Giacinto era ad Oliena: sapeva del disastro e della morte di zia Ruth e aveva paura a tornare laggiù. Viveva con le poche lire guadagnate dalla senseria del vino acquistato per conto del Milese, ma non sapeva che avrebbe fatto poi: anche lui guardava lontano, dal finestrino della sua stanzetta sopra un cortiletto in pendìo in fondo al quale come da un buco si vedeva la grande vallata d'Isporosile con la cattedrale di Nuoro fra due ciglioni, in alto, sul cielo venato di rosa.
Ma neppure a Nuoro si decideva ad andare: provava un senso di attesa, di qualche cosa che ancora doveva succedere, e intanto girovagava per il paese, si ubriacava di sole davanti alla porta della chiesa. Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d'aria, ardeva come una cava di calce: ma ogni tanto una marea di vento lo rinfrescava e i noci e i peschi negli orti mormoravano tra il fruscìo dell'acqua e degli uccelli.
Giacinto guardava le donne che andavano a messa, composte, rigide, coi visi quadrati, pallidi nella cornice dei capelli lucenti come raso nero, i malleoli nudi di cerbiatta, le belle scarpette fiorite: sedute sul pavimento della chiesa, coi corsetti rossi, quasi del tutto coperte dai fazzoletti ricamati, davano l'idea di un campo di fiori. E tutta la chiesa era piena di nastri e di idoli; santi piccoli e neri con gli occhi di perla, santi grossi e deformi, più mostri che idoli.
Dopo le funzioni sacre la gente se ne andava a casa e Giacinto se ne tornava al suo rifugio passando davanti a una chiesa in rovina che gli ricordava la casa laggiù delle sue zie. Pensava a zia Noemi più che a Grixenda e aveva voglia di piangere, di tornare laggiù, di sedersi accanto a lei che cuciva nel cortile e posarle la testa sulle ginocchia, sotto la tela. Ma poi anche lui si vergognava del suo sogno, e tornava al finestrino della stanzetta solitaria a guardare la cattedrale di Nuoro: lassù forse era la sua salvezza.
Nidi di rondine che col tempo avevano preso il colore della pietra correvano come una decorazione fra il tetto e i finestrini della casetta: ogni nido racchiudeva un mucchio di uccellini; di tanto in tanto una testina lucida e tonda come una nacchera ne usciva fuori, sgusciava una rondine, poi un'altra, dieci, venti, ed era tutto uno svolazzare di piccole croci nere, uno stridìo melanconico intorno al finestrino di Giacinto.
Egli tentava di prenderne qualcuna, tanto gli passavan rasenti al viso: e stava immobile in agguato e così l'ora passava. Ma un giorno vide salir su per il cortiletto la figura stanca di Efix e si accorse ch'era appunto lui che aspettava.
Arrivato sotto il finestrino il servo guardò in su senza parlare; non poteva quasi aprir bocca, ma scosse la testa verso la strada, accennando a Giacinto di seguirlo, e Giacinto lo seguì.
Andarono dietro la chiesa, si appoggiarono al muro in rovina, davanti al grande paesaggio pieno di luce.
«Ebbene?», domandò Efix con voce tremante.
Questa parola fece ridere Giacinto: non seppe perché, ma davanti alla miseria del servo si sentiva tutto ad un tratto forte e malvagio.
«Lo domandi a me "ebbene?" Lo domando io a te. Che c'è di nuovo che ti spinge alle mie calcagne? Sei venuto a comprare il vino per le nozze di zia Noemi?»
«Rispetta le tue zie! Tu non le rivedrai più. Donna Ruth è morta. »
Giacinto allora abbassò il viso e si guardò le mani.
«Vedi? Vedi? Neanche una parola di dolore, dici! Neanche una lagrima! Ed è morta per te, miserabile! E' morta di dolore per causa tua.»
La spalla di Giacinto cominciò a tremare; tremò anche il suo labbro inferiore, ma egli se lo morsicò rabbiosamente, e strinse e riaprì i pugni quasi volesse prendere e buttar via qualche cosa.
«Che ho fatto?», domandò con insolenza.
Allora Efix lo guardò di sotto in su con dolore e disprezzo.
«E lo domandi anche? E perché sei ancora qui se non sai quello che hai fatto? Io non ti dico nulla, non ti domando nulla perché non hai nulla. Neanche cuore hai! Solo son venuto a dirti che non devi più rimetter piede in casa loro!»
«Potevi risparmiarti questa fatica! Chi pensa a ritornare?»
«Così rispondi? Di' almeno cosa intendi di fare. Le hai ridotte all'elemosina, le tue disgraziate zie. Che intendi di fare?»
«Pagherò tutto, io.»
«Tu? Con promesse! Ah, ma adesso basta, perdio! Adesso non inganni più nessuno, sai! E' tempo di finirla. E smetti la finzione perché tanto non abbiamo più nulla da darti. Hai inteso, miserabile?»
Allora Giacinto lo guardò a sua volta da sotto in su, maligno e sorpreso, poi sollevò di nuovo le braccia e parve alzarsi da terra scuotendosi tutto contro Efix come un'aquila sopra la sua preda. I suoi occhi e i suoi denti scintillarono al tramonto, e il suo viso diventò feroce.
«Di', non ti vergogni?», domandò sottovoce, afferrandogli le braccia e ficcandogli gli occhi negli occhi.
Ed Efix ebbe l'impressione che quello sguardo gli bruciasse le pupille: un rombo gli risuonò entro le orecchie.
«Non ti vergogni? Miserabile, tu! Io posso aver errato, ma son giovane e posso imparare. Perché vieni a tormentarmi? Lo sapevo, che saresti venuto, e ti aspettavo. Tu, tu almeno devi comprendere e non condannarmi. Hai capito? Non rispondi adesso? Ah, tremi adesso, assassino? Va', che mi vergogno di averti toccato.»
Gli diede uno spintone e s'avviò per andarsene. Efix lo rincorse, gli afferrò la mano.
«Aspetta!»
Stettero un momento in silenzio, come ascoltando una voce lontana.
«Giacinto! Devi dirmi una cosa sola. Giacinto! Ti parlo come fossi un moribondo. Giacì! Dimmelo per l'anima di tua madre! Come hai saputo?»
«Che cosa t'importa?»
«Dimmelo, dimmelo, Giacì! Per l'anima di tua madre.»
Giacinto non dimenticò mai gli occhi di Efix in quel momento; occhi che pareva implorassero dalla profondità di un abisso, mentre la mano che stringeva la sua lo tirava giù verso terra e il corpo del servo si piegava e cadeva lentamente.
Ma tacque.
Efix gli lasciò la mano; cadde piegato su se stesso brancicando la terra e cominciò a tossire e a vomitare sangue: il suo viso era nero, decomposto. Giacinto credette che morisse. Lo tirò su, lo appoggiò con le spalle al muro, si sollevò e stette a guardarlo dall'alto.
«Dimmelo! Dimmelo!», rantolava Efix, sollevando le palme insanguinate. «E' stata tua madre? Dimmi almeno che non è stata lei.»
Giacinto fece cenno di no.
Allora Efix parve calmarsi.
«E' vero», disse sottovoce. «L'ho ucciso io, tuo nonno, sì. Mille volte avrei confessato per la strada, in chiesa, ma non l'ho fatto per loro. Se mancavo io, chi le assisteva? Ma è stato per disgrazia, Giacì! Questo te lo giuro. Io sapevo che tua madre voleva fuggire, e la compativo perché le volevo bene: questo è stato il mio primo delitto. Ho sollevato gli occhi a lei, io verme, io servo. Allora lei ha profittato del mio affetto, s'è servita di me, per fuggire... E lui, il padre, indovinò tutto. E una sera voleva uccidermi. Mi son difeso; con una pietra gli ho percosso la testa. Egli si aggirò un po' intorno a se stesso come una trottola, con la mano sulla nuca, e cadde, lontano dal punto ove mi aveva aggredito... Io credevo lo facesse apposta... Attesi... attesi... che si sollevasse... Poi cominciai a sudare... ma non potevo muovermi... Credevo sempre fosse una finzione... E guardavo... guardavo... così passò molto tempo. Finalmente mi accostai... Giacì? Giacì?» ripeté due volte Efix, con voce bassa e ansante, come se chiamasse ancora la sua vittima «lo chiamai... Non rispondeva. E non ho potuto toccarlo... E son fuggito; e poi son tornato... Tre volte così: mai ho potuto toccarlo. Avevo paura...»
Giacinto ascoltava alto, nero sul cielo rosso: la sua spalla tremava ed Efix, dal basso, credeva di veder tremolare tutto l'orizzonte.
Ma d'improvviso Giacinto se ne andò senza dir niente, ed Efix vide davanti a sé lo spazio libero, la vallata rosea solcata d'ombre, su, su, fino alle colline di Nuoro nere contro il tramonto.
Un silenzio infinito regnava. Solo qualche grido di rondine pareva uscir dai muri in rovina, e un trotto di cavallo risuonò lontano, sempre più lontano.
«E' Giacinto», pensò Efix, «ha preso un cavallo e torna laggiù e rivela tutto alle zie e le maltratta.»
Ascoltò. Gli sembrava che il passo del cavallo risuonasse sul muro, sopra di lui; e poi più basso, sul suo corpo, sopra il suo cuore.
«Se n'è andato senza dirmi niente! Ma io, quando mi raccontò la sua storia col capitano non ho fatto così!»
D'un colpo balzò su, come se qualcosa lo pungesse. Si scosse la polvere dal vestito e corse via, dietro la chiesa, giù allo stradone, incalzato dal pensiero che Giacinto tornasse a casa e maltrattasse le donne.
Ma quando arrivò la casa era ricaduta nella sua pace di morte.
Donna Ester lavava il grano, prima di mandarlo alla mola, immergendolo entro un vaglio nell'acqua d'un paiuolo: le pietruzze rimanevano tutte in un angolo, ed ella dava un balzo al vaglio per cacciarle via tutte assieme. Era molto polveroso e pietroso, il grano; era l'ultimo del sacco che loro rimaneva.
Ma ciò che impressionò Efix fu di vedere donna Noemi col fazzoletto bianco di donna Ruth sul capo, in segno di lutto.
Era invecchiata, bianca in viso come il lenzuolo rattoppato che ella rattoppava ancora.
Egli sedette sulla panca, davanti a loro. Sembravano tutte e tre tranquilli come se nulla fosse accaduto.
«Se ne va o no?», domandò Noemi.
«Se ne andrà.»
Ella lo guardò fisso: lo vide così grigio e scarno che ne ebbe pietà e non parlò più.
E per otto giorni vissero tutti e tre nella speranza angosciosa che Giacinto tornasse e rimediasse al malfatto, che Giacinto se ne andasse e non si facesse rivedere mai più!