Rientrando videro Efix rialzarsi a fatica appoggiando la mano allo scalino. Allora Noemi, calda ancora di pietà e d'amore di Dio, s'accorse per la prima volta che il servo si era mal ridotto, vecchio, grigio, con le vesti divenutegli larghe, e tese la mano come per aiutarlo a sollevarsi. Ma egli era già su e non badava all'atto di lei.
E quando furono dentro e donna Ester domandò notizie del poderetto come fosse ancora suo, egli rispose alzando le spalle con rozzezza insolita e andò a lavarsi al pozzo.
Aprile rallegrava anche il triste cortile, le rondini sporgevano la testina nera dai nidi della loggia guardando le compagne che volavano basse come inseguendo la loro ombra sull'erba fitta dell'antico cimitero.
«Efix, mi pare che non stai troppo bene. Tu dovresti prenderti qualche cosa, o riposarti qualche giorno», disse Noemi.
«Ah, sì, donna Noemi? Se penso invece di camminare!»
«Ti dico che stai male: non scherzare. Che hai?»
Egli la guardava con occhi vivi, lucidi, ed era tale la sua gioia improvvisa che le rughe intorno agli occhi parevano raggi.
«Invecchio», disse, battendosi le mani una sull'altra; e d'improvviso la sua gioia se n'andò, com'era venuta.
Egli era tornato in paese perché don Predu aveva mandato a chiamarlo: altrimenti non si sarebbe più mosso dal poderetto. Che poteva la pietà di donna Noemi contro il suo male? Non faceva che aumentarglielo.
Andò dunque dal nuovo padrone e lo trovò arrampicato su una scala a piuoli a potar la vite sotto la rete dei rami del melograno ricamata di foglioline d'oro.
Anche là le rondini s'incrociavano rapide, ma più alte, sullo sfondo latteo del cielo: entro casa si sentivano le donne pulire le stanze e mettere tutto in ordine per la Pasqua, e una grande pace regnava intorno.
Efix non dimenticò più quei momenti. Era partito dal poderetto con la certezza che qualche cosa di straordinario doveva succedere; ma guardando in su ai piedi della scala gli pareva che don Predu fosse anche lui triste, quasi malato, ed esitasse a scendere, con la falciuola scintillante in una mano e nell'altra il tralcio di vite dalla cui estremità violacea stillavano come da un dito tagliato gocce di sangue.
«Aspetta che finisco: o hai fretta d'andartene?», disse don Predu, ma subito si riprese, parve ricordarsi, e scese pesantemente, lasciando che Efix tirasse in là la scala.
«Ecco», cominciò, quando furono nella stanza terrena piena di sole e d'ombra di rondini, «ecco, io ti devo dire una cosa...», ed esitava guardandosi le unghie, «ecco, io voglio sposare Noemi.»
Efix cominciò a tremare così forte che la mano, sul tavolo, pareva saltasse. Allora don Predu si mise a ridere del suo riso goffo e cattivo d'altri tempi.
«Non la vorrai sposare tu, credo! Ti serbo Stefana, lo sai!»
Efix taceva: taceva e lo guardava, e i suoi occhi erano così pieni di passione, di terrore, di gioia, che don Predu si fece serio. Ma tentava ancora di scherzare.
«Perché ti turbi tanto? Speri che io ti paghi quello che ti devono? No, sai: tu ti aggiusti con Ester; io non ho che vederci. Eppoi c'è una cosa...»
Si raschiò con l'unghia una macchia del corpetto, guardandoci su attentamente.
«Mi vorrà, poi?»
«Ah! Che dice!», balbettò Efix.
«Non esser tanto sicuro! Oh, adesso parliamo sul serio. Ho pensato bene prima di decidermi: lo faccio, credi pure, più per dovere che per capriccio. Che aspetto? Dove vado? Alla mia età una donna molto giovane non mi conviene. Ma questo non importa: insomma ho deciso. Ebbene, non te lo nego: Noemi è bella e mi piace, m'è sempre piaciuta, a dirti la verità. Mah! Che vuoi! La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. Mah, lasciami stare» aggiunse, battendosi le mani sulle ginocchia e poi alzandosi e poi rimettendosi a sedere. «Quello che adesso importa è di sapere se Noemi accetta. Io farò la domanda come si conviene; le manderò prete Paskale, o il dottore o chi vuole; ma non voglio prendermi un rifiuto, eh, così Dio mi assista, questo no, perbacco! Tu intendi, Efix?»
Efix intendeva benissimo, e accennava di sì, di sì, col capo, con gli occhi scintillanti.
«Devo parlar io, con donna Noemi?»
Don Predu gli batté una mano sulle ginocchia.
«Bravo! E' questo. E prima è, meglio è, Efix! Queste cose non bisogna lasciarle inacidire. Le dirai: "Chi si deve mandare per la domanda ufficiale? Prete Paskale, o la sorella, o chi?". Se lei dice di non mandare nessuno, tanto meglio, in fede di cristiano, tanto meglio! Eppoi le cose le faremo presto e senza chiasso: non siamo più due ragazzetti. Che ne pensi? Io ho quarantotto anni a settembre, e lei sarà sui trentacinque, che ne dici? Tu sai la sua età precisa? Oh, poi le dirai che non si dia pensiero di nulla: la casa è pronta, le serve ci sono; pettegole, sì, ma ci sono, e pagate bene. La biancheria c'è, tutto c'è. Le provviste non mancano, eh, così Dio la conservi! Basta, di queste cose poi parleremo con Ester. Solo mi dispiace... Ebbene, te lo posso dire: che Ruth sia morta così... Forse anche lei sarebbe stata contenta...»
Efix s'alzò. Sentiva qualche cosa pungerlo in tutta la persona, e aveva bisogno di andare, di affrettare il destino.
«Ebbene, aspetta un altro po', diavolo! Ti darò da bere: un po' di acquavite? O anice? Stefana, ira di Dio, c'è il tuo pretendente, Stefana!»
S'udivano le donne sbattere i mobili con furore. Finalmente la serva anziana apparve, con un tovagliolo sul capo e un altro in mano, seria e imponente, tuttavia, con gli occhi pieni di rassegnazione ai voleri del padrone. Aprì l'armadio, versò l'anice e guardò Efix con un vago senso di terrore, ma anche per scrutare se egli prendeva sul serio gli scherzi del padrone: ma Efix era così umile e sbigottito ch'ella tornò su e disse alla compagna giovine:
«S'egli ha fatto la stregonena l'ha fatta bene. La fortuna cade come una saetta su quella gente: pulisci bene, che sarà fatica risparmiata per le nozze».
«Tue con Efix?», disse Pacciana. «Per don Predu bisogna prima aspettare che donna Noemi lo accetti!»
Ma Stefana fece le fiche, tanto queste parole le sembravano assurde.
Quando fu nella strada dopo che don Predu lo ebbe accompagnato fino al portone come un amico, Efix si guardò attorno e sospirò.
Tutto era mutato; il mondo si allargava come la valle dopo l'uragano quando la nebbia sale su e scompare: il Castello sul cielo azzurro, le rovine su cui l'erba tremava piena di perle, la pianura laggiù con le macchie rugginose dei giuncheti, tutto aveva una dolcezza di ricordi infantili, di cose perdute da lungo tempo, da lungo tempo piante e desiderate e poi dimenticate e poi finalmente ritrovate quando non si ricordano e non si rimpiangono più.
Tutto è dolce, buono, caro: ecco i rovi della Basilica, circondati dai fili dei ragni verdi e violetti di rugiada, ecco la muraglia grigia, il portone corroso, l'antico cimitero coi fiori bianchi delle ossa in mezzo all'avena e alle ortiche, ecco il viottolo e la siepe con le farfalline lilla e le coccinelle rosse che sembrano fiorellini e bacche: tutto è fresco, innocente e bello come quando siamo bambini e siamo scappati di casa a correre per il mondo meraviglioso.
La Basilica era aperta, in quei giorni di quaresima, ed Efix andò a inginocchiarsi al suo posto, sotto il pulpito.
La Maddalena guardava, lieta anche lei, come una dama spagnola ospite dei Baroni affacciata a un balcone del Castello. Sentiva la primavera anche lei, era felice benché fossero i giorni della passione di Nostro Signore. Qualche ricco feudatario doveva averla domandata in sposa, ed ella sorrideva ai passanti, dal suo balcone, e sorrideva anche ad Efix inginocchiato sotto il pulpito.
«Signore, Vi ringrazio, Signore, prendetevi adesso l'anima mia; io sono felice d'aver sofferto, d'aver peccato, perché esperimento la vostra Misericordia divina, il vostro perdono, l'aiuto vostro, la vostra infinita grandezza. Prendetevi l'anima mia, come l'uccello prende il chicco del grano. Signore, disperdetemi ai quattro venti, io vi loderò perché avete esaudito il mio cuore...»
Eppure nell'alzarsi a fatica, con le ginocchia indolenzite, provò un senso di pena, come se l'ombra di una nuvola passasse nella chiesa velando il viso della Maddalena.
Anche il viso di donna Noemi, curva a cucire nel cortile, era velato d'ombra.
Efix colse una viola del pensiero dall'orlo del pozzo e andò a offrirgliela. Ella sollevò gli occhi meravigliati e non prese il fiore.
«Indovina chi glielo manda? Lo prenda.»
«Tu l'hai colto e tu tientelo.»
«No, davvero, lo prenda, donna Noemi.»
Sedette davanti a lei, per terra, a gambe in croce come uno schiavo, prendendosi i piedi colle mani: non sapeva come cominciare, ma sapeva già che la padrona indovinava. Infatti Noemi aveva lasciato cadere la viola in una valletta bianca della tela; le batteva il cuore; sì, indovinava.
«Donna Ester dov'è?», disse Efix curvandosi sui suoi piedi. «Come sarà contenta, quando saprà! Don Predu mi aveva fatto tornare in paese per questo...»
«Ma che cosa dici, disgraziato?»
«No, non mi chiami disgraziato! Sono contento come se morissi in grazia di Dio in questo momento e vedessi il cielo aperto. Sono stato in chiesa, prima di tornar qui, a ringraziare il Signore. In coscienza mia, è così...»
«Ma perché, Efix?», ella disse con voce vaga, pungendo con l'ago la viola. «Io non ti capisco.»
Egli sollevò gli occhi: la vide pallida, con le labbra tremanti, con le palpebre livide come quelle di una morta. E' la gioia, certo, che la fa sbiancare così; ed egli prova un tremito, un desiderio d'inginocchiarsi davanti a lei e dirle: sì, sì, è una grande gioia, donna Noemi, piangiamo assieme.
«Lei accetta, donna Noemi, padrona mia? E' contenta, vero? Devo dirgli che venga?»
Ella fece violenza a se stessa; si morsicò le labbra, riaprì gli occhi e il sangue tornò a colorirle il viso, ma lievemente, appena intorno alle palpebre e sulle labbra. Guardò Efix ed egli rivide gli occhi di lei come nei giorni terribili, pieni di rancore e di superbia. L'ombra ridiscese su lui.
«Non si offenda se gliene parlo io per il primo, donna Noemi! Sono un povero servo, sì, ma sono chiuso come una lettera. Se lei accetta, don Predu manderà il prete a far la domanda, o chi vuol lei...»
Noemi buttò giù la viola ferita e si rimise a cucire. Pareva tranquilla.
«Se Predu ha voglia di ridere, rida pure; non m'importa nulla. »
«Donna Noemi!»
«Sì, sì! Non dico che non faccia sul serio, sì. Allora non saresti lì. Ma adesso fa' il piacere, alzati e vattene.»
«Donna Noemi?»
«Ebbene, che hai adesso? Levati, non star lì inginocchiato, con le mani giunte! Sei stupido!»
«Ma donna Noemi, che ha? Rifiuta?»
«Rifiuto.»
«Rifiuta? Ma perché, donna Noemi mia?»
«Perché? Ma te lo sei dimenticato? Sono vecchia, Efix, e le vecchie non scherzano volentieri. Non parlarmene più.»
«Questo solo mi dice?»
«Questo solo ti dico.»
Tacquero. Ella cuciva: egli aveva sollevato le ginocchia e si stringeva in mezzo le mani giunte. Gli pareva di sognare, ma non capiva. Finalmente alzò gli occhi e si guardò attorno. No, non sognava, tutto era vero; il cortile era pieno di sole e d'ombra: qualche filo di legno cadeva dal balcone come cadono le foglie dei pini in autunno; e al di là del muro si vedeva il Monte bianco come di zucchero, e tutto era soave e tenero come al mattino quando egli era uscito dalla casa di don Predu. Gli pareva di sentire ancora le donne a sbattere i mobili; ma erano colpi sulla sua persona; sì, qualche cosa lo percoteva, sulla schiena, sulle spalle, sulle scapole e sui gomiti e sui ginocchi e sulle nocche delle dita. E donna Noemi era lì, pallida, che cuciva, cuciva, che gli pungeva l'anima col suo ago: e le rondini passavano incessantemente in giro, sopra le loro teste, come una ghirlanda mobile di fiori neri, di piccole croci nere. Le loro ombre correvano sul terreno come foglie spinte dal vento: ed egli ricordò la pena provata nell'alzarsi di sotto il pulpito e l'ombra sul viso della Maddalena. Sospirò profondamente. Capiva. Era il castigo di Dio che gravava su lui.
Allora, piano piano, cominciò a parlare, afferrando il lembo della gonna di Noemi, e non capiva bene ciò che diceva, ma doveva essere un discorso poco convincente perché la donna continuava a cucire e non rispondeva, di nuovo calma con un sorriso ambiguo alle labbra.
Solo dopo ch'egli parve aver detto tutto, tutte le miserie passate, tutti gli splendori da venire, ella parlò, ma piano, sollevando appena gli occhi quasi parlasse con gli occhi soltanto.
«Ma non prenderti tanto pensiero, Efix, non immischiarti oltre nei fatti nostri. E poi lo sai: abbiamo vissuto finora; non siamo state bene, finora? Che ci è mancato? E tireremo avanti, con l'aiuto di Dio: il pane non mancherà. In casa di Predu c'è troppa roba e non saprei neppure custodirla.»
Efix meditava, disperato. Che fare, se non ricorrere a qualche menzogna?
Riprese a palparle la veste.
«Eppoi devo dirle cose gravi, donna Noemi mia. Non volevo, ma lei, con la sua ostinazione, mi costringe. Don Predu è tanto preso che se lei non lo vuole morrà. Sì, è come stregato, non dorme più. Lei non sa cosa sia l'amore, donna Noemi mia; fa morire. E' poca coscienza far morire un uomo...»
Allora Noemi rise e i suoi denti intatti luccicarono sino in fondo come quelli d'una fanciulla follemente allegra. Quel riso fece tanto male a Efix, lo irritò, lo rese maligno e bugiardo.
«Eppoi un'altra cosa più grave ancora, donna Noemi! Sì, mi costringe a dirgliela. Don Giacinto minaccia di tornarsene qui... Intende?»
Ella smise di cucire, si drizzò sulla vita, si piegò indietro col viso per respirare meglio: le sue mani abbrancarono la tela.
Ed Efix balzò su spaventato, credendo ch'ella stesse per svenire.
Ma fu un attimo. Ella tornò a guardarlo coi suoi occhi cattivi e disse calma:
«Anche se torna non c'è più nulla da perdere. E non abbiamo bisogno di nessuno per difenderci».
Egli raccolse di terra la viola e andò a sedersi sulla scala, come la notte dopo la morte di donna Ruth. Non si domandava più perché Noemi rifiutava la vita: gli sembrava di capire. Era il castigo di Dio su lui: il castigo che gravava su tutta la casa. Ed egli era il verme dentro il frutto, era il tarlo che rodeva il destino della famiglia. Appunto come il tarlo egli aveva fatto tutte le sue cose di nascosto: aveva roso, roso, roso, adesso si meravigliava se tutto s'era sgretolato intorno a lui? Bisognava andarsene: questo solo capiva. Ma un filo di speranza lo sosteneva ancora, come lo stelo ancor fresco sosteneva la viola livida ch'egli teneva fra le dita. Dio non abbandonerebbe le disgraziate donne. Andato via lui, donna Noemi, forse offesa dalla stessa maniera dell'ambasciata, si piegherebbe. Dopo tutto, due donne sole non possono vivere.
Bisognava andare. Come aveva fatto, a non capirlo ancora? Gli sembrò che una voce lo chiamasse: e una voce lo chiamò davvero, al di là del muro, dal silenzio della strada.
S'alzò e s'avviò: poi tornò indietro per riprendere la bisaccia attaccata al piuolo sotto la loggia. Il piuolo, fisso lì da secoli, si staccò e balzò fra i ciottoli del cortile come un grosso dito nero. Egli trasalì. Sì, bisognava andarsene: anche il piuolo si staccava per non sostener più la bisaccia.
E con sorpresa di Noemi, che aveva seguito con la coda dell'occhio tutti i movimenti di lui, egli non riattaccò il piuolo, e s'avviò.
«Efix? Te ne vai?»
Egli si fermò, a testa bassa.
«Non aspetti Ester? Torni per Pasqua?»
Egli accennò di no.
«Efix, ti sei offeso? Ti ho detto qualche cosa di male?»
«Nulla di male, padrona mia. Solo che devo andare: è ora.»
«E allora va' in buon'ora.»
Egli pensò un momento: gli parve di dimenticare qualche cosa, come quando si sta per intraprendere un viaggio e ci si domanda se si è provvisti di tutto.
«Donna Noemi, comanda nulla?»
«Nulla. Solo mi pare che tu stia male: sei malato? Sta' qui, chiameremo il dottore: ti tremano le gambe.»
«Devo andare.»
«Efix ascolta: non averti a male di quanto t'ho detto. E' così, non posso, credi. Lo so che ti fa dispiacere, ma non posso. Non dir nulla a Ester. E va', se vuoi andare. Ma se ti senti male torna; ricordati che questa è casa tua.»
Egli s'accomodò sulle spalle la bisaccia e uscì. Sugli scalini del portone scosse i piedi uno dopo l'altro per non portar via neppure la polvere della casa che abbandonava.