Canne al vento
di Grazia Deledda
Capitolo quinto
L'indomani all'alba Efix riportò il cavallo in paese e raccontò alla padrona giovine il divertimento della sera prima. Noemi sembrava tranquilla: solo, quando egli ripartì per il poderetto, corse al portone raccomandandogli di tornare fra tre giorni per portare provviste alle sorelle.
Dopo tre giorni Efix tornò e per non pagare il nolo del cavallo si caricò sulle spalle la bisaccia e s'avviò a piedi.
Il tempo s'era rinfrescato: dai monti del Nuorese scendeva il venticello dei boschi e correva correva sulle erbe lungo il fiume e pareva volesse scendere con questo al mare.
Efix sostò al poderetto, presso l'ontano al limite sabbioso del campo delle angurie, e guardando i tralci carnosi che correvano avviluppandosi qua e là come serpi sotto le foglie, gli pareva che avessero, come del resto tutti i cespugli tremuli intorno, qualche cosa di vivo, di animale. E parlava loro come lo intendessero, raccomandando loro di non stroncarsi, di non seccarsi, di crescere bene e dar molto frutto come era loro dovere; ma un rumore nella strada richiamò la sua attenzione.
Don Predu, fiero e pesante sul suo cavallo nero grasso, passava dietro la siepe. Cosa insolita, vedendo Efix si fermò.
«E che facciamo, con questa bisaccia? Sei stato a rubar fave?»
Efix s'alzò, rispettoso.
«Son le provviste per le mie dame. E lei dove va?»
Anche don Predu andava laggiù. Dalla sua bisaccia a fiorami usciva l'odore del gattò che portava in regalo al Rettore suo amico, e il collo violetto di una damigiana di vino.
«E tu vai a piedi, babbeo? Anche il cavallo ti fanno fare, adesso? Dammi la bisaccia, te la porto. Non scappo, no! Se vuoi esser più sicuro monta su in groppa anche tu, babbeo!»
Sbalordito, dopo essersi un po' fatto pregare e minacciare, Efix caricò la bisaccia sul cavallo che pareva si fosse addormentato, poi montò in groppa alle spalle di don Predu cercando di farsi leggero.
«Adesso suderà, sì, il cavallo di vossignoria!»
«Così il diavolo mi aiuti, è il cavallo più forte del Circondario; puoi caricargli su un monte, lo porta. Vedi, va come non avesse neanche sella. E dimmi, tu, cosa è venuto a frugare qui quel vagabondo di mio nipote?»
Efix gli fece una smorfia alle spalle. Ah, ecco perché l'aveva preso!
«Perché, vagabondo? Era impiegato.»
«Che impiego aveva? Contava le ore?»
«Un buon impiego, invece! Nella Dogana. Ma, certo, per vivere in quei posti ci vuole molto denaro. Ci son signori che hanno terre quanto è grande la Sardegna e uno fa elemosine più del re.»
Don Predu si gonfiò tutto dal ridere: una risata silenziosa, feroce.
«Ah, ecco, ci siamo! Ecco che hai già la testa piena di vento!»
«Perché parla così, don Predu?», disse Efix con dignità. «Il ragazzo è sincero, buono: non ha vizi, non fuma, non beve, non ama le donne. Avrà fortuna. Se vuole ha subito un posto a Nuoro. Eppoi ha anche denari alla Banca.»
«Tu li hai contati, babbeo? Ah, Efix, in fede mia, a te danno da mangiare fandonie, invece di pane. Dimmi, quanto ti devono adesso le tue nobili padrone?»
«Nulla mi devono. Io devo tutto a loro.»
«Zitto, se no ti scaravento dentro il fiume. Senti, adesso continuerete a far debiti, per mantenere il ragazzo: prenderete denari da Kallina, il demonio l'affondi. Venderete il podere. Ricordati che lo voglio io. Se non mi avverti a tempo, se farete come altre volte che invece di vendere a me per il prezzo giusto avete venduto a metà agli altri, bada, ti avverto, Efisè, ti taglio le canne della gola. Sei avvertito.»
L'uomo, dietro, ansava, oppresso da un peso ben più grave della bisaccia di cui don Predu aveva voluto liberarlo.
«Dio, Signore! Perché parla così, don Predu? Come un nemico delle sue povere cugine?»
«Al diavolo le cugine e la loro testa piena di vento! Son loro che mi han trattato sempre da nemico. E nemico sia. Ma tu ricordati, Efix: il poderetto lo voglio io...»
Il martirio durò tutta la strada, finchè Efix, stanco più che avesse viaggiato a piedi, scivolò dalla groppa del cavallo e tirò giù la bisaccia.
Entrando nel recinto rivide la solita scena: le sue dame sedevano sulla panchina con le mani in grembo, Kallina filava, coi piedi nudi entro le scarpette a nastri; nell'interno delle capanne le donne sedute per terra bevevano il caffè, cullavano i bimbi, e sull'alto del belvedere, sullo sfondo del cielo dorato, la figura nera di prete Paskale salutava col fazzoletto turchino.
«Si divertono?», domandò Efix, deponendo la bisaccia ai piedi delle sue padrone. «E lui?»
«Balliamo sempre», disse donna Ester, e donna Ruth si alzò per riporre la roba.
Di Giacinto parlò commossa l'usuraia.
«Che giovane affabile! Di poche parole, ma buono come il miele. Si diverte come un bambino e viene qui a mangiare il mio pane d'orzo. Eccolo che adesso ritorna con Grixenda dalla fontana.»
Si vedevano infatti in lontananza, tra il verde delle macchie, lui alto e verdognolo, lei piccola e nera, tutti e due con in mano le secchie scintillanti che di tanto in tanto si toccavano e di cui l'acqua, traboccando, si mischiava e sgocciolava. E i due pareva provassero piacere a quel contatto perché guardavano le secchie a testa bassa e ridevano.
Efix ebbe un presentimento. Andò su dal prete a portargli un cestino di biscotti, regalo di una paesana, e vide di lassù don Predu, indugiatosi ad abbeverare il cavallo alla fontana, raggiungere Giacinto e Grixenda e curvarsi a dir loro qualche cosa. Tutti e tre ridevano, la fanciulla a testa bassa, Giacinto toccando il collo del cavallo.
«Efix», disse il prete, sbattendosi il fazzoletto sul petto per togliervi il tabacco, «ecco don Predu. Meno male, avremo un po' di maldicenza. E il vostro Giacinto è un bravo ragazzo; viene a messa e alla novena. Ben educato, affabile. Ma mi raccomando, attenzione!»
Le serve del prete corsero fuori per aiutare don Predu a scaricar le bisacce, mentre le altre donne affacciavano i visi pallidi alle porticine e il cane, dopo aver un po' abbaiato, si slanciava alto davanti al cavallo quasi volesse baciarlo.
«Piano, donne!», disse don Predu. «C'è dentro le bisacce qualche cosa che si rompe a toccarla, come voi...»
«La tocchi la saetta, don Predu!», imprecò Natòlia, pur guardandolo con occhi languidi per tentarne la conquista.
Ah, se le riusciva! Si sarebbe così vendicata di Grixenda, che si era preso tutto per sé lo straniero.
Grixenda a sua volta sembrava eccitata per l'arrivo di don Predu.
«Quello, vede», disse sottovoce a Giacinto, mentre attraversavano il cortile, «quello, suo zio, è un uomo che si diverte e spende, nelle feste. Non sta melanconico come lei! Cento lire ha, cento lire butta, così!»
Prese un po' d'acqua con le dita, e gliela buttò sul viso, senza ch'egli cessasse di sorridere con gli occhi dolci pieni di desiderio, mostrandole fra le labbra rosee i denti bianchi quasi volesse morderla.
«Che cosa son cento lire? Io ne ho spese mille in una notte e non mi sono divertito...»
Grixenda depose la secchia sul sedile, e si gettò sopra il bambino che le sorrideva dal giaciglio agitando le gambine in aria e tentando di afferrarsele con le manine sporche: gli baciò le cosce, affondando le labbra nella carne tenera ove i solchi segnavano striscioline rosee e viola; lo sollevò in alto, lo riabbassò fino a terra, lo sollevò ancora, lo fece ridere, lo portò fuori stringendoselo forte al petto.
Fuori Giacinto s'era messo a sedere a gambe aperte, e vi dondolava in mezzo le mani, ascoltando Kallina che lo invitava a mangiare con lei le fave cotte col latte: parlavano piano, come di cosa grave, ma donna Ruth si affacciò alla porticina con in mano una coscia d'agnello bianca di grasso col rognone violetto coperto dal velo, e interruppe il colloquio.
«Bisogna chiamar Efix perché faccia uno spiedo di legno: Giacintino, va'!»
Grixenda corse lei a chiamare il servo, gli si fregò addosso come una gattina, gli diede da baciare il bambino.
«Come sono contenta, zio Efix! Stanotte balleremo ancora! Ma guardate il vostro padroncino: pare faccia la corte a Kallina!»
Efix la guardava con tenerezza; vide Giacinto sollevar gli occhi pieni d'amore e di desiderio, e in cuor suo benedisse i due giovani. Sì, divertitevi, amatevi: alla festa si va per questo e la festa passa presto...
Seduto all'ombra del muro cominciò a intagliare lo spiedo: le donne ridevano intorno a lui, Giacinto come sempre taceva e pareva intento alla voce della fisarmonica che riempiva di lamenti e di grida il cortile. Ma arrivò Natòlia, dondolando i fianchi.
«Il mio padrone e don Predu invitano don Giacintino a pranzo. »
Ed egli si alzò, dopo aver sbattuto bene l'orlo dei calzoni. Donna Ester lo seguì con gli occhi e guardò a lungo verso il belvedere, come affascinata dal luccichio dei bicchieri e del vassoio d'argento che Natòlia agitava lassù come uno specchio; l'idea che il cugino ricco facesse caso del nipote povero bastava per renderla felice.
Le donne lodavano Giacinto, e l'usuraia traendo il filo fra il pollice e l'indice e girando il fuso sul ginocchio diceva con dolcezza insolita:
«Un ragazzo così docile non l'avevo mai conosciuto. E bello, poi! Rassomiglia al Barone antico...».
«A chi? Al Barone morto che vive ancora nel castello?»
Ma donna Ruth si mise l'unghia dell'indice sulla bocca: non bisognava parlar di morti, alla festa.
«Altro che spirito: è vivo e ha le mani che si muovono, non è vero, Grixè? Chi? Don Giacintino!»
Ma Grixenda, appoggiata al muro, col bimbo che le morsicava i bottoni della camicia, guardava anche lei il vassoio luccicante su nel belvedere, e i suoi occhi parevano affascinati come quelli della vecchia nonna quando nelle notti di luna spiavano il passaggio dei folletti giù verso il fiume.
Efix tornò ancora tre giorni dopo. Questa volta non era solo: quasi tutti quelli del paese scendevano alla festa, e le donne portavano sul capo vassoi con torte e cestini pieni di galline legate con nastri rossi.
Gli alberelli intorno erano carichi di frutti acerbi e la festa pareva si stendesse per tutta la valle.
Arrivando, Efix trovò il recinto intorno alle capanne già ingombro di carri con tende formate da sacchi e da lenzuola, e i rivenditori di dolci e di vino dritti accanto ai loro piccoli banchi all'ombra della chiesa.
Una fila di mendicanti vigilava il sentiero e le loro figure accovacciate, terree e turchine, alcune con orribili occhi bianchi, altre con piaghe rosse e tumori violacei, coi petti nudi come scorticati, con le braccia e le dita brancicanti nerastre come ramicelli bruciati, si disegnavano fra un cespuglio e l'altro sulla linea azzurrognola e lattea dell'orizzonte. Ma al di là l'occhio spaziava sul verde, e i gruppi dei cavalli e dei puledri rendevano più grandioso il paesaggio.
Il suono della fisarmonica arrivava fin laggiù; il motivo saltellante e voluttuoso richiamava alla danza, ma a volte si mutava in lamento, come stanco di gioia, come rimpiangendo il piacere che passa e gemendo per l'inutilità di tutte le cose: allora anche l'occhio melanconico delle giumente pareva pieno di una dolcezza nostalgica.
Efix si fermò un momento in mezzo a un gruppo di paesani del Nuorese: le donne sedevano in fila davanti alle capanne, aspettando l'ora della messa cantata, e i loro corsetti di scarlatto davano un tono rosso all'ombra del muro.
Ma la messa tardava. Su nel belvedere i preti ridevano e il vassoio di Natòlia passava e ripassava scintillando fra l'azzurro e il nero.
Efix trovò la capanna deserta: le padrone erano in chiesa ed egli andò a cercarle, ma si trovò preso in mezzo fra don Predu, il Milese e Giacinto, davanti a un rivenditore di vino, e vide tre bicchieri gialli intorno al suo viso.
«Bevi, babbeo!»
«Per me è presto.»
«Non è mai presto per un uomo sano. O sei malato?»
Don Predu gli batté così forte alle spalle che egli balzò avanti e il vino traboccò dai bicchieri e gli si versò addosso. Sia tutto per l'amor di Dio! Egli si asciugò le vesti con la mano e bevette; e con sorpresa e soddisfazione vide Giacinto trarre il portafogli e porgere al rivenditore un biglietto da cinquanta lire. Dio sia lodato, vuol dire che il ragazzo aveva denari davvero.
Del resto fu tutta una giornata di gioia: gioia composta e quasi melanconica nelle donne, verso le quali gli uomini, divertendosi rumorosamente fra loro, dimostravano una certa noncuranza.
Tutto il giorno la fisarmonica suonò accompagnata dai gridi dei rivenditori, dall'urlo dei giocatori di morra, dai canti corali o dai versi dei poeti estemporanei.
Raccolti entro una capanna, seduti per terra a gambe in croce intorno a una damigiana verso cui si volgevano come a un idolo, i poeti improvvisavano ottave pro e contro la guerra di Libia: eran parecchi e si davano il turno, e intorno a loro si accalcavano uomini e ragazzi: di tanto in tanto qualcuno si curvava per prendere di terra un bicchiere di vino.
«Bibe, diauu!»
«Salute!»
«Che possiamo conoscerla cento anni di seguito, questa festa, sani e allegri.»
«Bibe, forca!»
Il poeta Serafino Masala di Bultei, col profilo greco e vestito come un eroe di Omero, cantava:
Su turcu non si cheret reduire,
Anzis pro gherrare est animosu,
S'arabu inferocidu est coraggiosu,
Si parat prontu né cheret fuire...
I bicchieri passavano da una mano all'altra; qualche donna s'affacciava timidamente alla porta.
E Gregorio Giordano di Dualchi, bel giovane rosso vestito come un trovatore, si lisciava i lunghi capelli con tutte e due le mani, se li tirava sul collo, e cantava quasi singhiozzando come una prèfica:
Basta, non poto pius relatare,
Discurro su chi poto insa memoria,
Chi àppana in dogni passu sa vittoria.
De poder tottu l'Africa acquistare;
Tranquillos e sanos a torrare,
Los assistansos Santos de sa Gloria,
E cun bona memoria e vertude
Torren a dom'issoro chin salude!
Applausi e risate risuonavano; tutti ridevano ma erano commossi.
All'ombra della chiesa Efix invece sentiva altri gruppi di paesani parlare dell'America e degli emigranti.
«L'America? Chi non l'assaggia non sa cosa è. La vedi da lontano e ti sembra un agnello da tosare: ci vai vicino e ti morsica come un cane.»
«Sì, fratelli cari, io ci andai con la bisaccia a metà piena e credevo di riportarla colma; la riportai vuota!»
Un Baroniese smilzo alto e nero come un arabo, invitò Efix a bere e gli raccontò episodi della guerra, di cui era reduce.
«Sì», diceva, guardandosi le mani, «ho strappato il ciuffo ad un Sirdusso, uno che adorava il diavolo. Io avevo fatto voto di prenderglielo, il ciuffo; di prenderlo intero, con la pelle e con tutto. E così lo presi, che possiate vedermi cieco, se mentisco! Lo portai al mio capitano, tenendolo come un grappolo; sgocciolava sangue nero come acini d'uva nera. Il capitano mi disse: bravo, Conzinu!»
Efix ascoltava, con in mano una rosellina di macchia. Si fece il segno della croce con lo stelo del fiore, e disse:
«Ti confesserai, Conzì! Hai ucciso un uomo!».
«Nella guerra non è peccato. E' forse di nascosto? No.»
Allora cominciarono a discutere, ed Efix guardava la rosellina come parlando a lei sola.
«Ad uccidere tocca a Dio.»
Ma dovette interrompere la discussione perché da lontano donna Ester gli accennava di avvicinarsi. Era l'ora del pasto; Giacinto era invitato dal prete e tutti, chi più chi meno, mangiavano in buona compagnia. Dalle capanne uscivan nuvole di fumo odoroso d'arrosto.
L'angolo più tranquillo era quello delle dame. Sedute nella loro capanna mangiavano con Efix l'arrosto di agnello e parlavano di Noemi lontana e di Giacinto, del prete e del Milese, sorridendo senza malizia.
«I primi giorni», disse donna Ruth. tagliando una piccola torta in tre porzioni eguali, «Giacinto parlava sempre d'andarsene a Nuoro, ove diceva d'aver un posto nel molino. Adesso, da due giorni non ne parla più.»
«Ma è che da due giorni non si vede quasi più; e sempre con Predu e con altri compagni.»
«Lasciamolo divertire», disse Efix.
Fuor dalla porta si vedeva Kallina seduta, insolitamente oziosa sulla sua pietra, e Grixenda col bambino in grembo, pallida e triste fissava il belvedere del prete.
Ah, Giacinto si divertiva lassiù, dimentico di lei: e a lei pareva di star accovacciata sul limite di un deserto, davanti a un miraggio.
Efix uscì e le disse:
«Perché non ti diverti?»:
Ella accomodò sulla cuffietta del bimbo il nastrino giallo contro il malocchio, e gli occhi le si riempivano di lagrime.
«Per me è finito tutto!»
Dalle capanne le parenti la chiamavano:
«Grixenda, vieni! Che dirà tua nonna vedendoti così magra? Che non ti diamo da mangiare?».
«Eh, bocconi soli ci vogliono», disse Kallina a Efix, dopo averlo chiamato ammiccando. «Vieni, Efix, bevi un bicchiere di vernaccia. Sai chi me l'ha regalata? Il tuo padroncino. Buono come il pane, e affabile: ma senti, bisogna dirgli che Grixenda non è adatta per lui!»
«E lasciateli divertire! Siamo alla festa!»
«Qui si viene a far penitenza, non a peccare. Sì, le parenti danno da mangiare a Grixenda, ma non badano ov'essa va giorno e notte con don Giacinto.»
«E le mie padrone? Non s'accorgono?»
«Loro? Sono come i santi di legno nelle chiese. Guardano, ma non vedono: il male non esiste per loro.»
«E' vero!», ammise Efix. Bevette, ma si sentì triste e andò a coricarsi sotto un lentischio della brughiera.
Di là vedeva l'erba alta ondulare quasi seguendo il motivo monotono della fisarmonica, e i cavalli immobili al sole come dipinti sullo smalto azzurro dell'orizzonte.
Le voci si perdevano nel silenzio, le figure sfumavano nella luce: ed eccone una di donna sorgere accanto a un cespuglio: un'altra di uomo la raggiunge e le si accosta tanto che formano un'ombra sola.
Efix sentì un brivido alla schiena, eppure staccò una margheritina, ne masticò lo stelo e guardò senza invidia Grixenda e Giacinto abbracciati. Dio li benedica e li avvolga sempre così, di sole e di luce.
Nel pomeriggio la festa fu ancora più animata. Gli uomini si mostravano più espansivi con le donne, trascinandole al ballo, e il sole obliquo tingeva di rosa il cortile che ronzava come un alveare.
Al cader del sole il popolo si raccolse nella chiesa e migliaia di voci salirono in una sola, fondendosi come fuori si fondevano i profumi dei cespugli; Efix, inginocchiato in un angolo, provava la solita estasi dolorosa: e accanto a lui Grixenda, inginocchiata, rigida come un angelo di legno, cantava gemendo d'amore.
La luce rossa dei crepuscolo, vinta verso l'altare dal chiaror dei ceri, copriva la folla come di un velo di sangue, ma a poco a poco il velo si fece nero, rischiarato appena dall'oro dei ceri. La folla non si decideva ad uscire, sebbene il prete avesse finito le sue orazioni, e continuava a cantare intonando le laudi sacre. Era come il mormorio lontano del mare, il muoversi della foresta al vespero: era tutto un popolo antico che andava, andava, cantando le preghiere ingenue dei primi cristiani, andava, andava per una strada tenebrosa, ebbro di dolore e di speranza, verso un luogo di luce, ma lontano, irraggiungibile.
Efix con la testa fra le mani cantava e piangeva. Grixenda guardava avanti a sé con gli occhi umidi che riflettevano la fiammella dei ceri, e cantava e piangeva anche lei. E la pena dell'uno era uguale a quella dell'altra: e la pena di entrambi era la stessa di tutto quel popolo che ricordava come il servo un passato di tenebre e sognava come la fanciulla un avvenire di luce: pena d'amore.
Poi tutto fu silenzio.
Zuannantoni, impaziente di riprendere la fisarmonica, fu il primo a balzar fuori con la berretta in mano. Ma sulla porta si fermò, guardò in su e diede un grido. Tutti si precipitarono a guardare. Era la luna nuova che rasentava il muro e pareva volesse scender là dentro.
Dopo cena ricominciarono i canti e le grida attorno ai fuochi: ballava persino don Predu, rendendo felici tutte le donne che speravano d'esser scelte da lui.
Solo Giacinto non ballava; seduto accanto all'usuraia faceva dondolar le mani fra le sue ginocchia, pallido e stanco: intanto Efix sentiva le donne discutere su chi quel giorno aveva più speso denari e s'era più divertito, e qualcuno diceva:
«E' don Predu».
«No, è don Giacinto. Più di trecento lire, ha speso. Ma è ricco. Dicono che ha una miniera d'argento; ma come s'è divertito!»
«Pagava da bere a tutti, anche a chi non conosceva.»
«Perché lo fa?»
«Oh bella, perché chi ne ha ne spende.»
Efix provava soddisfazione e inquietudine. Sedette accanto a Giacinto e gli riferì le chiacchiere delle donne.
«Una miniera d'argento? Sì, rende, ma non come una miniera di petrolio. Una signora che conosco io sognò che in tal posto ce n'era una, in un terreno d'un signore decaduto. Questi era così disperato che stava per uccidersi. Ma scavò dove quella aveva sognato e adesso è così ricco che passa ventimila lire al mese a una donna...»
«Perché non ha sposato quella del sogno? O aveva già marito?», domandò Efix pensieroso.
Le donne ballavano: si vedeva Grixenda col viso acceso ridere come la creatura più folle della festa; ed Efix mormorò toccando il ginocchio di Giacinto:
«Vossignoria... dicono... guarda quella ragazza... E' buona, ma è povera. Eppoi anche orfana...».
«La sposerò», disse Giacinto, ma guardava per terra e pareva sognasse.