Egli restò in paese tutta la giornata.
Era inquieto per il podere - sebbene in quel tempo ci fosse poco da rubare - ma gli sembrava che un segreto dissidio turbasse le sue padrone, e non voleva ripartire se prima non le vedeva tutte d'accordo.
Donna Ester, dopo aver rimesso qualche oggetto in ordine, uscì di nuovo per andare nella Basilica; Efix promise di raggiungerla, ma mentre donna Noemi risaliva al piano superiore, egli rientrò in cucina e sottovoce pregò donna Ruth, che si era inginocchiata per terra e gramolava un po' di pasta su una tavola bassa, di dargli il telegramma. Ella sollevò la testa e col pugno rivolto bianco di farina si tirò un po' indietro il fazzoletto.
«L'hai sentita?», disse sottovoce accennando a Noemi. «E' sempre lei! L'orgoglio la regge...»
«Ha ragione!», affermò Efix pensieroso. «Quando si è nobili si è nobili, donna Ruth. Trova lei una moneta sotterra? Le sembra di ferro perché è nera, ma se lei la pulisce vede che è oro... L'oro è sempre oro...»
Donna Ruth capì che con Efix era inutile scusare l'orgoglio fuori posto di Noemi, e sempre pronta a seguire l'opinione altrui, se ne rallegrò.
«Ti ricordi com'era superbo mio padre?», disse ricacciando fra la pasta pallida le sue mani rosse venate di turchino. «Anche lui parlava così. Lui, certo, non avrebbe permesso a Giacintino neppure di sbarcare. Che ne dici, Efix?»
«Io? Io sono un povero servo, ma dico che don Giacintino sarebbe sbarcato lo stesso.»
«Figlio di sua madre, vuoi dire?», sospirò donna Ruth, e il servo sospirò anche lui. L'ombra del passato era sempre lì, intorno a loro.
Ma l'uomo fece un gesto appunto come per allontanare quest'ombra e seguendo con gli occhi il movimento delle mani rosse che tiravano, piegavano e battevano la pasta bianca, riprese con calma:
«Il ragazzo è bravo e la provvidenza lo aiuterà. Bisogna però stare attenti che non prenda le febbri. Poi bisognerà comprargli un cavallo, perché in continente non si usa andare a piedi. Ci penserò io. L'importante è che le loro signorie vadano d'accordo».
Ma ella disse subito con fierezza:
«E non siamo d'accordo? Ci hai forse sentito a questionare? Non vai a messa, Efix?».
Egli capì che lo congedava e uscì nel cortile, ma guardò se si poteva parlare anche con donna Noemi. Eccola appunto che ritira la coperta dal balcone: inutile pregarla di scendere, bisogna salire fino a lei.
«Donna Noemi, mi permette una domanda? E' contenta?»
Noemi lo guardò sorpresa, con la coperta abbracciata.
«Di che cosa?»
«Che venga don Giacintino. Vedrà, è un bravo ragazzo.»
«Tu, dove lo hai conosciuto?»
«Si vede da come scrive. Potrà far molto. Bisognerà però comprargli un cavallo...»
«Ed anche gli sproni allora!»
«...Tutto sta che le loro signorie vadano d'accordo. Questo è l'importante. »
Ella tolse un filo dalla coperta e lo buttò nel cortile: il suo viso s'era oscurato.
«Quando non siamo andate d'accordo? Finora sempre.»
«Sì... ma... pare che lei non sia contenta dell'arrivo di don Giacintino.»
«Devo mettermi a cantare? Non è il Messia!», ella disse, passando di traverso nella porticina dal cui vano si vedeva l'interno d'una camera bianca con un letto antico, un cassettone antico, una finestruola senza vetri aperta sullo sfondo verde del Monte.
Efix scese, staccò una piccola violacciocca rosea e tenendola fra le dita intrecciate sulla schiena si diresse alla Basilica.
Il silenzio e la frescura del Monte incombente regnavano attorno: solo il gorgheggio delle cingallegre in mezzo ai rovi animava il luogo, accompagnando la preghiera monotona delle donne raccolte nella chiesa. Efix entrò in punta di piedi, con la violacciocca fra le dita, e s'inginocchiò dietro la colonna del pulpito.
La Basilica cadeva in rovina; tutto vi era grigio, umido e polveroso: dai buchi del tetto di legno piovevan raggi obliqui di polviscolo argenteo che finivano sulla testa delle donne inginocchiate per terra, e le figure giallognole che balzavano dagli sfondi neri screpolati dei dipinti che ancora decoravano le pareti somigliavano a queste donne vestite di nero e viola, tutte pallide come l'avorio e anche le più belle, le più fini, col petto scarno e lo stomaco gonfio dalle febbri di malaria. Anche la preghiera aveva una risonanza lenta e monotona che pareva vibrasse lontano, al di là del tempo: la messa era per un trigesimo e un panno nero a frange d'oro copriva la balaustrata dell'altare; il prete bianco e nero si volgeva lentamente con le mani sollevate, con due raggi di luce che gli danzavano attorno e parevano emanati dalla sua testa di profeta. Senza lo squillo del campanello agitato dal piccolo sacrista che pareva scacciasse gli spiriti d'intorno. Efix, nonostante la luce, il canto degli uccelli, avrebbe creduto di assistere ad una messa di fantasmi. Eccoli, son tutti lì; c'è don Zame inginocchiato sul banco di famiglia e più in là donna Lia pallida nel suo scialle nero come la figura su nel quadro antico che tutte le donne guardano ogni tanto e che pare affacciata davvero a un balcone nero cadente. E la figura della Maddalena, che dicono dipinta dal vero: l'amore, la tristezza, il rimorso e la speranza le ridono e le piangon negli occhi profondi e nella bocca amara...
Efix la guarda e sente, come sempre davanti a questa figura che s'affaccia dall'oscurità di un passato senza limiti, un capogiro come se fosse egli stesso sospeso in un vuoto nero misterioso... Gli sembra di ricordare una vita anteriore, remotissima. Gli sembra che tutto intorno a lui si animi, ma d'una vita fantastica di leggenda; i morti risuscitano, il Cristo che sta dietro la tenda giallastra dell'altare, e che solo due volte all'anno viene mostrato al popolo, scende dal suo nascondiglio e cammina: anche Lui è magro, pallido, silenzioso: cammina e il popolo lo segue, e in mezzo al popolo è lui, Efix, che va, va, col fiore in mano, col cuore agitato da un sussulto di tenerezza... Le donne cantano, gli uccelli cantano; donna Ester sgambetta accanto al servo, col dito fuori dell'incrociatura dello scialle. La processione esce fuori dal paese, e il paese è tutto fiorito di melograni e di vitalbe; le case son nuove, il portone della famiglia Pintor è nuovo, di noce, lucido, il balcone è intatto... Tutto è nuovo, tutto è bello. Donna Maria Cristina è viva e s'affaccia al balcone ove sono stese le coperte di seta. Donna Noemi è giovanissima, è fidanzata a don Predu, e don Zame, che segue anche lui la processione, finge d'esser come sempre corrucciato, ma è molto contento...
Ma il canto delle donne cessò e alcune s'alzarono per andarsene. Efix, che aveva appoggiato la testa alla colonna del pulpito, si scosse dal suo sogno e seguì donna Ester che usciva per tornarsene a casa.
Il sole alto sferzava adesso il paesetto più che mai desolato nella luce abbagliante del mattino già caldo: le donne uscite di chiesa sparvero qua e là, tacite come fantasmi, e tutto fu di nuovo solitudine e silenzio intorno alla casa delle dame Pintor. Donna Ester s'avvicinò, al pozzo per coprire con un'assicella una piantina di garofani, salì svelta le scale, chiuse porte e finestre. Al suo passare il ballatoio scricchiolava e dal muro e dal legno corroso pioveva una polverina grigia come cenere.
Efix aspettò ch'ella scendesse. Seduto al sole sugli scalini, con la berretta ripiegata per farsi un po' d'ombra sul viso, appuntava col suo coltello a serramanico un piuolo che donna Ruth desiderava piantare sotto il portico; ma lo scintillare della lama al sole gli faceva male agli occhi e la violacciocca già appassita tremolava sul suo ginocchio. Egli sentiva le idee confuse e pensava alla febbre che lo aveva tormentato l'anno scorso.
«Già di ritorno quella diavola?»
Donna Ester ridiscese, con un vasetto di sughero in mano: egli si tirò in là per lasciarla passare e sollevò il viso ombreggiato dalla berretta.
«Padrona mia, non esce più?»
«E dove vuoi che vada, a quest'ora? Nessuno mi ha invitato a pranzo!»
«Vorrei dirle una cosa. E' contenta?»
«Di che, anima mia?»
Ella lo trattava maternamente, senza famigliarità però; lo aveva sempre considerato un uomo semplice.
«Che... che sieno tutte d'accordo per la venuta di don Giacintino?»
«Son contenta, sì. Doveva esser così.»
«E' un bravo ragazzo. Farà fortuna. Bisogna comprargli un cavallo. Però...»
«Però?»
«Non bisognera dargli molta libertà, in principio. I ragazzi son ragazzi... Io ricordo quando ero ragazzo, se uno mi permetteva di stringergli il dito mignolo io gli torcevo tutta la mano. Eppoi gli uomini della razza Pintor, lei lo sa... donna Ester... sono superbi...»
«Se mio nipote arriverà, Efix, io gli dirò come all'ospite: siediti, sei come in casa tua. Ma egli capirà che qui lui è ospite...»
Allora Efix si alzò, scuotendosi dalle brache la segatura del piuolo. Tutto andava bene, eppure un senso di inquietudine lo agitava: aveva da dire ancora una cosa ma non osava.
Seguì passo passo la donna, si tolse la berretta per piantar con più forza il piuolo, attese di nuovo pazientemente finché donna Ester tornò per attinger acqua.
«Dia! Dia a me», disse togliendole di mano la secchia, e mentre tirava su l'acqua guardava dentro il pozzo, per non guardare in viso la padrona, poiché si vergognava di chiederle i denari che ella gli doveva.
«Donna Ester, non vedo più i fasci di canne. Le ha poi vendute?»
«Sì, le ho vendute in parte a un Nuorese, in parte le ho adoperate per accomodare il tetto, e così ho pagato anche il muratore. Sai che l'ultimo giorno di quaresima il vento portò via le tegole.»
Egli non insisté dunque. Ci son tanti modi di aggiustar le cose, senza mortificar la gente a cui si vuol bene! Andò quindi da Kallina l'usuraia, fermandosi a salutare la nonna del ragazzo rimasto a guardia del poderetto. Alta e scarna, col viso egizio inquadrato dal fazzoletto nero con le cocche ripiegate alla sommità del capo, la vecchia filava seduta sullo scalino della sua catapecchia di pietre nerastre. Una fila di coralli le circondava il lungo collo giallo rugoso, due pendenti d'oro tremolavano alle sue orecchie come gocce luminose che non si decidevano a staccarsi. Pareva che invecchiando ella avesse dimenticato di togliersi quei gioielli di giovinetta.
«Ave Maria, zia Pottoi; come ve la passate? Il ragazzo è rimasto lassù, ma stasera sarà di ritorno.»
Ella lo fissava coi suoi occhi vitrei.
«Ah, sei Efix? Dio ti aiuti. Ebbene, la lettera di chi era? Di don Giacintino? Se egli arriva accoglietelo bene. Dopo tutto torna a casa sua. E' l'anima di don Zame, perché le anime dei vecchi rivivono nei giovani. Vedi Grixenda mia nipote! E' nata sedici anni fa, per la festa del Cristo, mentre la madre moriva. Ebbene, guardala: non è sua madre rinata? Eccola...»
Ecco infatti Grixenda che torna su dal fiume con un cestino di panni sul capo, alta, le sottane sollevate sulle gambe lucide e dritte di cerbiatta. E di cerbiatta aveva anche gli occhi lunghi, umidi nel viso pallido di medaglia antica: un nastro rosso le attraversava il petto, da un lembo all'altro del corsettino aperto sulla camicia, sostenendole il seno acerbo.
«Zio Efix!», gridò carezzevole e crudele, mettendogli il cestino sul capo e frugandogli le saccocce.
«Anima mia bella! Sempre penso a voi, e voi non avete nulla da darmi... Neanche una mandorla!»
Efix lasciava fare, rallegrato dalla grazia di lei. Ma la vecchia, col viso immobile e gli occhi vitrei, disse con dolcezza:
«Don Zame bonanima ritorna».
Allora Grixenda s'irrigidì, e il suo bel viso e i suoi begli occhi rassomigliavano vagamente a quelli della nonna.
«Ritorna?»
«Lasciate queste storie!», disse Efix deponendo il cestino ai piedi della fanciulla, ma ella ascoltava come incantata le parole della nonna, e anche lui discendendo la strada credeva di rivedere il passato in ogni angolo di muro. Ecco, laggiù, seduto sulla panchina di pietra addossata alla casa grigia del Milese un grosso uomo vestito di velluto la cui tinta marrone fa spiccare meglio il colore del viso rosso e della barba nera.
Non è don Zame? Come lui sporge il petto, coi pollici nei taschini del corpetto, le altre dita rosse intrecciate alla catena d'oro dell'orologio. Egli sta lì tutto il giorno a guardare i passanti e a beffarsi di loro: molti cambiano strada per paura di lui, e altrettanto fa Efix per raggiungere non visto la casa dell'usuraia.
Una siepe di fichi d'India recingeva come una muraglia pesante il cortile di zia Kallina: anche lei filava, piccola, con le scarpette ricamate, senza calze, col visetto bianco e gli occhi dorati di uccello da preda lucidi all'ombra del fazzoletto ripiegato sul capo.
«Efix, fratello caro! Come stai? E le tue padroncine? E questa visita? Siedi, siedi, indugiati.»
Galline sonnolente che si beccavano sotto le ali, gattini allegri che correvano appresso ad alcuni porcellini rosei, colombi bianchi e azzurrognoli, un asino legato a un piuolo e le rondini per aria davano al recinto l'aspetto dell'arca di Noè: la casetta sorgeva sullo sfondo della vecchia casa riattata del Milese, alta, quest'ultima, col tetto nuovo, ma qua e là scrostata e come graffiata dal tempo indispettito contro chi voleva togliergli la sua preda.
«Il podere?», disse Efix appoggiandosi al muro accanto alla donna. «Va bene. Quest'anno avremo più mandorle che foglie. Così ti pagherò tutto, Kallì! Non stare in pensiero...»
Ella aggrottò le sopracciglia nude, seguendo con gli occhi il filo del suo fuso.
«Non ci pensavo neanche, vedi! Tutti fossero come te, e i sette scudi che tu mi devi fossero cento!»
«Saetta che ti sfiori!», pensava Efix. «M'hai dato quattro scudi, a Natale, e ora son già sette!»
«Ebbene, Kallì», aggiunse a bassa voce, curvando la testa come parlasse ai porcellini che gli fiutavano con insistenza i piedi. «Kallì, dammi un altro scudo! Così fan otto, e a luglio, come è vero il sole, ti restituirò fino all'ultimo centesimo...»
L'usuraia non rispose; ma lo guardò a lungo da capo a piedi e tese il pugno verso di lui facendo le fiche.
Efix sobbalzò e le afferrò il polso, mentre i porcellini scappavano seguiti dai gattini e a tanto subbuglio le galline starnazzavano.
«Kallì, saetta che ti sfiori, se non ci fossero gli uomini come me, tu invece di praticar l'usura andresti a pescar sanguisughe...»
«Meglio pescar sanguisughe che farsi succhiare il sangue come te, malaugurato! Sì, Maccabeo, te lo do lo scudo; dieci e cento te ne do, se li vuoi, come li do a gente più ragguardevole di te, alle tue padroncine, ai nobili e ai parenti dei Baroni, ma le fiche te le farò sempre finché sarai uno stupido, cioè fino alla tua morte... Te li darò...»
E andò a prendere cinque lire d'argento.
Efix se ne andò, con la moneta nel pugno, seguito dai saluti ironici della donna.
«Di' alle tue padroncine che si conservino bene.»
Ma egli era deciso a sopportare ogni pena pur di far bella figura all'arrivo di don Giacintino. Voleva comprarsi una berretta nuova per riceverlo, e scese quindi alla bottega del Milese, rassegnandosi anche a salutare l'uomo seduto sulla panchina. Era don Predu, il parente ricco delle sue padroncine.
Don Predu rispose con un cenno sprezzante del capo, da sotto in su, ma non sdegnò di tender l'orecchio per sentire cosa il servo comprava.
«Dammi una berretta, Antoni Franzì, ma che sia lunga e che non sia tarlata...»
«Non l'ho presa in casa delle tue padrone», rispose il Milese che aveva la lingua lunga. E fuori don Predu raschiò in segno di approvazione, mentre il negoziante si arrampicava su una scaletta a piuoli.
«Tutto invecchia e tutto può rinnovarsi, come l'anno», replicò Efix, seguendo con gli occhi la figura smilza del Milese ancora vestito con la lunga sopravveste di pelli del suo paese.
La botteguccia era piccola ma piena zeppa come un uovo: sulle scansie rosseggiavano le pezze dello scarlatto e accanto brillava il verde delle bottiglie di menta; i sacchi di farina sporgevano le loro pance bianche contro le gobbe nere delle botti d'aringhe, e nella piccola vetrina le donne nude delle cartoline illustrate sorridevano ai vasi di confetti stantii ed ai rotoli di nastri scoloriti.
Mentre il Milese traeva da una scatola le lunghe berrette di panno nero, ed Efix ne misurava con la mano aperta la circonferenza, qualcuno apri la porticina che dava sul cortile; e nello sfondo inghirlandato di viti apparve, seduta su una lunga scranna, una donna imponente che filava placida come una regina antica.
«Ecco mia suocera: domanda a lei se queste berrette non costano a me nove pezzas», disse il Milese, mentre Efix se ne misurava una tirandone giù sulla fronte il cerchio e ripiegandone la punta alla sommità della testa. «Hai scelto la migliore; non sei semplice come dicono! Non vedi che è una berretta da sposo?»
«E' stretta.»
«Perché è nuova, figlio di Dio, prendila. Nove pezzas: è come che sia buttata nella strada.»
Efix se la tolse e la lisciò, pensieroso; finalmente mise sul banco la moneta dell'usuraia.
Don Predu sporgeva il viso dalla porta, e il fatto che Efix comprava una berretta così di lusso richiamò anche l'attenzione della suocera del Milese. Ella chiamò il servo con un cenno del capo, e gli domandò con solennità come stavan le sue padrone. Dopo tutto erano donne nobili e meritavano il rispetto delle persone per bene: solo i giramondo arricchiti, come il Milese suo genero, potevano mancar loro di rispetto.
«Salutale tanto e di' a donna Ruth che presto andrò a farle una visita. Siamo sempre state buone amiche, con donna Ruth, sebbene io non sia nobile.»
«Voi avete la nobiltà nell'anima», rispose galantemente Efix, ma ella roteò lieve il fuso come per dire «lasciamo andare!».
«Anche mio fratello il Rettore ha molta stima per le tue padrone. Egli mi domanda sempre: "quando si va ancora assieme con le dame alla festa del Rimedio?".»
«Sì», ella proseguì con accento di nostalgia, «da giovani si andava tutti assieme alla festa: ci si divertiva con niente. Adesso la gente pare abbia vergogna a ridere.»
Efix piegava accuratamente la sua berretta.
«Dio volendo quest'anno le mie padrone andranno alla festa... per pregare, non per divertirsi...»
«Questo mi fa piacere. E dimmi una cosa, se è lecito: è vero che viene il figlio di Lia? Lo dicevano stamattina lì in bottega. »
Siccome il Milese s'era avvicinato alla porta e rideva per qualche cosa che don Predu gli diceva sottovoce, Efix esclamò con dignità:
«E' vero! Io sto qui appunto in paese perché devo comprare un cavallo per lui».
«Un cavallo di canna?», domandò allora don Predu, ridendo goffamente. «Ah, ecco perché ti ho visto uscire dalla tana di Kallina.»
«A lei che importa? A lei non abbiamo domandato mai niente!»
«Sfido, babbeo! Non vi darei mai niente! Un buon consiglio però, sì! Lasciate quel ragazzo dov'è!»
Ma Efix era uscito dalla bottega a testa alta, con la berretta sotto il braccio, e si allontanava senza rispondere.