta - tornato nella gioventù clericale,
poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.
Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d'adesso...
E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi...
Verreste, amici d'adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!
Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.
Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.
Ma non è senza bellezza quest'ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!
La sala da pranzo degli avi più casta d'un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.
La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,
di fumo di zigaro, a nimbi... La sala da pranzo, l'antica
amica dei bimbi, l'amica di quelli che tornano bimbi!
VI.
Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l'aria tranquilla
si cenerebbe all'aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.
Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio...
Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell'ora che trillano i grilli, che l'ago solare s'arresta
tra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all'assalto
e l'ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.
E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d'eleganza forbita:
«Il cielo si mette in corruccio... Si vede più poco turchino...»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.»
«Peccato!» - «Che splendide sere!» - «E pur che domani si possa...»
«Oh! Guarda!... Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»
Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.
«Ah! Sono così malaccorte le cuoche... Permesso un istante
per vigilare la sorte d'un dolce pericolante...»
Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l'opera delle sua mani.
E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l'omaggio appena raccolto.
Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!
Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!
E l'uve moscate più bionde dell'oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,
l'enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di rose
emanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent'anni felici.
E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!
Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini...)
Parlare d'amore, di belle d'un tempo... Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).
Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»
«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»
«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l'arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo...»
Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.
Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
- «Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»
Allora, tra un riso confuso (con pace d'Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.
Ho per amico un bell'originale
commesso farmacista. Mi conforta
col ragionarmi della sposa, morta
priva di nozze del mio stesso male.
«Lei guarirà: coi debiti riguardi,
lei guarirà. Lei può curarsi in ozio;
ma pensi una modista, in un negozio...
Tossiva un poco... me lo scrisse tardi.
Torna!... Tornò, sì, morta, al suo villaggio.
Pagai le spese del viaggio. E costa!
Vede quel muro bianco a mezza costa?
È il cimitero piccolo e selvaggio.
Mah! Più ci penso e più mi pare un sogno.
La dovevo sposare nell'aprile;
nell'aprile morì di mal sottile.
Vede che piango... non me ne vergogno.»
Piangeva. O morta giovane modista,
dal cimitero pendulo fra i paschi
non vedi il pianto sopra i baffi maschi
del fedele commesso farmacista?
«Lavoro tutto il giorno: avrei bisogno
a sera, di svagarmi; lo potrei...
Preferisco restarmene con lei
e faccio versi... non me ne vergogno.»
Sposa che senza nozze hai già varcato
la fiumana dell'ultima rinunzia,
vedi lo sposo che per te rinunzia
alle dolci serate del curato?
Vedi che, solo, e affaticati gli occhi
fra scatole, barattoli, cartine,
preferisce le tue veglie meschine
alle gioie del vino e dei tarocchi?
«Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio;
poi, sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.
Mi pare che soltanto al cimitero,
protetti dalle risa e dallo scherno
i versi del mio povero quaderno
mi parlino di lei, del suo mistero.»
Imaginate con che rime rozze,
con che nefandità da melodramma
il poveretto cingerà di fiamma
la sposa che morì priva di nozze!
Il cor... l'amor... l'ardor... la fera vista...
il vel... il ciel... l'augel... la sorte infida...
Ma non si rida, amici, non si rida
del povero commesso farmacista.
Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch'egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria.
Egli certo non pensa all'euritmia
quando si toglie il camice di tela,
chiude la porta, accende la candela
e piange con la sua malinconia.
Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s'avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.
Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all'arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
Per lui soltanto il verso messaggiero
va dal finito all'infinito eterno.
«Vede, se chiudo il povero quaderno
parlo con lei che dorme in cimitero.»
A lui soltanto, o gran consolatrice
poesia, tu consoli i giorni grigi,
tu che fra tutti i sogni prediligi
il sogno che si sogna e non si dice.
«Non glie li dico: ché una volta detti
quei versi perderebbero ogni pregio:
poi sarebbe un'offesa, un sacrilegio
per la morta a cui furono diretti.»
Saggio, tu pensi che impallidirebbe
al mondo vano il fiore di parole
come il cielo notturno che lo crebbe
impallidisce al sorgere del sole.
Di me molto più saggio, che licenzio
i miei sogni, o fratello, tu mantieni
intatti fra le pillole e i veleni
i sogni custoditi dal silenzio!
Buon custode è il silenzio. E le tue grida
solo la morta giovane modista
ode: non altri della folla, trista
per chi fraternamente si confida.
Non si rida, compagni, non si rida
del poeta commesso farmacista.
E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Ricordi? Io la rivedo,
rivedo la compagna,
la classe, la lavagna,
e lei china alla filza
dei verbi greci... Smilza
e mascula: un cinedo
molto ricciuto e bello...
Ricordi? Io la rivedo
bionda, sciocchina, gaia:
un piccolo cervello
poco intellettuale
di piccola crestaia
molto sentimentale.
Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare...
E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Quella è la casa dove
crebbe fanciulla. Guarda
quella finestra dove
vegliava ad ora tarda;
il biondo capo chino
su pergamene rozze
di greco e di latino,
sugli assiomi nudi...
Ma poi lascia gli studi
maschi, passando a nozze
cospicue: un amico,
pare, un amico antico
della madre, uno sposo
ricchissimo ed annoso,
inglese, che la porta
in terra d'oltremare...
E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
Volsero gli anni. Ed ella
esule sul Tamigi
non dava più novella...
Pure, nei giorni grigi,
tra i miei grigi ricordi,
vedevo a quando a quando
i coniugi discordi:
lo sposo venerando
e l'esile compagna
signora in Gran Bretagna...
Quand'ecco fa ritorno
fra noi, senza marito;
e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo... Cercava intorno
col volto sbigottito,
con pupilla assorta,
chi la volesse amare...
E l'anno scorso è morta.
Ebbe un amante. Pare.
«Carlotta»... Vedo il nome che sussurro
scritto in oro, in corsivo, a mezzo un fregio
ovale, sui volumi di collegio
d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
Nel salone ove par morto da poco
il riso di Carlotta, fra le buone
brutte cose borghesi, nel salone
quest'oggi, amica, noi faremo un gioco.
Parla il salone all'anima corrotta,
d'un'altra età beata e casalinga:
pel mio rimpianto voglio che tu finga
una commedia: tu sarai Carlotta.
Svesti la gonna d'oggi che assottiglia
la tua persona come una guaina,
scomponi la tua chioma parigina
troppo raccolta sulle sopracciglia;
vesti la gonna di quel tempo: i vecchi
tessuti a rombi, a ghirlandette, a strisce,
bipartisci le chiome in bande lisce
custodi delle guancie e degli orecchi.
Poni a gli orecchi gli orecchini arcaici
oblunghi, d'oro lavorato a maglia,
e al collo una collana di musaici
effigïanti le città d'Italia...
T'aspetterò sopra il divano, intento
in quella stampa: Venere e Vulcano...
Tu cerca nell'immenso canterano
dell'altra stanza il tuo travestimento.
Poi, travestita dei giorni lontani,
(commediante!) vieni tra le buone
brutte cose borghesi del salone,
vieni cantando un'eco dell'Ernani,
vieni dicendo i versi delicati
d'una musa del tempo che fu già:
qualche ballata di Giovanni Prati,
dolce a Carlotta, sessant'anni fa...
...
Ah! Per te non sarò, piccola allieva
diligente, il sofista schernitore;
ma quel cugin che si premeva il cuore
e che diceva «t'amo!» e non rideva.
Oh! La collana di città! Vïaggio
lungo la filza grave di musaici:
dolce seguire i panorami arcaici,
far con le labbra tal pellegrinaggio!
Come sussulta al ritmo del tuo fiato
Piazza San Marco e al ritmo d'una vena
come sussulta la città di Siena...
Pisa... Firenze... tutto il Gran Ducato!
Seguo tra i baci molte meraviglie,
colonne mozze, golfi sorridenti:
Castellamare... Napoli... Girgenti...
Tutto il Reame delle Due Sicilie!
Dolce tentare l'ultime che tieni
chiuse tra i seni piccole cornici:
Roma papale! Palpita tra i seni
la Roma degli Stati Pontifici!
Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
della tua gola nuda e palpitante;
Carlotta non è più! Commedïante
del mio sognare fanciullesco, rido!
Rido! Perdona il riso che mi tiene,
mentre mi baci con pupille fisse...
Rido! Se qui, se qui ricomparisse
lo Zio con la Zia molto dabbene!
Vesti la gonna, pettina le chiome,
riponi i falbalà nel canterano.
Commediante del tempo lontano,
di Carlotta non resta altro che il nome.
Il nome!... Vedo il nome che sussurro,
scritto in oro, in corsivo, a mezzo fregio
ovale, sui volumi di collegio
d'un tempo, rilegati in cuoio azzurro...
Perché dalla tua favola compianta -
Renzo Stecchetti, musa prediletta
dello scolaro e della feminetta -
resuscita un passato che m'incanta?
Tu mi ricordi l'ottocento e ottanta
mi ricordi la mamma giovinetta
che ti rilegge e ti ripone in fretta;
e intorno un maggio antico odora e canta.
Per quel passato, pel destino bieco
tu mi sei caro, finto morituro
che piangi e imprechi e gemi nello strazio.
Io non gemo, fratello, e non impreco:
scendo ridendo verso il fiume oscuro
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio.
Anche te, cara, che non salutai
di qui saluto, ultima. Coraggio!
Viaggio per fuggire altro viaggio.
In alto, in alto i cuori. E tu ben sai.
In alto, in alto i cuori. I marinai
cantano leni, ride l'equipaggio;
l'aroma dell'Atlantico selvaggio
mi guarirà, mi guarirà, vedrai.
Di qui, fra cielo e mare, o Benedetta,
io ti chiedo perdono nel tuo nome
se non cercai parole alla tua pena,
se il collo liberai da quella stretta
spezzando il cerchio della braccia, come
si spezza a viva forza una catena.
I.
Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.
L'Infante fece vela pel regno favoloso,
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.
Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.
II.
L'isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:
«...l'Isola Non-Trovata!» Il buon Canarïano
dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.
La segnano le carte antiche dei corsari.
...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...
È l'isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina...
Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...
S'annuncia col profumo, come una cortigiana,
l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell'azzurro color di lontananza...
Desiderate più delle devote
che lasceremmo già senza rimpianti,
amiche alcune delle nostre amanti,
altre note per nome ed altre ignote
passano, ai nostri giorni, con il viso
seminascosto dal cappello enorme,
svegliando il desiderio che dorme
col baleno degli occhi e del sorriso.
E l'affanno sottile non ci lascia
tregua; ma più si intorbida e si affina
idealmente dentro la guaina
morbida della veste che le fascia...
Desiderate e non godute - ancora
nessuna prova ci deluse - alcune
serbano come una purezza immune
dalla folla che passa e che le sfiora.
Altre, consunte, taciturne, assorte
guardano e non sorridono: ma sembra
che la profferta delle belle membra
renda l'Amore simile alla Morte;
ardenti tutte d'una febbre e cieche
di vanità; biondissime, d'un biondo
oro, le cinge il pettine, secondo
l'antica foggia delle donne greche.
Per altre, il nodo greve dell'oscura
treccia è d'insostenibile tormento;
sembra che il collo, esile troppo, a stento,
sorregga il peso dell'acconciatura;
l'opera dei veleni in altre adempie
un prodigio purpureo: le chiome
splendono di riflessi senza nome
dilatandosi ai lati delle tempie...
Belle promesse inutili d'un bene
lusingatore della nostra brama,
quando una sola donna che non s'ama
c'incatena con tutte le catene;
quando ogni giorno l'anima delusa
sente che sfugge il meglio della vita,
come sfugge la sabbia tra le dita
stretta nel cavo della mano chiusa...
Le incontrammo dovunque: nelle sere
di teatro, alla luce che c'illude;
la bella curva delle spalle ignude
ci avvinse del suo magico potere;
e quando l'ombra si abbatté su loro
addensandosi cupa entro le file
dei palchi, il freddo lampo d'un monile
fu l'indice del duplice tesoro.
E le avemmo compagne, ma per brevi
ore, in vïaggi taciti, in ritorni,
le ritrovammo dopo pochi giorni
nei rifugi dell'Alpi, tra le nevi;
le ritrovammo sulla spiaggia, al mare,
dove la brama ci ferì più acuta:
ah! Per quella signora sconosciuta
ore insonni, nella notte, lungo il mare!...
Chi sono e dove vanno? Dove vanno
le crëature nomadi? Per quanti
anni, nel tempo, furono gli amanti
presi e delusi dall'eterno inganno?
Ah! Noi saremmo lieti d'un destino
impreveduto che ce le ponesse
a fianco, tristi e pellegrine anch'esse
nel nostro malinconico cammino.
Più d'un inganno lasciò largo posto
a più d'una ferita ancora viva...
Taluna - intatta - ci attirò furtiva
seco, ma per un utile nascosto;
altre, già quasi vinte, quasi dome,
nella nostra fiducia troppo inerte,
fantasticate quali prede certe,
furono salve, non sappiamo come...
Ed altre... Ma perché tanti ricordi
salgono dall'inutile passato?
Salgono col profumo del passato
da un cofanetto pieno di ricordi?
Ed ecco i segni, ecco le cose mute,
superstiti d'amori nuovi e vecchi,
lettere stinte, nastri, fiori secchi,
delle godute e delle non godute...
Desideri e stanchezze, indizi certi
d'un avvenire dedito all'ambascia
torbida che si schianta e che ci sfascia
rendendoci più tristi e più deserti...
Eppure, un giorno, questa febbre interna
parve svanire: quando ci si accorse,
tardi, di quella che sarebbe forse
per noi la sola vera amante eterna...
Tanto l'amammo per quel solo istante
ch'ella si volse pallida su noi
nell'offerta di un attimo, ma poi,
sparve, ella pure; sparve come tante
altre donne che passano, col viso
seminascosto dal cappello enorme
inasprendo la brama che non dorme
col baleno degli occhi e del sorriso...
Una crisalide svelta e sottile
quasi monile
pende sospesa dalla cimasa
della mia casa.
Salgo talora sull'abbaino
per contemplarla
e guardo e interrogo quell'esserino
che non mi parla:
O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo,
soffri? il tuo cuore sente che attende
l'ora del volo?
Tu ti profili dal tetto antico
sui cieli pallidi...
No, non temere: sono l'amico
delle crisalidi!
No, non temere l'orride stragi
care una volta:
mi dan rimorso gli anni malvagi
della raccolta.
Papili Arginnidi Vanesse Pieridi
Satiri Esperidi:
contemplo triste con la mia musa
la tomba chiusa.
Dormono in pace tutte le morte
sotto il cristallo;
fra tutte domina la sfinge forte
dal teschio giallo.
O prigioniero delle tue bende
pendulo e solo
soffri? Il tuo cuore sente che attende
l'ora del volo?
Ti riconosco. Profilo aguzzo,
dorso crostaceo
irto, brunito, con qualche spruzzo
madreperlaceo:
sei la crisalide d'una Vanessa:
la Policlora
che vola a Maggio. Maggio s'appressa,
tra poco è l'ora!
Tra poco l'ospite della mia casa
sarà lontana;
penderà vota dalla cimasa
la spoglia vana.
Andrai perfetta dove ti porta
l'alba fiorita;
e sarà come tu fossi morta
per altra vita.
L'ale! Si muoia, per che morendo,
sogno mortale,
s'appaghi alfine questo tremendo
sforzo dell'ale!
L'ale! Sull'ale l'uomo sopito,
sopravvissuto,
attinga i cieli dell'Infinito,
dell'Assoluto...
E tu che canti fisso nel sole,
mio cuore ansante,
e tu non credi quelle parole
che disse Dante?
Un giorno, al chiuso, il pedagogo fiacco
m'impose la sciattezza del comento
alternato alla presa di tabacco.
Mi rammento la classe, mi rammento
la scolaresca muta che si tedia
al commentare lento sonnolento;
rivedo sobbalzare sulla sedia
il buon maestro, per uno scolaro
che s'addormenta su di te, Comedia!
Attento! Attento! - Ah! più dolce sognare
con la gota premuta al frontispizio
e l'occhio intento alle finestre chiare!
Ad ora ad ora un alito propizio
alitava un effluvio di ginestre
sul comento retorico e fittizio.
La Primavera, l'esule campestre,
conturbava la gran pace scolastica
pel vano azzurro delle due finestre.
Io fissavo gli attrezzi di ginnastica,
gli olmi gemmati, l'infinito azzurro
in non so che perplessità fantastica;
e tendevo l'orecchio ad un sussurro,
ad un garrito di sperdute gaie,
in alto in alto in alto, nell'azzurro.
Guizzavano, da presso, l'operaie
affacendate in paglia in creta in piume,
riattando le case alle grondaie...
Con gli occhi abbarbagliati da quel lume
primaverile, mi chinavo stracco,
ripremevo la gota sul volume.
E riudivo il pedagogo fiacco
alternare alla chiosa d'ogni verso
la consueta presa di tabacco...
Ah! non al chiuso, ma nel cielo terso,
nel fiato novo dell'antica madre,
nella profondità dell'universo,
nell'Infinito mi parlavi, o Padre!
S'alza la neve in pace;
la valle che s'imbianca
spicca sul cielo bruno.
Il Santuario tace
nella gran pace bianca
dove non c'è nessuno.
Nessuno per guarire
del male che lo strazia
più giunge di lontano...
Sol io potrei salire,
salire per la grazia:
mi rifarebbe sano...
Ma non vedrò la faccia
nera e la mitra aguzza...
Troppo ai bei dì sereni,
avvinto a quelle braccia
baciai la medagliuzza
tepente tra i due seni...
Io so il mistero di colei che abbassa
l'antiche ciglia in vigilanza estrema,
quasi, nel marmo trepidando, tema
d'aggrovigliare un'esile matassa.
Io so. Guardate contro il sole: passa
dall'una all'altra mano e splende e trema
il filo che un'epeira diadema
conduce senza spola e senza cassa.
Aracne fu pietosa. E chi non mai
più rivedrà la terra sacra abbassa
le ciglia illuse e vede il mare Egeo,
vede una schiava al ritmo dei telai,
appenderle dal plinto una matassa:
e canta un canto dolce il gineceo.
Tra le sirene che Boecklin gittava
nel fremito dell'onde verdazzurre
una ne manca, appena adolescente,
agile più di tutte e la più bella.
Poiché non quella che supina ascolta
il Tritone soffiare nella conca,
non quella che si gode la bonaccia
con tre scherzosi albàtri affaticati,
e non quelle che fuggono al Centauro,
l'una presa alle chiome, l'altra emersa
con volto sorridente, l'altra immersa
col busto, eretta con le gambe snelle:
non tutte quelle vincono la grazia
appena adolescente che abbandona
il mare caro al grande basilese,
il mare Azzurro per il mare Grigio!
E al mare nostro più non resta viva
che l'immagine fatta di memoria,
svelta nel solco dove più ribolle
la spuma e dove l'onda è tutta gemme!
Tutto ignoro di te: nome, cognome,
l'occhio, il sorriso, la parola, il gesto;
e sapere non voglio, e non ho chiesto
il colore nemmen delle tue chiome.
Ma so che vivi nel silenzio; come
care ti sono le mie rime: questo
ti fa sorella nel mio sogno mesto,
o amica senza volto e senza nome.
Fuori del sogno fatto di rimpianto
forse non mai, non mai c'incontreremo,
forse non ti vedrò, non mi vedrai.
Ma più di quella che ci siede accanto
cara è l'amica che non mai vedremo;
supremo è il bene che non giunge mai!
I.
Supini al rezzo ritmico del panka.
Sull'altana di cedro, il giorno muore,
giunge dal Tempio un canto or mesto or gaio,
giungono aromi dalla jungla in fiore.
Bel fiore del carbone e dell'acciaio
Miss Ketty fuma e zufola giuliva
altoriversa nella sedia a sdraio.
Sputa. Nell'arco della sua saliva
m'irroro di freschezza: ha puri i denti,
pura la bocca, pura la genciva.
Cerulo-bionda, le mammelle assenti,
ma forte come un giovinetto forte,
vergine folle da gli error prudenti,
ma signora di sé della sua sorte
sola giunse a Ceylon da Baltimora
dove un cugino le sarà consorte.
Ma prima delle nozze, in tempo ancora
esplora il mondo ignoto che le avanza
e qualche amico esplora che l'esplora.
Error prudenti e senza rimembranza:
Ketty zufola e fuma. La virile
franchezza, l'inurbana tracotanza
attira il mio latin sangue gentile.
II.
Non tocca il sole le pagode snelle
che la notte precipita. Le chiome
delle palme s'ingemmano di stelle.
Ora di sogno! E Ketty sogna: «...or come
vivete, se non ricco, al tempo nostro?
È quotato in Italia il vostro nome?
Da noi procaccia dollari l'inchiostro...»
«Oro ed alloro!...» - «Dite e traducete
il più bel verso d'un poeta vostro...»
Dico e la bocca stridula ripete
in italo-britanno il grido immenso:
«Due cose belle ha il mon... Perché ridete?».
«Non rido. Oimè! Non rido. A tutto penso
che ci dissero ieri i mendicanti
sul grande amore e sul nessun compenso.
(Voi non udiste, Voi tra i marmi santi
irridevate i budda millenari,
molestavate i chela e gli elefanti.)
Vive in Italia, ignota ai vostri pari,
una casta felice d'infelici
come quei monni astratti e solitari.
Sui venti giri non degli edifici
vostri s'accampa quella fede viva,
non su gazzette, come i dentifrici;
sete di lucro, gara fuggitiva,
elogio insulso, ghigno degli stolti
più non attinge la beata riva;
l'arte è paga di sé, preclusa ai molti,
a quegli data che di lei si muore...»
Ma intender non mi può, benché m'ascolti,
la figlia della cifra e del clamore.
III.
Intender non mi può. Tacitamente
il braccio ignudo premo come zona
ristoratrice, sulla fronte ardente.
Gelido è il braccio ch'ella m'abbandona
come cosa non sua. Come una cosa
non sua concede l'agile persona...
- «O yes! Ricerco, aduno senza posa
capelli illustri in ordinate carte:
l'Illustrious lòchs collection più famosa.
Ciocche illustri in scienza in guerra in arte
corredate di firma o documento,
dalla Patti, a Marconi, a Buonaparte...
(mordicchio il braccio, con martirio lento
dal polso percorrendolo all'ascella
a tratti brevi, come uno stromento)
e voi potrete assai giovarmi nella
Italia vostra, per commendatizie...»
- «Dischiomerò per Voi l'Italia bella!»
«Manca D'Annunzio tra le mie primizie;
vane l'offerte furono e gl'inviti
per tre capelli della sua calvizie...»
- «Vi prometto sin d'ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti...»
L'attiro a me (l'audacia superando
per cui va celebrato un cantarino
napolitano, dagli Stati in bando...)
Imperterrita indulge al resupino,
al temerario - o Numi! - che l'esplora
tesse gli elogi di quel suo cugino,
ma sui confini ben contesi ancora
ben si difende con le mani tozze,
al pugilato esperte... In Baltimora
il cugino l'attende a giuste nozze.
Cantare udivo un gallo in sogno... Sognavo un villaggio
canavesano forse... L'aurora improvvisa mi desta.
Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:
d'un tremolìo d'acquario scintilla la selva ridesta.
Le felci arborescenti contendono i raggi all'aurora,
dall'uno all'altro fusto s'allaccia la flora demente,
spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m'irrora
la coppa del calladio, l'orciuolo della nepente...
Cantava un gallo in sogno... Ma un gallo ben vivo risponde.
Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.
Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?
M'illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?
Non il Re dei cortili qui regna, ma l'avo selvaggio
(già cantava sul Picco d'Adamo che Adamo non era).
Canta il «gallo bankywa» l'aurora del Tropico, il raggio
d'oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.
I.
Fanciullo formidabile: soldato
dell'Alpi e tu mi chiedi
ch'io celebri il tuo gesto in versi miei!
Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime
così come vorrei
al tuo gesto sublime!
Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto,
simbolica la spoglia
dell'aquila regale che t'offerse
l'Altissimo - redento! - a guiderdone
della baldanza tua liberatrice?
La vittima che dice:
Terra d'Italia è questa!
a consenso palese
dei cieli sommi nella santa gesta?
II.
Tu non sapevi. Solo con te stesso
e coi fratelli in una forza sola,
sostavi sulla gola
vertiginosa, l'anima in vedetta,
protetto dalla vetta
signoreggiata. Il cuore
batteva impaziente dell'assalto.
Il cielo era di smalto
cerulo, nel silenzio intatto come
quando non era l'uomo ed il dolore...
Era il meriggio alpino,
splendeva il sole nella valle sgombra.
In larghe rote s'annunciò dall'alto
l'olocausto divino,
la messaggiera, disegnando un'ombra.
III.
Che pensasti nell'attimo? Colpisti.
Bene colpisti. Il vortice dell'ale
precipitò ventandoti sul viso.
E l'aquila regale
ecco immolasti sul granito alpino
come sull'ara sacra alla riscossa
del popolo latino.
E la tua mano rossa
fu del sangue ricchissimo aquilino.
Battezzasti così la tua mano,
nella stretta che tutti ebbero a gara,
commentando l'augurio e la bravura,
battezzasti così con la tua mano
tutti i compagni tuoi,
dal giovinetto imberbe al capitano!
IV.
Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi
oggi la spoglia a noi che con bell'arte
le si ridoni immagine di vita;
ma quale arte iscaltrita
può simulare l'irto palpitare
di penne e piume, il demone gagliardo
tutto rostro ed artigli e grido e sguardo
nell'ora che si scaglia?
Nessuna sorte è triste
in questi giorni rossi di battaglia:
fuorché la sorte di colui che assiste...
E - sarcasmo indicibile per noi
scelti ai congegni ed alla vettovaglia -
tu strappasti l'emblema degli eroi
ed a noi mandi un'aquila di paglia!...
Ah! Difettivi sillogismi! L'io
che c'è sì caro, muore ad ogni istante
senza rimpianto. Muore nel riposo
e nella veglia. Un calice di vino
un grano d'oppio, uno sbigottimento
una ferita, basta a dileguarlo.
Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio
ritroveremo intatto e vigilante
il buono fanciulletto interïore
che ci ripete d'esser sempre noi...
Ah! Fanciullesca è veramente questa
anima semplicetta che riduce
alla nostra stadera l'infinito;
nutre speranze, chiede privilegi
più spaventosi del più spaventoso
nulla, ché il nulla è non poter morire.
Come pensare senz'abbrividire
tutta l'eternità chiusa nell'io
in quest'angusto carcere terreno?
Quasi bramosi fantolini e vani
preghiamo un bene e non sappiamo quale.
Quando per anni o per follia s'offusca
l'altrui cervello, quella decadenza
più non c'inquieta della decadenza
corporea. Permane la speranza
che l'io del caro sopravviva ancora
mentre è già come se non fosse più.
Ora se quasi ci si acqueta in vita
allo sfacelo della mente immemore
che mai vogliamo dalla morte immune?
Questa cosa di noi che vuol persistere
indefinita, è dunque indefinibile
come il raggio ch'emana dalla lampada,
come il suono che emana dal lïuto;
lampada e lïuto sono tra gli arredi
più famigliari e semplici che posso
scomporre ricomporre con le mani;
il mistero m'appare se mi chiedo
che sia, di dove venga, dove vada
il prodigio del suono e della luce...
Oimè! L'essenza che rivibra in noi
non può per intelletto esser compresa
da poi che l'io solo con se stesso,
soggetto, oggetto della conoscenza,
come uno specchio vano si moltiplica
inutilmente ed infinitamente
e nel riflesso è prigioniero il raggio
di verità che l'occhio non discerne.
Giova quindi sottrarci all'incantesimo
alla voce che implora di rivivere
come a un morbo insanabile terrestre.
Negli attimi di grazia, quando l'io
dilegua nei pensier contemplativi
quando l'istinto tace e si compiace
nella gioia dell'utile non nostro
o freme ad una strofe ad una musica
nell'ebrezza senz'utile dell'arte,
forse ci giunge il pallido riflesso
d'una luce remota, della vita
che ci attende al di là, nel puro spirito,
nel non essere noi, nell'ineffabile.
È la fede che Socrate morente
predicava all'alunno: «Datti pace!
Non morirò: seppelliranno l'altro».
È la luce che Baghava Purana
rivelava sul tronco del palmizio:
«Solo eterno è lo spirito. Non piangere
su te su me su altri. Perché l'io
ed il non io son frutto d'ignoranza.
Desideravi un figlio, o Re; l'avesti;
oggi provi lo strazio del distacco,
strazio che dànno tutte le fortune
a chi s'illude e pensa durature
l'apparenze caduche della vita.
Solo eterno è lo spirito. Nei tempi
chi fu per te quel figlio che tu piangi?
Chi tu fosti per lui? Che voi sarete
l'uno per l'altro nell'ignoto andare?
Sabbia del mare, foglie date al vento...
Solo eterno è lo spirito. Consolati».
Ma il re singhiozza disperato ancora
e pel prodigio d'uno di quei rishy
l'anima si ridesta nel cadavere,
si guarda intorno sbigottita, dice:
«In quale delle innumeri apparenze
d'animali, di uomini, di devhas
m'ebbi per padre questo che m'abbraccia?
Non mi toccare: io non ti riconosco.
O tu che piangi su di me non piangere.
Solo eterno è lo spirito. Consolati!».
Così parlato il giovinetto muore
un'altra volta. L'anima s'invola
eternamente. E il Re non piange più.
L'Uno è tutto esaurito,
non lo trova più nessuno,
a chi dà copia dell'Uno
un milione è profferito.
Col più gran caffè concerto
vien Giolitti un poco male
per un male un poco incerto,
vien con tutto il personale
del Suffragio Universale.
Ma - pagliaccio o rosso o bruno -
tutti chiedono dell'Uno,
l'Uno già tutto esaurito.
Finalmente il Vaticano
lascia il Papa ed il Concilio,
balla il tango col sovrano
dal garofano vermiglio.
Tutti vanno in visibilio:
il prelato col tribuno,
tutti chiedono dell'Uno:
l'Uno - ahimè - tutto esaurito!
Trema all'Uno e terra e mare!
la San Giorgio per isbaglio
si rimette a galleggiare,
perciò grato l'ammiraglio
contro un già prossimo incaglio
contro i tiri di Nettuno
premunirsi vuol dell'Uno,
l'Uno - ohimè - tutto esaurito!
Stanco d'essere il fantoccio
d'un insipido frasario
grida Verdi: Alfin mi scoccio
di cotesto centenario.
Qui m'annoio solitario.
Ecco il Numero. Ma l'Uno?
L'Uno - ohimè - non l'ha nessuno,
l'Uno è già tutto esaurito!
Levigandosi l'alloro
Gabriele inquieto appare:
un mistero: il Pomo d'oro
ben volevo ricercare
sul rarissimo esemplare.
Gabriele andrà digiuno;
splende il numero, ma l'Uno,
l'Uno è già tutto esaurito.
Vien Mascagni truce in vista
ché su l'Uno spera già
e già teme un'intervista
«Poiché io sono - ognun lo sa -
mammoletta d'umiltà...»
- Che voi siate un fiore o un pruno,
gran maestro, fa tutt'uno,
l'Uno è già tutto esaurito.
Térésah, Carola, Amalia,
l'altre insigni letterate,
che oggi infiammano l'Italia,
si presentano infiammate
come tante forsennate:
un prurito inopportuno
tutte sentono dell'Uno,
l'Uno - ohimè - tutto esaurito.
Non resiste la Gioconda,
balla fuori arguta e gaia
con la sua facciona tonda
di perfetta giornalaia.
Cento quindici migliaia
mi richiedono dell'Uno!
A chi dà copia dell'Uno
un milione è profferito.
Oh successo inopportuno!
L'Uno è già tutto esaurito!
Bene scegliesti l'unico rifugio,
trepida messaggiera insanguinata!
(Sangue d'amico? Sangue di nemico?
Ah! Che il sangue è tutt'uno, oltre la soglia!)
Palpiti esausta e sfuggi la carezza
e temi il rombo... È il rombo del tuo cuore.
Socchiudi gli occhi dove trema ancora
lo spaventoso tuo pellegrinare.
Ah! Sarcasmo indicibile! Tu sacra
dai tempi delle origini alla pace
la novella ci rechi - ah, senza ulivo! -
del flagello di Dio sopra la Terra.
Ma non del Dio Signore Nostro: il dio
feticcio irsuto della belva bionda:
- Rinascono le donne ed i fanciulli,
uccideremo ciò che non rinasce! -
E le trine di marmo, le corolle
di bronzo, gli edifici unici al mondo,
i vetri istoriati, i palinsesti
alluminati, i codici ammirandi,
ciò che un popolo mite ebbe in retaggio
dalla Fede e dall'Arte in un millennio
ritorna al nulla sotto i nuovi barbari:
non più barbari, no: ladri del mondo!
Tu non tremare, messaggiera bianca;
bene scegliesti l'unico rifugio:
la spalla manca della bella Donna
eretta in pace nel suo bel giardino.
La riconosci? Dolce ti sorride
piegando il capo sotto la corona
turrita a vellicarti con la gota
e con l'ulivo ti ravvia le penne.
Ma tien la destra all'elsa e le pupille
chiaroveggenti fissano il destino;
non fu mai così forte e così bella
e palpitante dalla nuca al piede.
La riconosci? Non ti dico il nome
troppo già detto, sacro all'ora sacra!
Bene sciegliesti l'unico rifugio,
trepida messaggiera insanguinata!
Pax tibi, Marce, Evangelista meusI.
D'oro si fanno brune le cupole stupende,
ma sotto il cielo illune il cielo d'oro splende.
Splende l'emblema come nel codice ammirando:
Venezia trepidando nel sacrosanto nome.
Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco
lassù «Pace a Te, Marco, Evangelista mio!»
Intorno gli fan coro tutti i Profeti, in rari
musaici millenari. Palpita il cielo d'oro.
Il palpito millenne corre Santi e Madonne;
vivono le colonne, le fragili transenne.
Ma quale antica Ambascia il Tempio oggi ricorda,
difeso nella sorda materia che lo fascia?
II.
Pei ciechi balaustri, per le navate ingombre
passano grigie l'ombre di tutti i dogi illustri.
Dice uno Zani: Vissi pel tempio apparituro.
Quale nemico oscuro sale dai ciechi abissi?
Dov'è l'icona fine di quattromila perle,
mirabili a vederle tra l'opre bizantine?
Dove le croci greche, sante in Gerusalemme,
i codici, le gemme, i calici, le teche?
E dice un Selvo: Tolsi i marmi d'oltremare:
posi con questi polsi la pietra dell'altare.
La Bibbia m'ammoniva. Sculpii divotamente.
La pietra fu vivente: dov'è la pietra viva?
Gli Zorzi i Mocenigo i Vanni i Contarini
i Gritti i Morosini i Celsi i Gradenigo
guatano il legno greggio che cela marmi ed ori.
- Minacciano i tesori i barbari e il saccheggio?
- Risorgono al reame i Turchi gli Unni i Galli?
Tornarono i cavalli all'ippodromo infame?
III.
Sta l'Angelo di Dio, sta col fatale incarco
lassù «Pace, a Te, Marco, Evangelista mio!»
Santo dei Santi eroi guerrieri e marinai,
o Santo, o tu che fai che «noi si dica noi»,
quale remota ambascia il Tempio tuo ricorda,
difeso nella sorda materia che lo fascia?
Minacciano i tuoi beni, la Chiesa disadorna
Barbari e Saraceni! Ah! Ciò che fu ritorna! -
O tu, che d'odio sacrosanto avvampi
i confini del Barbaro cancella!
Con l'anno sorga una migliore stella
a consolar gli insanguinati campi!
Tu che combatti per l'Italia bella,
tra cupi rombi e balenar di lampi,
salve! Ed il cielo provvido ti scampi
alla sposa, alla madre, alla sorella!
Il tuo paese attende il tuo ritorno.
Tempi migliori ti saran concessi,
se in dolce pace finirà la guerra.
I nostri voti affrettano quel giorno;
tra belle vigne e biondeggiar di messi,
ritornerete, figli della terra!
Dice il Sofista amaro: ...il Passato è passato;
è come un'ombra, è come se non fosse mai stato.
Impossibile è trarlo dal sempiterno oblio;
impossibile all'uomo, impossibile a Dio!
Il Passato è passato... Il buon Sofista mente:
basta un accordo lieve e il Passato è presente.
Basta una mano bianca sulla tastiera amica
ed ecco si ridesta tutta la grazia antica!
Anche se il tempo edace o il barbaro cancella
i tesori che all'arte diede l'Italia bella,
v'è un'arte più del marmo, del bronzo duratura
fatta di suoni, fatta di una bellezza pura,
un'arte che sussiste pur fra i tesori infranti
finché una corda vibri e una fanciulla canti!
Il Seicento rivive con la sua grazia ornata
in Orazio dell'Arpa od in Mazzaferrata;
s'eterna il Settecento più che in marmi o ritratti,
in un motivo lieve di Blangini... Scarlatti...
Melodrammi, oratorii, messe, vespri, mottetti:
odor sacro e profano d'incensi e belletti!
La musica da camera risorge in guardinfante
tra una dama che ride e un abate galante!
Né il Settecento solo, ma noi risaliremo
all'origini prime, fino al limite estremo,
quando non anche noto era il cembalo e l'ale
scioglieva il canto al ritmo del liuto provenzale.
Ad evocare il sogno che l'anima riceve
s'alterni la parola nella cornice breve.
Ché pei Maestri antichi non fu la scena immota,
ma sognarono «vive» la sillaba e la nota.
Rivivano quai furono. E dell'età passate
risorgano, col canto, le fogge disusate.
Non per arte femminea, né per vezzo leggiadro,
ma perché il vero viva nell'armonia del quadro.
Questo è l'intento nostro. Coi Maestri più noti
e men noti rivivere i secoli remoti.
Nostre canzoni, gemme dei nostri orafi insigni
un po' dimenticate nei loro antichi scrigni!
Tutti i motivi italici noi tratteremo in parte
se fortuna è propizia al nostro sogno d'arte.
Questo è l'intento nostro. E ci valga l'intento,
se le forze non sempre son pari all'argomento.
E - se faremo bene - decretate il successo...
e... se male faremo... applaudite lo stesso!
Dopo un anno moriva quella che usciva sposa
da questa Reggia... Visse la vita d'una rosa:
un mattino! Bel fiore non sedicenne ancora
colto da mano ignota in sulla prima aurora!
«Principessa Maria Carolina Antonietta
di Savoia! Lo sposo da me scelto v'aspetta:
il Duca di Sassonia: Marcantonio Clemente.»
...Così parlava il padre, il Re, solennemente.
- Cognata Carolina - le disse quel mattino -
giunto è l'ambasciatore di Sassonia a Torino!
Verso il promesso sposo tra poco te ne andrai!
- Verso il promesso sposo? Non l'ho veduto mai! -
- Ha visto il tuo ritratto, hai visto il suo: ti piace? -
- Mi piace? È un po' di tela dipinta, che tace...
Oh! sposerei ben meglio un umile artigiano
che il Duca di Sassonia - oimè - così lontano! -
- Un umile artigiano! Son miti le pretese! -
- Oh sposerei ben meglio un povero borghese!... -
- Un povero borghese! Cognata mia bizzosa!... -
E le adattava intanto la ghirlanda di sposa.
Le cameriere intente all'opra delicata
guardavano la bimba pensosa ed accorata.
- Duchessa di Sassonia! Se questo è il mio destino,
non rivedrò l'Italia, non rivedrò Torino!...
La Regina Maria, Re Vittorio Amedeo,
la Corte, il Clero, i Nobili aprivano il corteo.
Le carrozze di gala avanzavano lente
per Torino infiorata, tra la folla piangente.
- La Bela Carôlin (la folla la chiamava
così, familiarmente, la folla che l'amava!)
La Bela Carôlin ci lascia e va lontano!
Il Duca di Sassonia ha chiesto la sua mano!
L'Ambasciatore è giunto e se la porta via...
Nozze senza lo sposo! Oh! che malinconia! -
Malinconiche nozze ed allegrezze vane:
archi di fiori, canti, clangori di campane...
Mille mani plebee cercavano la stretta
della mano ducale, la mano prediletta...
- Ti segua il voto nostro! Ti benedica Iddio! -
Carolina piangeva a quel supremo addio.
La figlia dalla madre divisa fu - che pena! -
a viva forza, come si spezza una catena...
- Piangete cittadini, piangete il mio destino!
Non rivedrò mia madre, non rivedrò Torino!
Dopo un anno moriva quella che usciva sposa
da questa Reggia. Visse la vita d'una rosa:
un mattino! E si spense nel paese lontano
senza una mano amica nella piccola mano!
Oggi rivive. Il popolo che l'adorava tanto
la canta. E non è morto chi rivive nel canto!
(Una madre giovinetta veglia sulla grande culla velata, accompagnando il dondolìo della mano col ritmo del canto.)Ninna-nanna, bimbo mio!
(Solleva i veli della culla vuota. La fruga. Balza in piedi, indietreggia barcollando: poi passa le mani sul volto atterrito, quasi per sentirsi ben viva.)Vuota è la culla... È vero od è menzogna?
(Giunge la voce della Morte invisibile. Prima fioca e remota, indi più cruda e distinta.)LA MORTE INVISIBILE
Sogno non è! Non incubo fugace.
Tuo figlio non è più! Ma datti pace!
Ma datti pace! Non lagnarti forte,
non ti lagnare a voce così sciolta,
va il tuo lamento, ma nessun l'ascolta.
Povera donna taci! È cosa stolta
cercar d'opporsi a me che son la Morte!
LA MADRE
Oh! voce roca, funebre sul vento
sei tu, la Morte? che m'hai tolto il figlio?
Ah! L'odo urlare, urlare di spavento,
bianco lo vedo com'è bianco un giglio,
un giglio chiuso dall'ossuto artiglio...
(Breve silenzio. Il volto di lei è come quello di una demente.)No! Non è vero! È il mio vaneggiamento...
LA MORTE
Non è vaneggiamento! Il bimbo giace
sotto la terra ancor molle e smossa
ma l'alba nuova sorge e si compiace
d'educar fiori su l'angusta fossa
e l'anima innocente s'è già mossa
verso le stelle per l'eterna pace!
LA MADRE
O Morte, dammi l'angioletto biondo
che tu celasti nella terra oscura;
l'abisso dove giace è troppo fondo
la pietra che lo copre è troppo dura;
scampalo, Morte, dalla sepoltura,
poi manda in sepoltura tutto il mondo!
LA MORTE
Ti rendo il figlio, o donna, ma rammenta
che ti sarà martirio l'avvenire.
LA MADRE
Soffrir pel figlio mio! Non mi spaventa
l'ammonimento ch'io dovrò soffrire;
per veder vivo lui vorrei morire
e nel morire riderei contenta!
LA MORTE
Ti rendo il figlio, o donna, ma t'avverto
che gli scorre il delitto entro le vene!
l'occhio avrà torvo, il cuor di frode esperto...
LA MADRE
Rendimi il figlio! So che mi conviene
col buon consiglio di condurlo al bene,
farne un cuor saggio ed uno sguardo aperto.
LA MORTE
Il figlio tuo ti verrà reso, ma
non ti scordare mai di questo giorno;
egli dormiva già felice là
donde nessuno fece mai ritorno.
Donna, è ben meglio il funebre soggiorno,
meglio la pace dell'eternità.
LA MADRE
Io ti ringrazio, o Morte! Infine il povero
figliolo mio torna alle mie braccia;
su questo seno troverà ricovero,
su questo seno celerà la faccia,
e farà il bene sotto la minaccia
dell'amoroso tenero rimprovero...
LA MORTE
Io te lo rendo, ma non tarderai
a lacerarti il cuor dallo sconforto.
Mi supplicavi, o donna, e t'ascoltai.
Ti feci lieta, ma per tempo corto;
e un giorno tu dirai: fosse pur morto
e non si fosse ridestato mai.
LA MADRE
Perché, perché codesto tuo parlare,
s'egli sarà per sempre a me vicino?
Se ogni mattin lo guiderò all'altare,
se foggerò più bello il suo destino?
LA MORTE
Appena il braccio sarà forte al remo
lascerà la sua madre e il casolare;
dalla deserta riva sentiremo
dì e notte, notte e giorno il tuo gridare;
e forse un giorno lancerai sul mare
invano, invano il tuo lamento estremo.
Ed egli dove il cielo di turchese
scende nell'onda, ove s'estingue il sole,
rimpiangerà il minuscolo paese,
rimpiangerà le tue buone parole.
E griderà nell'anima che duole;
griderà: Morte! Con me sii cortese!
Chiederà morte! E appagherò mie brame
non lui sopendo sopra un letto molle,
tra dolci preci e candide corolle...
Morrà sul palco, infamia del reame,
morrà sul palco. Maleoprando volle
rendersi degno della morte infame!
(La madre si copre con le mani il volto disfatto dalla visione spaventosa.)Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...
LA MADRE
(con un brivido d'orrore) No! taci! taci!
(La madre s'accascia; con un moto d'orrore cre- scente si fa difesa con le braccia, come sotto una percossa. Lungo silenzio. Poi alza il volto trasfigurata.)No! taci! taci! non mi dir più nulla!
LA MORTE
Io te lo rendo. Ma tu sappi ancora...
LA MADRE
Lasciami sola sopra questa culla
a piangere quest'anima fanciulla
che tramontò nel sorger dell'aurora!
La pecorina di gesso,
sulla collina in cartone,
chiede umilmente permesso
ai Magi in adorazione.
Splende come acquamarina
il lago, freddo e un po' tetro,
chiuso fra la borraccina,
verde illusione di vetro.
Lungi nel tempo, e vicino
nel sogno (pianto e mistero)
c'è accanto a Gesù Bambino,
un bue giallo, un ciuco nero.
A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s'affaccia
ai muri della casa centenaria.
Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con tenaci braccia.
Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l'antica pia favola dell'ovo.
Discesi dal lettino
son là presso il camino,
grandi occhi estasiati,
i bimbi affaccendati
a metter la scarpetta
che invita la Vecchietta
a portar chicche e doni
per tutti i bimbi buoni.
Ognun, chiudendo gli occhi,
sogna dolci e balocchi;
e Dori, il più piccino,
accosta il suo visino
alla grande vetrata,
per veder la sfilata
dei Magi, su nel cielo,
nella notte di gelo.
Quelli passano intanto
nel lor gemmato manto,
e li guida una stella
nel cielo, la più bella.
Che visione incantata
nella notte stellata!
E la vedono i bimbi,
come vedono i nimbi
degli angeli festanti
ne' lor candidi ammanti.
Bambini! Gioia e vita
son la vision sentita
nel loro piccolo cuore
ignaro del dolore.
Alla mamma per la nascita del fratello RenatoLa bionda fata sollevò le mani
«Spiriti eterni, Geni sovrumani
viventi dove il sol non ha mai sera,
scendete dalla vostra eccelsa sfera...
Venite, o Geni, dai regni lontani.
Donategli la forza e la saviezza,
la nobiltà dell'animo e del core;
ch'io l'ho predestinato alla bellezza:
e dategli la grazia delicata
della sua Mamma, dategli l'amore...»
Disse: e in ciel dileguò la bionda fata!
a Luisa Giusti, amica minuscola, con un cartoccio di cioccolattoSola bellezza al mondo
grazia di capinera
che canta e tutto ignora,
grazia che attende ancora
la terza primavera!
Tu credi ch'io commerci
(poi che poeto un poco)
in chi sa quali merci
buone alla gola o al gioco!
- Dammi una poesia! -
Così, come un confetto,
mi chiedi... E t'hanno detto
che sia?... Non sai che sia!
Che sia, come va fatto
il dono che vorresti,
ti spiegherò con questi
dischi di cioccolatto.
Due volte quattro metti
undici dischi in fila
(già dolce si profila
sonetto dei sonetti).
Due volte tre componi
undici dischi alfine
(compiute in versi «buoni»
quartine ecco e terzine).
Color vari di rime
(tu ridi e n'hai ben onde)
poni: terze e seconde
concordi, ultime e prime.
Molto noioso? O quanto
noioso più se fatto
di sillabe soltanto
e non di cioccolatto!
Di qui potrai vedere
la mia tristezza immensa:
piccola amica, pensa
che questo è il mio mestiere!
La bionda bimba coi capelli al vento
correva per i viali del giardino
rossa nel volto, respirando a stento
per sfuggire al suo bruno fratellino.
«Mamma!»: era giunta all'albero di pesco,
calpestandone i fiori scossi dal vento:
poi rise, del suo riso argenteo e fresco,
al fratellino giunto in quel momento.
«Non mi prendesti!» disse e rise ancora
al fratellino un po' mortificato;
e il sol, che traversava i rami allora,
baciò quel capo piccolo e dorato.
«Fulvio, perché la bamboletta parla?
Dici che sia una bambina vera?»
«Chissà! Bisognerebbe un po' osservarla,
guardarle il viso che pare di cera.»
«Vai a prenderla: è dentro nella serra.»
Il fratellino corse, e lei rimase
coll'occhio fisso all'ombre, che per terra
formava il sol nell'ultima sua fase.
Tornò il fratello con la bamboletta:
«Guardala, Fulvio, a me par proprio viva,
se tiri quello spago parla, e, aspetta,
se la bacio e la lodo si ravviva.
Sì, sì! Se io le parlo mi comprende,
se la rimbrotto subito s'attrista;
quando la bacio, il bacio lei mi rende
e poi, del resto, ridere l'ho vista».
L'accarezzava intanto, la bimbetta,
sui bei capelli morbidi e ricciuti,
ma ad una mossa falsa la pupetta
cadde e s'infranse in cocci assai minuti.
Turbata in cuore da lacrime ardenti
la bimba curva cerca in mezzo ai cocci:
occhi di vetro, due piccoli denti
e le manine simili a due bocci.
Le lacrime le scendon, sul visino,
su la parrucca che trattiene in mano;
cerca di consolarla il fratellino:
«Ti do il mio cerchio, e anche quel buffo nano».
Ma no: non è la bambola perduta
che fa piangere tanto la bambina:
vera, parlante, sempre l'ha creduta;
invece è sol di porcellana fina.
Piange la bimba perché fu delusa.
L'aveva tanto amata come viva
e che la ricambiasse s'era illusa,
povera bimba! e l'illusion finiva.
Il sole tramontava tutto fuoco,
da lungi si sentiva batter l'ore
ed in quel giorno destinato al gioco
pianse la bimba il primo suo dolore.
(dal bretone)
Piccolino, morta mamma,
non ha più di che campare;
resta solo con la fiamma
del deserto focolare;
poi le poche robe aduna,
mette l'abito più bello
per venirsene in città.
Invocando la fortuna
con il misero fardello,
Piccolino se ne va.
E cammina tutto il giorno,
si presenta ad un padrone:
- «Buon fornaio al vostro forno
accoglietemi garzone». -
Ma il fornaio con la moglie
ride ride trasognato:
- «Piccolino, in verità
il mio forno non accoglie
un garzone appena nato!
Non sei quello che mi va». -
Giunge al re nel suo palagio,
si presenta ardito e fiero:
- «Sono un piccolo randagio,
Sire, fatemi guerriero». -
Il buon Re sorride: - «Omino,
vuoi portare lancia e màlia?
Un guerriero? In verità
tu hai bisogno della balia!
Tu sei troppo piccolino:
Non sei quello che mi va». -
Vien la guerra, dopo un poco,
sono i campi insanguinati;
Piccolino corre al fuoco
tra le schiere dei soldati.
Ma le palle nell'assalto
lo sorvolano dall'alto
quasi n'abbiano pietà.
- «È carino quell'omino,
ma per noi troppo piccino:
non è quello che ci va!» -
Finalmente una di loro
lo trafora in mezzo al viso;
esce l'anima dal foro,
vola vola in Paradiso.
Ma San Pietro: - «O Piccolino,
noi s'occorre d'un Arcangelo
ben più grande, in verità.
Tu non fai nemmeno un Angelo
e nemmeno un Cherubino...
Non sei quello che ci va». -
Ma dal trono suo divino
Gesù Cristo scende intanto,
e sorride a Piccolino
e l'accoglie sotto il manto:
- «Perché parli in questo metro,
o portiere d'umor tetro?
Piccolino resti qua.
Egli è piccolo e mendico
senza tetto e senz'amico:
egli è quello che mi va...
O San Pietro, te lo dico,
te lo dico in verità!...»
(Melologo popolare)
- Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell'osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.